giovedì 21 maggio 2015

21 Maggio 2015. Per non dimenticare chi non volle negoziare sui Valori e sulle Identità...


di Maurizio Rossi

Dominique Venner nacque a Parigi il 16 aprile 1935.

In gioventù volle temprarsi nella militanza nazional-rivoluzionaria e conserverà nel tempo un ricordo più che positivo di quell’esperienza, giungendo a confermare in una delle sue ultime interviste che l’aver vissuto intensamente le vicende e le passioni estreme dell’attivismo politico era stato propedeutico nell’affinare il suo successivo impegno di storico e studioso.
Fece quindi parte del movimento Jean Nation di Pierre Sidos, svolse il servizio militare come paracadutista in Algeria durante la guerra contro l’FNL, partecipando poi alle pericolose iniziative militanti clandestine dell’OAS.

Negli anni successivi sarà anche un attivo sostenitore del movimento Ordre Noveau e subito dopo fondatore e direttore della prestigiosa rivista di cultura politica Europe-Action.
Sarà anche tra i primi patrocinatori del GRECE, inaugurando la nuova stagione degli studi bio-politici.

Attento studioso della Cultura europea non conformista degli anni 30/40, volle anche riproporre all’attenzione degli ambienti non conformisti quella specifica religiosità indo-europea che aveva incarnato lo spirito originario della nostra Civiltà.

Sarà autore di numerose opere di revisione storica che ebbero il merito di contrastare con efficacia la propaganda del pensiero unico omologante liberal-progressista, diventando un attivo promotore di iniziative di mobilitazione culturale e politica contro l’immigrazione terzo-mondista e la deriva culturale cosmopolita e multirazziale che stava minacciando la sopravvivenza delle nazioni europee.
Sarà infatti tra i primi a denunciare le strategie mondialiste che, attraverso l’utilizzo spegiudicato della demagogia immigrazionista, intendevano pervertire i concetti stessi di sovranità, cittadinanza e appartenenza, snaturandone il significato originario.

Dominique Venner, già dalla fine degli anni settanta dello scorso secolo, aveva previsto tutto questo, tutte le drammatiche ricadute che stiamo subendo: un’impressionante ondata migratoria terzo-mondista la cui definizione, ormai alquanto semplicistica, volutamente semplicistica e banalizzante di ‘”immigrazione” suona patetica e soprattutto ipocrita alla luce della constatabile dimensione degli spostamenti continui di popolazione proveniente dal Nord Africa, dall’Africa nera e dal Medio ed Estremo Oriente e volendoci soffermare esclusivamente alla valutazione quantitativa e strettamente numerica che caratterizzerebbe l’ampiezza e la portata del fenomeno, sarebbe almeno puntuale, logico e maggiormente calzante esprimersi con il termine crudo di “invasione”.

D’altronde, il concetto stesso di “invasione”, come era già stato fatto notare da numerosi studiosi e analisti del fenomeno, oltre che da Dominique Venner, non voleva altro significare che l’ingresso di masse cospicue di altre popolazioni nel territorio di un’altra nazione, senza che quest’ultima possa opporsi ad un tale spostamento, a maggior ragione se un tale spostamento viene agevolato, promosso e sostenuto dai governanti delle stesse nazioni che lo subiscono, facendo appello a presunte e discutibili solidarietà nei confronti dei “migranti”, innalzando in termini esponenziali altrettanto discutibili “sensi di colpa” facendoli ricadere sugli europei.

Una criminale e strumentale “carità” istituzionale che ambiguamente ha come fine un preciso obiettivo: disintegrare l’ormai fragile tessuto identitario dei popoli europei per trasformarli in una massa anonima e nomade piegata alla dittatura dei potentati mondialisti.
Pertanto questa immigrazione cospicua, inarrestabile e incontrollata, che l’intera Europa sta subendo, cosa altro può essere se non una autentica invasione programmata delle nostre terre, visto che si presenta in maniera così metodica e capillare?
Una “invasione” ben particolare visto che ha potuto, purtroppo, vantare numerosi sponsors tra coloro che, all’insegna di una non ben chiara, ma certamente deleteria, “cultura della solidarietà e dell’accoglienza” richiedono a gran voce esclusivamente maggiori garanzie e tutele a beneficio degli extracomunitari, per non parlare poi di chi apertamente si è fatto portabandiera di allarmanti proposte che propagandano una auspicabile assimilazione totale e indiscriminata degli stranieri, circostanza che spalancherebbe la porta al fenomeno ancor più drammatico di una  “immigrazione di popolamento”, ovvero di una graduale sostituzione etnica della popolazione.

Gli stessi interessati e pressanti inviti che continuamente bombardano la popolazione italiana per una rapida riforma del riconoscimento della cittadinanza mediante l’adozione del principio dello Ius Soli, al posto del più giusto e corretto Ius Sanguinis, sarebbero propedeutici per una mutazione volta in tal senso.

Dominique Venner aveva dedicato tutta la sua nobile esistenza per contrastare questa fatalità, questa profezia di sventura, denunciando coraggiosamente la pericolosità delle strategie di manipolazione culturale messe in campo dalle potenti Lobbies mondialistico-finanziarie contro l’Europa, contro la sua Storia, contro i suoi popoli e le loro magnifiche identità.

Lo aveva fatto all’insegna di una visione comunitaria e spirituale che privilegiava il “bene comune” dei popoli europei, le verità e i valori di una Tradizione le cui radici ancestrali affondavano in un arcaico e remoto passato, contrapponendosi alle avvilenti logiche di interesse materiale. Gli interessi sono sempre negoziabili, ma i valori non lo sono mai, e questo Dominique Venner lo sapeva bene.
Per questi motivi decise, serenamente e piamente padrone della sua mente e del suo Spirito, di darsi la morte il 21 maggio di due anni fa, in un luogo per lui altamente simbolico: Notre Dame de Paris.
Un gesto estremo che ha scandalizzato l’opinione pubblica mettendo in imbarazzo molti, anche coloro che lo avrebbero dovuto comprendere: si è preferito dimenticare per non dover correre il rischio di interrogare la propria coscienza.
Politicamente “scorretto” fino in fondo.

Siamo però altresì certi che il sangue che quel 21 maggio venne generosamente sparso a Notre Dame de Paris non sia stato versato invano, inevitabilmente “concimerà” le aride terre d’Europa per riportarle a nuova vita, ancor di più fluirà come un fiume in piena nelle aride anime di quegli europei che non hanno ancora compreso di trovarsi sull’orlo dell’abisso.
Siamo orgogliosamente certi che il sangue sgorgato dal martirio volontario di Dominique Venner genererà immancabilmente i suoi frutti.

Onore al camerata Dominique Venner. Egli vivrà per sempre!



Le motivazioni di una morte volontaria
di Dominique Venner

“Sono sano nel corpo e nella mente, e sono pieno di amore per mia moglie e i miei figli. Amo la vita e non mi aspetto nulla nell’Aldilà, se non la perpetuazione della mia Razza e del mio Spirito. Tuttavia, nel crepuscolo di questa vita, di fronte agli immensi pericoli che corrono la mia patria francese ed europea, sento il dovere di agire ora che ne ho ancora le forze.
Penso sia necessario sacrificare me stesso per rompere il torpore che ci affligge.
Offro ciò che resta della mia vita con l’intento di lanciare una protesta e una rifondazione. Ho scelto un luogo altamente simbolico, la cattedrale di Notre Dame de Paris, che rispetto e ammiro: essa fu costruita dal genio dei miei antenati sul sito di luoghi di culto molto più antichi, ricordando in tal maniera le nostre immemori origini.
Mentre molti uomini sono schiavi delle proprie vite, il mio gesto incarna invece un’etica della etica.
Io mi do la morte al fine di risvegliare le coscienze assopite. Mi ribello contro la fatalità del destino.
Insorgo contro i veleni dell’anima e contro gli invasivi desideri individuali che stanno distruggendo i nostri ancoraggi identitari, prima su tutti la famiglia, intimo fondamento della nostra civiltà millenaria. Mentre difendo l’identità di tutti i popoli a casa propria, mi ribello nel contempo contro il crimine che mira alla sostituzione dei nostri popoli.
Il discorso dominante non può non far trapelare le sue ambiguità tossiche: ora sta agli Europei trarne le dovute conseguenze. In assenza di una religione identitaria cui ancorarci, condividiamo tuttavia da Omero in poi una memoria comune, depositaria di tutti i valori sui quali rifondare la nostra futura rinascita, facendola finalmente finita con quella metafisica dell’illimitato e dell’assenza di confini che è la fonte nefasta di tutte le moderne derive.
Chiedo perdono in anticipo a tutti coloro cui la mia morte farà soffrire, e in primo luogo a mia moglie, ai miei figli e ai miei nipoti, così come ai miei amici e ai miei sostenitori.
Ma, una volta attenuatosi il dolore, non metto in dubbio che sia gli uni sia gli altri comprenderanno il senso del mio gesto e muteranno la loro sofferenza in orgoglio.
Spero che tutti loro si uniscano e si mettano d’accordo per resistere e durare. Essi troveranno nei miei scritti più recenti la prefigurazione la spiegazione del mio gesto.”

(Dominique Venner, Parigi, 21/05/2013)

martedì 5 maggio 2015

Bobby Sands: il cuore e l’anima della rivoluzione irlandese...

di Maurizio Rossi

La protesta che investì il complesso penitenziario di Long Kesh, collocato vicino Belfast, iniziò a divampare nel 1977, quando gli oltre trecento detenuti irlandesi, tutti prigionieri politici repubblicani incarcerati per reati consumati contro l’occupazione britannica, considerati volutamente dalle autorità penitenziarie alla stregua dei detenuti comuni, decisero di rifiutarsi di indossare la tenuta carceraria che li equiparava ai criminali comuni per rivendicare, in quanto militanti nazionalisti, il riconoscimento della loro condizione reale di prigionieri politici.
La blanket protest aveva anche lo scopo di fare giungere all’esterno del carcere notizie sulla reale situazione nella quale versavano i detenuti e sui continui e pesanti maltrattamenti fisici e sulle perduranti violazioni della dignità personale che i prigionieri nazionalisti erano costretti a subire in quanto tali.
Maltrattamenti, pestaggi, “terapie” di correzione che a malapena mascheravano gli sfoghi delle guardie (tutte protestanti e ‘lealiste’, quindi torturatori volontari) che, con il beneplacito dell’amministrazione carceraria, potevano accanirsi senza riguardo alcuno contro i prigionieri repubblicani: “La tortura era una di quelle cose cui avevamo imparato ad abituarci. In realtà avevamo dovuto abituarci (…) non sapevamo mai quale porta avrebbero aperto, chi di noi avrebbero trascinato fuori dalla cella e pestato senza pietà.” Nudi come dei vermi, si coprivano solamente le parti intime con un asciugamano, i prigionieri, vista l’indifferenza glaciale dei carcerieri, furono costretti ad inasprire la protesta passando successivamente alla dirty protest ovvero cominciarono a rifiutarsi di radersi, di farsi tagliare i capelli, di lavarsi e infine si opposero allo svuotamento quotidiano dei buglioli, presenti nelle celle, che contenevano i loro escrementi.
La feroce perfidia delle guardie arrivò al punto di trovare divertimento, ogni mattina, nell’irrompere nelle celle e rovesciare sul pavimento, con un calcio, il contenuto dei buglioli.
Così tutti i giorni, per settimane. Le celle erano diventate delle squallide e sudice fogne dove, a denti stretti, continuava la resistenza dei prigionieri: “Ci sono diversi modi per scuoiare un animale e, nel nostro caso, per tentare di spezzare la resistenza di un prigioniero di guerra.”
Le guardie, sempre tutelate e incitate dalle autorità, si misero d’impegno per piegare la protesta dei blanketmen diminuendo le già ridotte razioni di cibo e utilizzando alimenti avariati, aumentando il numero delle irruzioni nelle celle, sia di giorno che nella notte, per gli ormai divenuti consueti pestaggi e per le degradanti perquisizioni corporali nelle parti intime che precedevano i pestaggi.
A fronte di quelle continue umiliazioni i prigionieri trovarono lo stesso il conforto necessario nella certezza della vittoria, proclamando orgogliosamente “il nostro giorno verrà”, e lo proclamarono in gaelico: Tiocfaidh ar là!
Quando venne permesso all’arcivescovo cattolico Thomas O’Fiaich di visitare i prigionieri lo squallido spettacolo che si presentò agli occhi del prelato fu così sconvolgente da lasciarlo profondamente turbato: “Lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni. L’immagine che più si avvicina a ciò che ho visto è quella delle centinaia di homeless che vivono nelle fogne di Calcutta.” Lo stesso turbamento, però, non scalfì la ferrea arroganza britannica.
I prigionieri avanzarono, allora, al Governo britannico una serie di richieste politiche che se concesse avrebbero posto fine alla protesta. Richiesero che ai prigionieri repubblicani fosse garantito il diritto ad indossare i propri indumenti anziché la tenuta carceraria, non fossero obbligati al lavoro carcerario, fosse loro garantita la possibilità di ricevere una visita e una lettera settimanalmente, fosse loro permesso di unirsi con gli altri prigionieri durante l’ora d’aria e, infine, che potessero usufruire anche loro degli sconti di pena al pari dei detenuti comuni. Il Governo britannico rispose che non avrebbe mai trattato con dei terroristi e, pertanto, avrebbe rigettato le richieste. Per questi motivi e visto il perdurare dell’indifferenza dell’amministrazione politica inglese, che non si sentiva minimamente colpita dalla campagna di controinformazione che dall’esterno gettava logicamente discredito su di essa, il consiglio politico dei prigionieri decise, dietro indicazione strategica dell’IRA, di alzare ancor di più il tono della protesta adottando la forma più estrema e radicale che si potesse immaginare: lo sciopero della fame.
Il primo prigioniero ad iniziare la nuova protesta sarà Brendan Hughes, comandante dei prigionieri repubblicani di Long Kesh, lo seguiranno a ruota altri sette detenuti.
Queste prime proteste durano poco — pur sempre una cinquantina di giorni che ridussero i prigionieri in fin di vita — perché gli inglesi, barando, fecero trapelare la notizia di una possibilità di intesa riguardo alle richieste. Ma si trattò solamente di una delle solite vigliaccate inglesi. Non rimaneva, a questo punto, per gli avviliti prigionieri altra scelta che riprendere con decisione la protesta e portarla fino alle estreme conseguenze.
Toccherà, per sua libera scelta, ad un giovane prigioniero di nome Bobby Sands diventare il protagonista e il simbolo di tutti gli hunger strikers.
Bobby Sands era un volontario dell’IRA a tutti gli effetti, si era voluto arruolare nel 1972 dopo che aveva provato sulla propria pelle e su quella della famiglia le angherie e i soprusi dell’occupazione britannica, le discriminazioni e le intimidazioni degli attivisti protestanti e soprattutto il particolare senso della ‘giustizia’ degli inglesi. Era arrivato a Long Kesh, “ospite” nei famigerati H-Blocks verso la fine del 1977 per scontare una condanna a 14 anni di reclusione per partecipazione ad azioni di terrorismo, fu quindi automaticamente solidale e partecipe con gli altri prigionieri nello svolgimento della protesta per i diritti politici. In carcere irrobustirà la propria formazione politica e culturale e si impegnerà, anche, nello studio del gaelico e il 1 marzo del 1981 deciderà di donare integralmente sé stesso alla causa del suo popolo, per la liberazione dell’Irlanda, per denunciare a tutto il mondo i crimini britannici in terra irlandese.
Inizierà così lo sciopero della fame ad oltranza di Bobby Sands che, per la generosità del suo gesto e la bontà della fede che albergava nel suo grande cuore, diventerà il simbolo della sofferenza irlandese e la bandiera del riscatto nazionale: “Accettare lo status di criminale significherebbe degradare me stesso e ammettere che la causa in cui credo e di cui mi nutro è sbagliata. Quando penso agli uomini e donne che hanno sacrificato la loro vita, le mie sofferenze mi sembrano insignificanti. Ci sono stati molti tentativi per piegare la mia volontà, ma ognuno di questi tentativi mi ha reso ancora più determinato.”
Il Governo britannico, allora guidato dalla Margaret Thatcher, manifestò imperterrito tutto il suo cinico disprezzo nei confronti degli hunger strikers, nonostante che il valore della protesta avesse ormai già varcato i confini dell’Irlanda del Nord e generasse, ovunque, commozione e solidarietà.
L’opinione delle autorità britanniche consistette nell’affermare che se dei “terroristi” avevano deciso di morire di fame, allora potevano pure tranquillamente farlo, con la “benedizione” di Sua Maestà.
Eppure, grazie alla grande solidarietà del movimento repubblicano e agli sforzi del Sinn Fein, guidato dal nuovo presidente Gerry Adams (l’ex comandante della brigata di Belfast dell’IRA) Bobby Sands venne, anche, eletto deputato al parlamento di Westminster.
La notizia che un “terrorista” era diventato un parlamentare rappresentò un boccone troppo indigesto, anche per la Lady di ferro, e al contempo dimostrò che quel “terrorista” era il volto dell’Irlanda e che la Nazione irlandese si stringeva attorno ai suoi prigionieri politici.
Secoli di lotta contro la dominazione britannica avevano abituato gli irlandesi ad andare incontro alla morte anzitempo, anche quando la morte si presentava sotto le forme della casualità e della sfortunata coincidenza, come spesso accadeva nell’Irlanda del Nord. Bastava trovarsi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato e poteva succedere di tutto all’improvviso: un’autobomba che esplodeva di fronte ad un pub, una raffica di mitra proveniente da una macchina in corsa, i colpi sparati da un cecchino inglese troppo nervoso o da uno sbirro della RUC troppo zelante. Ma l’andare incontro alla morte, come fecero gli hunger strikers, come se fosse un estremo atto d’amore nei confronti del proprio popolo e della propria Nazione, rappresentò una novità così sconvolgente da marcare la coscienza degli irlandesi in maniera indelebile.
Dopo 66 giorni di digiuno, Bobby Sands, morendo poneva fine al suo doloroso calvario.
A coloro che nei giorni precedenti il decesso, implorandolo, gli chiedevano di smettere, di interrompere la protesta Bobby Sands, serenamente, rispondeva: “Sorry, but I must die”, Scusatemi, ma io debbo morire. Il 5 maggio 1981 l’Irlanda repubblicana era in lutto, quella protestante in apprensione per quello che avrebbe potuto fare l’IRA.
Non era ancora tempo di vendette, quel momento sarebbe giunto, ma dopo i funerali.
Dopo Bobby Sands moriranno altri nove prigionieri che avevano iniziato a ruota lo sciopero della fame ad oltranza: Francis Hughes, Raymond Mac Creesh, Patsy O’Hara, Joe Mac Donnel, Martin Hurson, Kevin Lynch, Kievan Doherty, Seamua Mac Elwain e Micky Devine. Anche loro si immoleranno volontariamente sull’altare sacrificale della libertà irlandese e il numero dei “votati al martirio” sarebbe stato anche maggiore se, nel frattempo, non fosse giunto a Long Kesh l’ordine da parte del Comando dell’IRA di interrompere la protesta.
I funerali di Bobby Sands saranno solenni e imponenti, decine e decine di migliaia di irlandesi accompagneranno il feretro del combattente repubblicano, avvolto nella bandiera tricolore irlandese, nel suo ultimo viaggio verso il cimitero di Milltown, non mancherà neppure il picchetto armato d’onore dell’IRA.
I fucili dell’IRA spareranno a salve per rendere testimonianza e gratitudine al coraggioso volontario.
L’esercito britannico che in forze e a distanza presidiava la zona dovrà sopportare anche questo affronto.
“Bobby Sands, deputato al Parlamento, volontario dell’IRA, prigioniero politico di guerra, Requiescat in Pacem.”
Con i funerali di tutti e dieci hunger strikers si andava così chiudendo una delle pagine più gloriose della tormentata storia dell’eroico popolo irlandese. Dimenticare tutto questo, dimenticare il loro sacrificio sarebbe ingiusto nei confronti della Storia della Nazione irlandese, ma soprattutto sarebbe un’offesa alla nostra coscienza e alla loro memoria.
Onore ai caduti dell’Esercito repubblicano irlandese!
Onore a Bobby Sands e ai martiri di Long Kesh!