giovedì 29 gennaio 2015

Il richiamo della foresta...

di Mario M. Merlino

Può un libro, suddiviso in tre volumi, sommanti ben 2108 pagine, riassumersi in una frase, in un unico periodo? Ovviamente no. Sarebbe fare torto all’autore. Un libro, però, è simile ad un lago ove ciascuno vi trova, vi pesca quanto gli occorre (qui la diffidenza di Socrate ad affidarsi alla parola scritta e sottolineata dal suo discepolo Platone), vi si ritrova magari e appunto in una sola immagine, in una eco ove emergono rimandi a quanto già leggemmo e avvertimmo appartenerci. Una sorta di biblioteca universale, per rifarmi a Jorge Luis Borges, lo scrittore argentino cieco. Insomma: ‘Ancora una volta la via del ribelle portava al bosco e alla montagna’, a pag. 678, libro primo, La mano di Gloria, autore Renato ‘Mercy’ Carpaneto. Per chi non lo conosca è il cantante degli Janua, gruppo genovese, dove la memoria di D’Annunzio a Fiume, ardimento spavalderia irriverenza la fanno da padroni nei testi. Io l’ho conosciuto a Trieste, la mattina dopo il suo concerto, in attesa ognuno di noi di rientrare nelle rispettive città. Nell’anniversario del 10 febbraio 1947, firma del Trattato di Parigi, ove fummo costretti a cedere – dopo il disonore dell’8 settembre 1943, storia tragica di furbetti travestiti da monarca e maresciallo d’Italia – l’Istria e la Dalmazia. E la città giuliana, che di quelle vicende visse sulla pelle dei propri cittadini i 55 giorni d’occupazione slava la foiba di Basovizza e di Monrupino il distacco dalla Patria fino al 1953 con i suoi morti di novembre uccisi dalla polizia armata dagli inglesi, ne fa ricordo con un composto corteo che, dalla chiesa di Sant’Antonio, risale silenzioso fino al colle di San Giusto.
‘Ancora una volta la via del ribelle porta(va) al bosco e alla montagna’, richiamo esplicito, mi sembra, a Il trattato del ribelle di Ernst Juenger, a quel ‘passare al bosco’, appunto. Dove, avverte lo scrittore tedesco, ‘dietro questa espressione non si nasconde un idillio’, ma la figura del Ribelle, di colui/coloro che si dissociano dalla società – i lupi che, celati nel grigio del gregge, si predispongono a dare battaglia. In fondo la libertà dell’Uno richiede il sangue a testimone e difesa come ben sapevano i Romani nel ‘mito’ del Rex Nemorensis… Qui, però, mi serve la citazione solo come inizio, uno possibile fra i tanti, per riflettere con brevi note sul secolo trascorso ove tecnica e massa fecero la loro apparizione e s’imposero.
In questo centenario, appena trascorso, della Grande Guerra (per l’Italia vale questo anno, essendo entrati nel conflitto a fine maggio del ’15) tutti i critici studiosi interessati ed altri ancora – la pletora di economisti sociologi psicologi – riconoscono come furono gli anni della guerra che gettarono le basi per quella che, poi, verrà chiamata ‘società di massa’. Quindi non solo ‘guerra di materiali’, secondo la felice espressione usata dallo Juenger (si legga il breve saggio La mobilitazione totale) dove, pur se conosciuti e adoperati già in precedenti conflitti, divennero prioritari quali risorse produttive e capacità innovative: si pensi ai cannoni le mitragliatrici i gas venefici il filo spinato carri armati aeroplani sommergibili. Guerra che richiese milioni di uomini in armi e milioni di uomini alle loro spalle – operai per la produzione bellica rifornimenti di vestiario di scarpe (già Napoleone aveva sentenziato come ‘in guerra, quelle che mancano sono sempre le scarpe’) di vettovaglie fino alle puttane nei bordelli delle retrovie. I grandi numeri. E, terminato il conflitto, è proprio il ruolo dei reduci a divenire, di fatto, la cinghia di trasmissione tra le masse in divisa e la società delle masse. La letteratura in proposito non manca (si pensi a I proscritti di von Salomon, di cui facciamo riferimento in quanto fu fra i primi libri della mia personale biblioteca).
Alla fine dell’Ottocento (1895) un etnologo e psicologo francese, Gustave le Bon, aveva dato alle stampe Psicologia delle folle, con cui tentava di dare linguaggi atti a gestire padroneggiare guidare i fenomeni nuovi di quelle folle, appunto, che attraverso l’urbanizzazione e la seconda rivoluzione industriale chiedevano, in modo del tutto inconscio, di rappresentare se stesse nel nuovo scenario della storia. Potremmo parlare di tecniche di persuasione da applicare alla molteplicità indistinta di persone (nell’accezione originaria di maschere) che, agendo in modo uniforme, mostrano i tratti similari. George Mosse, divenuto famoso per gli studi sulla ‘nazionalizzazione delle masse’,  lo ritiene un solido punto di riferimento per comprendere certi fenomeni totalitari e, certo, risulta come Benito Mussolini ne fu grande estimatore (‘è un’opera capitale alla quale spesso ritorno’).
In una certa linearità di posizioni varrebbe ripercorrere, pur brevemente, quanto affermato dall’ingegnere Vilfredo Pareto, più noto per i suoi studi di sociologia, maestro e amico di Mussolini durante l’esilio di costui in Svizzera e, poi, suo sprone (suo il telegramma di rompere ogni indugio alla vigilia della Marcia su Roma) e il giurista siciliano Gaetano Mosca, che a differenza fu sempre ostile al Fascismo. Entrambi accomunati fra loro per l’attenzione verso le élites di governo e il cittadino (la teoria delle classi politiche in Mosca), anche se il Pareto tenne sempre a chiarire l’autonomia della sua riflessione. Sono la dimostrazione di come si vada creando una sorta di attenzione a più voci, non soltanto nei termini della lotta politica (il socialismo e le sue componenti), ma come indagine ‘scientifica’ nata dal concreto esperire della realtà.
Così basterà ricordare due opere che, a diverso titolo, mi sono familiari e appartengono alla mia formazione nello scorrere degli anni, soprattutto giovanili. Mi riferisco a La ribellione delle masse (1930) del pensatore spagnolo José Ortega y Gasset e di Erich Fromm Fuga dalla libertà (1941), di quest’ultimo ho l’edizione del 1963 con su il visto della direzione del carcere di Regina Coeli e il mio nome e cognome con l’inconfondibile grafia di mia madre (povera mamma che andava a comprarmi i libri, sovente fortemente ‘sovversivi’, tanto che il commesso una volta ardì chiederle di quel suo figlio che mandava lei e non veniva mai di persona…).
Nelle società ordinate vi erano delle ‘aristocrazie’ o élites deputate alla conduzione della vita pubblica e le masse (il popolo) che in esse si riconoscevano e ad esse delegavano la gestione del potere. Ora è apparsa la nuova figura dell’uomo-massa, che tutto ingloba sancisce determina, è metro di se stesso ed esclude tutto quanto non ricade sotto il suo possesso. E’ la dittatura onnivora della totalità, negatrice d’ogni distinzione di ogni differenzazione, insomma la premessa di quel pensiero unico di cui siamo vittime e testimoni. E’ la volgarità (Nietzsche: ‘l’oggi appartiene alla plebe’) che si consuma sotto i nostri occhi… Il mondo moderno, secondo Fromm, porta al conflitto insanabile tra l’idea di libertà e l’avvertire l’angoscia della solitudine nel momento in cui, nella cultura europea, nasce l’individuo (atomo che tutto pretende) rispetto alla persona (coscienza del proprio ruolo determinato). Isolato fra e negli altri egli deve scegliere se rivendicare, simile a Titano, la sfida agli dei in nome del proprio Io arbitro e orgoglioso oppure, annientato nella condizione di essere prigioniero del nulla, confondersi identificarsi sentirsi parte del tutto (che sia fascismo o comunismo o democrazia la variante sta solo nella brutalità dell’asservimento, dove poi gioca lo status di esule ebreo e psicanalista dell’autore negli Stati Uniti). Di altri si potrebbe indicare l’opera, come Sigmund Freud che nel 1921 scrive Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Tutti volti a rilevare gli aspetti in negativo del fenomeno. Tutti eredi dell’Ottocento borghese, scettico, conformista, arrogante e presuntuoso…
E’ il reducismo della Grande Guerra – ne abbiamo fatto cenno – che porta nella società la presenza delle masse e si fa carico di esserne interprete (i socialisti che furono ostili alla guerra e si fecero avversi al reduce dal fronte pagarono, in Italia prima poi in Germania, lo scotto di questa avversione). Il totalitarismo media immagini simboli riti dalla vita militare per inquadrare le masse e trasformarle in un blocco unico e unitario (si pensi all’Armata Rossa e quanto Stalin si servì per il socialismo reale, se non vogliamo ripetere quanto significativo fu l’arditismo il fiumanesimo lo squadrismo per il Fascismo nella sua coreografia). Insomma, ancora una volta, non gli intellettuali furono gli interpreti della storia, a volte confusi spettatori e raramente acuti, ma coloro che venivano dalla fucina del reale esperire (il caporale Benito Mussolini, il caporale Adolf Hitler, ad esempio). Così non è paradossale ed osceno il grido lanciato da uno dei protagonisti del dramma dedicato ad Albert Leo Schlageter, l’ufficiale dei Freikorps, fucilato dai francesi il 26 maggio del 1923 con l’accusa di sabotaggio durante l’occupazione del bacino minerario della Ruhr: ‘Quando sento parlare di cultura metto mano alla sicura della pistola!’… Follia e disperazione ma anche spirito di riscossa e speranza. Dalle trincee in armi alla società rinnovata dallo spirito delle armi.
E, qui, ritorno e concludo là dove ho preso l’avvio. Io, professore in pensione, piccolo borghese, presunto intellettuale e scrittore, intimamente convinto d’essere un genio, con lo studio sommerso di libri… Ernst Juenger scrive Il trattato del ribelle perché fu soldato, massima la decorazione ottenuta, reduce, unendo la capacità dell’entomologo di non disperdere il più piccolo dei particolari (per una farfalla il protagonista di Niente di nuovo sul fronte occidentale si prende una pallottola in fronte). Consapevole, però, che siamo in altro dopoguerra dove chi ha vinto s’è ammantato e s’ammanta di ideali di libertà democrazia pace pane e rose stelle rosse e stelle a strisce. Il tallone di ferro può ben essere rivestito di sigarette coca-cola sesso e rock’n’roll… E, allora, l’individuo atomizzato dal totalitarismo in nome di una dignità più alta e collettiva, finito nel tritacarne della storia, da questo gregge di individui grigi conformisti consumisti falsamente pacificati vili può e deve farsi largo il lupo… e, come ne Il richiamo della foresta, sa che porta il sé il destino di ‘passare al bosco’…

mercoledì 28 gennaio 2015

Quale Europa tra Wall Street e la Mecca???






di Enrico Marino (EreticaMente.net)

La vicenda di Charlie Hebdo ha riportato in primo piano il problema della contrapposizione in atto tra differenti civiltà, mostrando crudamente la distanza enorme che separa le due sponde del Mediterraneo.
Dalle formidabili intuizioni spengleriane alle più recenti analisi di Huntington, la continua trasformazione “faustiana” di quello che noi definiamo “Occidente” ha prodotto, nel tempo, quella regressione che per il filosofo tedesco rappresentava, appunto, la fase della “decadenza” – indicata come zivilisation – e per il politologo statunitense era l’indice dell’insuccesso nel tentativo di “modernizzazione” planetaria di fine secolo.
Tale ultimo periodo della civiltà occidentale viene descritto da Spengler, già negli anni venti, come caratterizzato dal dominio del denaro e della stampa, un tempo intellettualmente arido e politicamente fragile, capace di ritardare la propria fine solo per mezzo del cambiamento continuo di modelli di riferimento, ma comunque sempre privo di speranza.
Per Huntington, invece, si tratta della fase in cui si assiste al fallimento di un’illusione, quella di chi pensava che con l’illimitata espansione delle conoscenze tecniche e scientifiche artificialmente sovrapposta a un insieme di valori culturali, questi ultimi si potessero imporre ovunque, automaticamente, mediante l’esportazione delle prime.
Nei fatti, nessun progressista ammetterebbe mai che la costante predicazione di ideologie crepuscolari ha infettato e corroso i pilastri della società occidentale a tal punto che la sua decantata supremazia, presupposto della sua capacità di attrazione e di assimilazione, è franata anch’essa da tempo sotto il crollo dei modelli culturali tradizionali.
Attualmente, infatti, viviamo nella società del libero arbitrio e della libertà assoluta, riluttanti a ogni principio tradizionale e a ogni ordine superiore, sottoposti all’implacabile tirannia dei “diritti dell’individuo” che ormai abbracciano ogni dominio e che, in ogni campo, hanno di gran lunga superato ogni limite e travolto la categoria dei doveri dello stesso individuo nei confronti della propria comunità, della sacralità della vita e della natura e della tutela della propria stirpe.
In una società in cui lo scientismo ha soppiantato il trascendente, l’utilitarismo ha prevaricato sul retto e sul giusto, la normalità è stata degradata a oscurantismo, anche la famiglia tradizionale non è più un caposaldo né una certezza e l’Occidente s’è impegnato in crociate eversive, come quella contro i termini “mamma” e “papà”, che si vorrebbero cancellare, definendoli parole sessiste, per lasciare invece spazio ai modernissimi e tolleranti “genitore 1” e “genitore 2”.
C’è già il progetto di diffondere, fino dalle scuole elementari, materiale sull’educazione sessuale informato al principio “gender”, cioè stimolando i bambini verso modelli che trasgrediscono al comportamento previsto dal ruolo del proprio genere sessuale, grazie alla teoria secondo la quale il sesso di una persona non è dato in natura, ma è piuttosto una sorta di costruzione sociale, una caratteristica che si può accettare o rifiutare e, nel caso, trasformare e indirizzare sulla base di scelte personali.
Contrastare questa deriva è bollato come una manifestazione di intolleranza, un atteggiamento omofobo e sessista che disconosce la libertà individuale, la dignità della persona e il suo “diritto” a orientarsi anche sessualmente a proprio piacimento.
Da decenni sono oggetto di studio, nei cenacoli progressisti, le vie più opportune per giungere alla regolarizzazione dei rapporti incestuosi tra soggetti adulti e consenzienti né è più considerata oscena o surreale l’ipotesi avanzata da diversi esponenti della sinistra radical circa la necessità del riconoscimento anche delle relazioni con minori, fino a oggi ritenute un reato di pedofilia, per valorizzarne invece sia la componente amorosa-affettiva, sia “il diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro o con gli adulti”, riconoscendole come rapporti degni di tutela e legittimazione sociale.
Del resto se uno dei padri dell’illuminismo, Jean Jacques Rousseau, scrisse nelle sue Confessioni di avere comprato a Venezia una bambina di 10 anni, per dilettarsi sessualmente come terapia antidepressiva, quali argomentazioni si potrebbero opporre oggi, nell’epoca del pieno trionfo del relativismo, alla devianza dei costumi, alle degenerazioni etiche, al riconoscimento delle adozioni lesbo-gay o alla genitorialità omosessuale, sancita per legge e ottenuta nei più differenti contesti col ricorso ai mezzi più asetticamente spregevoli della bioetica e della bioingegneria??
Ma allora, occorre chiedersi francamente, dopo aver bruciato, distrutto e dissacrato tutti i riferimenti e i simboli di una Tradizione millenaria, in che modo l’Occidente pensi di potersi ragionevolmente “integrare” coi popoli di differente cultura che premono alle sue frontiere?
Come può, questo Occidente, parlare sinceramente e con fondamento di accoglienza, laddove s’erge un’insormontabile barriera d’incompatibilità, oppure di valori condivisi, laddove esiste una siderale differenza di costumi, principi e comportamenti?
Le teorie antropologiche che attribuiscono alla struttura familiare un ruolo decisivo nel costituire il sostrato fondamentale delle strutture economiche, sociali e politiche di una nazione, consentono di prevedere la devastazione sociale che, col tempo, sarà determinata dalle trasformazioni intervenute negli assetti familiari occidentali e le terrificanti divaricazioni culturali e psicologiche che tali trasformazioni possono aver già prodotto tra un’Europa indifferente e laicizzata e le “famose” seconde e terze generazioni di immigrati di origine araba che vi sono confluiti.
D’altro canto, chi ancora crede nella sovranità della propria Tradizione e nella inderogabile difesa della propria identità, afferma, a ragione, che nessun immigrato può tentare d’imporre le sue regole né la sua volontà; chiunque arriva da fuori deve sapere che questa è la terra degli europei, ricevuta dai padri e dai padri dei loro padri e così via, risalendo nei secoli, che dev’essere tramandata alle future generazioni europee; e chi è arrivato da fuori, poiché nessuno ve l’ha costretto, ma ha scelto di farlo qualunque ne sia stata la ragione, se non accetta questo impegno né le leggi dei popoli europei o il loro modo di vivere, è bene che torni da dove è partito.
Eppure, se a questa giusta affermazione di principio si facessero seguire alcune oneste considerazioni, occorrerebbe chiedersi cosa sia rimasto oggi, della Tradizione europea e di quella identità, che sia ancora veramente degno d’essere difeso e che non sia stato già contaminato e sporcato dall’ideologia della sovversione, dal relativismo positivista, dalla laicità materialistica e atea, dal razionalismo arido e corruttore d’ogni valore e d’ogni ordine superiore.
Anzi, proprio chi non ambisce a integrazioni di sorta e men che meno auspica società multiculturali, dovrebbe confessare a se stesso che per poter assimilare individui estranei, li dovrebbe costringere ad accettare quei “valori” occidentali che, in larga parte, lui stesso rifiuta e considera decadenti e indegni.
Paradossalmente, in molti casi, proprio coloro che con più forza e determinazione oppongono un giustificato rifiuto a comportamenti intollerabili e usanze totalmente incompatibili con i costumi europei, in molte altre circostanze dovrebbero prestarsi, addirittura, a “corrompere” lo straniero per ridurlo alla dimensione degradata degli individui subumani che pullulano nelle società progressiste contemporanee.
Inevitabilmente, allora, chi volesse restare ritto sulle macerie di questa epoca cupa, fermo su posizioni intransigenti verso la dissoluzione odierna e saldo nei propri principi, dovrebbe essere parimenti antitetico tanto ai messaggi corruttori del mondialismo progressista quanto ai furori ancestrali del fanatismo religioso. Tanto irriducibile dinanzi alle nuove rivendicazioni individualiste, cosmopolite ed egualitarie, laiciste, anti-identitarie e profane, che si concentrano intorno alla demonizzazione del passato europeo e alla promozione di una mentalità cosmopolita o mondialista, quanto inflessibile verso chiunque volesse sostituire la tirannia del Nuovo Ordine Mondiale con l’esaltazione di un fanatismo totalmente estraneo alla spiritualità non semita.
Né Wall Street né La Mecca potranno mai rappresentare soluzioni accettabili per il futuro dell’Europa. Ma c’è una via per opporvisi, che non passa per le paludi mefitiche della sinistra greca, sul modello Syriza, con le sue devastanti ricette, un mix liberista e assistenzialista, con la nazionalizzazione di un milione di extracomunitari a fronte di undici milioni di cittadini greci. E’ una via tutta in salita, ma guarda diritta verso le stelle.

venerdì 23 gennaio 2015

Mishima sublime scrittore con le ali nel nostro presente senza incanto...


di Renato de Robertis (Barbadillo.it)

Novanta anni fa Kimitake Hiraoka, cioè Yukio Mishima. Nasceva una vita straordinaria, in un remoto gennaio, a Tokio. Oggi, questo intellettuale unico avrebbe avuto novanta anni e avrebbe parlato ancora al suo Giappone e al risveglio della Tradizione. Reduce di un’ esistenza mai placata, egli forse avrebbe avuto parole miti, dopo la sua storia di poeta-soldato. Ma Yukio decise di non parlare più, perché portava dentro di sé un desiderio: bruciare; perché all’uomo spetta un destino, ossia “appartenere al cielo” e continuare ad innalzarsi, “in alto, sempre più in alto, e senza tregua… / verso altezze remote dell’umano” - dal suo “Icaro”(1968) – e sino a bruciare.
Sulle soglie di una guerra di religione e sull’asfalto arroventato di una crisi epocale, attualmente, sappiamo rileggere il vitalismo di Mishima? Noi, i disincantati e tanto realisti, possiamo continuare a recitare i suoi abbaglianti versi, “Niente mi può appagare…” Piace rammentare la sua passione novecentesca tutta raccolta nell’opera-eredità “Sole e Acciaio”. E attrae tuttora il suo racconto contro-rivoluzionario; tuttavia, non sembra essere questo il momento per scrivere del poeta che cercava prove seducenti del coraggio nel dolore e nella morte. Invece, le nostre sensibilità post-romantiche hanno voglia di leggere un Mishima minore, meno assorbito dal mercato editoriale, naturalmente meno completo rispetto alle “Confessioni di una maschera” (1958).
In questi nostri giorni dubbiosi, è il narratore di “Ali” (1951) o de “Il pino della Hama Rikyu”(1951) o di “Cruciverba” (1952) che ci rende più sensibili. Queste opere di un giovane scrittore, raccontante ansie, disegnano una sofferente delicatezza. In particolare “Ali” riferisce la storia di una sopravvivenza dentro una narrazione trasparente, molto simbolica; e qui il simbolismo è raffigurato dalla comparsa delle ali sul corpo di un adolescente. Ecco Mishima, lo scrittore delle ali… quelle ali mai scoperte sulle nostre schiene… quelle ali che, per realistica miopia o per disincanto utilitaristico, non riusciamo a ritrovare poiché abbandonate come i sogni, come le ali che “… non venivano mai spazzolate, le penne diventavano sporche e grigiastre come le piume di un uccello imbalsamato. Sugio non riusciva a capire il senso di muoverle su e giù.”
 Le ali di Mishima, ovvero una metafora, per ritornare al sogno, per non dimenticare progetti o SCOMMESSE. E’ vero, “Le ali non sono adatte  per camminare sulla terra” ma senza le ali siamo spinti verso conclusioni infelici, verso un presente che non sa custodire la voglia di vivere. Come accade a Yoko, personaggio del racconto, travolta dalla violenza,“Yoko non aveva più la testa. La ragazza senza capo, inginocchiata in terra non cadde, come sostenuta da  forza inesplicabile: solo, battè ripetutamente  entrambe le braccia bianche su e giù con violenza, come ali…”
Il poeta con vivide visioni per il Giappone imperiale; l’intellettuale innamorato del pensiero che si rinnova in azione; il cultore del corpo-strumento che si trasforma perennemente; Mishima, il ‘Che Guevara della Destra’, come lo definiva Marcello Veneziani in un lontano articolo del 1995 – a novanta anni dalla sua nascita – può ritornare a noi, più che mai, con un racconto breve e favolistico. L’opera “Ali” raffigura allegoricamente un avvertimento, vale a dire: abbiamo disimparato a scoprir le ali; esse stanno lì dietro, sulla nostra schiena curva, e forse ne sentiamo pure il peso come il personaggio del racconto, “Infatti, le rigide ali invisibili si posano sulle sue spalle come un falco e guardano il suo profilo con grande solennità. Sugio non sa che ostacolano in silenzio la sua carriera. Non c’è nessuno che insegni come liberarsi di queste ali?” oppure aggiungiamo metaforicamente: C’è qualcuno che ci insegni come usarle, le ali?  E c’è qualcuno… per ritornare a volare, a sperare?

martedì 20 gennaio 2015

“La Grande Guerra Futurista” e Italo Balbo trasvolatore: Avanguardia o Fascismo?


di Giovanna Balducci (Barbadillo.it)

Centosei anni fa, con il famoso Manifesto nasceva il Futurismo, prima avanguardia artistica e culturale della storia, che rappresentò un NUOVO modo, inusitato, di approcciarsi non solo all’arte, ma alla vita stessa.
futurismobookcarmOggi, memore di questo grande passato senza per questo essere passatista, in quanto crediamo anche disposto a seguire il proclama di Marinetti, ossia di cestinare gli uomini che furono, il movimento Neo-Futurista sale nuovamente agli onori delle cronache con una azzeccata PUBBLICAZIONE nel centenario dell’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale ed in memoria di Italo Balbo trasvolatore, indimenticato ed indimenticabile orgoglio nazionale.
L’opera giustappunto intitolata La Grande Guerra Futurista (Wold War I, Centenario 1915-1918) Italo Balbo trasvolatore: Futurismo o Fascismo? Eedita da La Carmelina Edizioni e curata dallo stacanovista del Neo-Futurismo nostrano Roberto (Roby) Guerra, vero e proprio catalizzatore di cultura in quel di Ferrara, vede la collaborazione di più teste pensanti della cultura neofuturista e neofuturibile nostrana, tra cui Graziano Cecchini papà del Rosso-Trevi, Vitaldo Conte, Sandro Giovannini, Paolo Melandri, e Antonio Saccoccio, coadiuvati nell’impresa da GIOVANI e meno giovani, navigati lupi di mare e enfants terribles dell’avanguardia italica, tra cui il giovane rampante Luca Siniscalco.
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 L’opera è architettata in una serie di brevi e godibili saggi, che consegnano al lettore un fervido e conciso ensemble di ciò che fu, di ciò che è e di ciò che sarà l’Avanguardia (Da Marinetti a Tzarà, a Dalì, alle folle lisergiche di Woodstock, allo sputnik, ai sogni transumanisti), processo che ha visto un inizio con il Manifesto del 1909, ed un battesimo di fuoco nelle trincee di guerra, che ha accompagnato l’Italia durante gli anni controversi del Fascismo, ma che con contaminazioni e variazioni sul tema attinenti al tempo e allo spazio ha fatto proseliti in tutto il mondo e ancora oggi a più d’un secolo CONTINUA ad ispirare i cuori e le menti di nuovi Ulisse dell’arte, della cultura, della vita.

sabato 17 gennaio 2015

FOIBE: IO NON SCORDO!


Come da tradizione, anche quest’anno la destra fiorentina, unita dal tricolore, ricorderà i MARTIRI DELLE FOIBE. Ricorderemo le decine di migliaia di innocenti torturati e uccisi, gettati vivi - spesso a guerra terminata - nelle cavità carsiche del confine orientale. Innocenti che sono stati uccisi due volte: dall’odio comunista dei partigiani titini e dall’oblio di una cultura imposta e faziosa che ha relegato questa tragedia sotto silenzio. Una pulizia etnica su vasta scala della quale ancora si stenta a parlare a causa dell’imbarazzo provato da certa sinistra, all’epoca connivente con i carnefici. Ricorderemo le vittime di un odio cieco, massacrati perché “colpevoli” di essere italiani e di non voler rinnegare la propria italianità.

Ci saremo perché crediamo che la Patria non sia soltanto un’eredità dei nostri padri, ma un prestito dei nostri figli. Ci saremo perché l’appartenenza alla nostra Terra e i valori della nostra Civiltà si difendono anche onorando il sangue versato. Ci saremo perché vogliamo tramandare a chi verrà dopo di noi il senso di una memoria condivisa, l’amore per l’identità nazionale e la precisa volontà di far parte di un Popolo che sia prima di tutto una Comunità cosciente delle proprie radici, orgogliosa dei sacrifici e pronta ad affrontare il futuro a testa alta e senza paura. 

Perchè la nostra missione non è soltanto quella di vivere il presente e di onorare il passato, ma anche di costruire il futuro nel solco di quei principi etici e morali che sono il solo e vero antidoto per salvarci dalla crisi in atto. Perché abbiamo il dovere di fare i conti con la storia, tutta, senza omissioni di comodo e revisionismi di parte. Perché anche a Firenze deve tornare a sventolare il tricolore e noi faremo sventolare i nostri dal punto più alto della città, guardandola in tutto il suo splendore. 

MANIFESTAZIONE TRICOLORE
SABATO 14 FEBBRAIO 2015 ORE 16 
PIAZZALE MICHELANGELO - FIRENZE

FIACCOLATA, PRESIDIO, INTERVENTI, TESTIMONIANZE

venerdì 16 gennaio 2015

Reato di associazione terroristico-eversiva...


di Alessio Mulas (L'Intellettuale Dissidente)

La gioia dei genitori, le lacrime degli amici, le dichiarazioni e controdichiarazioni dei politici, le analisi a caldo dei giornalisti. Che splendido teatrino, per Greta e Vanessa. Vorremmo poterle descrivere come due ragazze ingenue. Ma anche no. E non perché i loro poveri padri le descrivono come «brave, responsabili, non superficiali» – ahimè, un genitore per amor dei figli vivrebbe anche con due coscioni di prosciutto sugli occhi, di quelli con uno strato di grasso così spesso da impedirti di VEDERE la realtà anche oltre il tuo naso. Nemmeno perché le immaginiamo ingannate da una propaganda degna di un Goebbels, tanto da partire zaino in spalla per la Siria, quasi fosse un Erasmus esotico e di beneficenza, insieme a quel Daniele Raineri – altro grullo che passa il tempo a sputare merda sulla verità, quasi fosse un conato di ritorno da coprofago, dalle colonne de Il Foglio.
No. Diremo, senza tradire incertezze, quello che Greta e Vanessa sono state: cooperanti. Le chiamano così, sulla CARTA stampata targata Italia. E cooperato hanno: sì, con i terroristi, i tagliagole, gli assassini. Il cartello nelle loro mani, ritratto in quella foto vista ormai alla nausea, era dedicato «agli eroi di Liwa Shuhada», brigata di ribelli formato da civili siriani, cani da battaglia ben legati al guinzaglio dell’Esercito siriano libero, i cui capi godono della bella vista delle suite degli alberghi a cinque stelle di Istanbul. Altro che ingenue le giovincelle, altro che stupide! Sapevano bene che le immagini dei civili massacrati, che tutti noi conosciamo, sono il prezzo di una guerra infame. I traditori della Patria, nell’Inferno dantesco, subivano la pena immersi nel ghiaccio fino al collo, nel freddo gelido dell’Antenora. Dietro quel cartello, sventolava il tricolore verde-bianco-nero, la falsa bandiera di chi lucra e gioisce della distruzione di un Paese. Alla Siria non si addice il verde di un islamismo omicida e mal politicizzato, quanto il rosso del sangue dei martiri. Martiri che di essa hanno fatto un polo di resistenza contro il vento di un Occidente che tutto distrugge e nulla ricostruisce.
Le istituzioni, all’unisono, si sono compiaciute della liberazione di Greta e Vanessa. Due cittadine italiane che tornano a casa sono una piacevole notizia. È però tempo di risputare quei rospi che vi fecero ingoiare. Il cattivo Assad, le armi chimiche, le stragi, i bombardamenti sui civili, i terroristi di Hezbollah; e poi ancora i combattenti per la libertà, la PRIMAVERA araba, i gentili alleati che aiutano i ribelli, era tutto una serie inesauribile di pallottole di propaganda, sparate dritte dritte contro noi teste di turchi.
Ora sono libere: processatele. Il diritto italiano prevede un reato di associazione per terrorismo internazionale, e il caso dovrebbe rientrare tra questi. Abbracciatele, baciatele, fatele gli auguri, ma poi dritti nella stanzino, con avvocati e inquirenti – senza dimenticare il giornalista Raineri e il fabbro, loro complice, Roberto Andervill. La Procura di Roma aveva aperto un’inchiesta per sequestro di persona a scopo di terrorismo, eppure qui si tratta anche di altro. Tirate le orecchie di Greta e Vanessa, perché sentano meglio la morale della favola: chi di terrore ferisce, di terrore perisce. Due bellissimi versi di Rino Gaetano assicuravano che «la donna di strada è un fatto mitico / se a prezzo politico ci puoi pure sta’». I soldi del riscatto, salvo smentite, sono il «prezzo politico»: due cooperanti più un sacco di menzogne. Prendi tre, paghi 12 (milioni).

giovedì 15 gennaio 2015

Good bye George...







di Andrea Minciaroni (L'Intellettuale Dissidente)

Sembra passata una vita da quando Henry Kissinger lo definì come: “il mio migliore amico comunista”. La storia di Giorgio Napolitano è come uno di quei film dove il protagonista principale, pur di rimanere vivo in mezzo a degli spietati nemici decisi a farlo fuori, riesce, con grande abilità, a svignarsela diventando amico di tutti e accontentando chiunque riesca a salvarlo anche a costo di perdere la propria dignità. Una storia, quella del “buon” Giorgio, che incarna alla perfezione i vizi – senza le virtù – del nostro paese: la capacità di schierarsi, in base ai momenti e alle occasioni, con il potere di turno: prima fascista, poi comunista, poi atlantista, oggi europeista, domani chissà.  A prescindere da tutte quelle fallimentari iniziative con cui ci ha consegnato all’Europa della Troika, attraverso la geniale idea delle larghe intese, grazie a cui tre presidenti del consiglio si sono seduti a Palazzo Chigi senza passare per le elezioni; la cosa che ci preme sottolineare qui – che non viene ribadita quasi mai – riguarda il fatto che, durante i suoi sette anni di presidenza, l’Italia è riuscita ad aumentare ancora di più il suo asservimento verso quella che forse è stata è sarà per sempre la vera madrepatria di George: gli Stati Uniti d’America.
In questi sette anni abbiamo combinato di tutto: abbiamo bombardato, a discapito delle nostre aziende, quello che fino a pochi mesi prima era un  nostro alleato che piazzava il suo bel tendone a Villa Pamphili, non ci siamo opposti al tentativo di rovesciare Assad e oggi scopriamo improvvisamente che i terroristi ce l’hanno anche con noi, abbiamo approvato le sanzioni economiche verso la Russia nonostante il giro di affari che abbiamo messo in piedi con i nostri imprenditori, e non abbiamo mai condannato i soprusi di Israele verso il popolo palestinese, ma anzi, ci siamo inginocchiati all’altare del più forte senza vergogna. Ultimo ma non ultimo:  il totale disastro diplomatico con l’India per la questione Marò. Sembra ingiusto accusare di tutto questo Giorgio ? Forse. Ma, essendo la nostra non una repubblica parlamentare – questo solo all’apparenza – ma presidenzialista sul modello francese – in modo più ipocrita però perché da noi facciamo credere che conti di più il premier – da un certo punto di vista possiamo dire che sì: se c’è una regia a tutto ciò, quantomeno – per essere buoni – il caro Giorgio ha sempre dato il via libera.
C’è un detto che recita più o meno così: “al peggio non c’è mai fine”. Guardando la storia di NATOlitano – il suo vero nome di battesimo – oggi possiamo tuttavia affermare con certezza una cosa: al peggio non c’è mai fine, è vero, ma sei hai vissuto sette anni in un paese governato dal miglior amico di Kissinger forse ora sei pronto per qualsiasi cosa.

lunedì 12 gennaio 2015

La farsa del corteo di Parigi...


di Andrea Minciaroni (L'Intellettuale Dissidente)

Quasi due milioni di persone e quarantacinque capi di stato hanno partecipato ieri a Parigi al corteo contro il terrorismo, una mobilitazione senza precedenti a seguito del massacro della redazione del settimanale Charlie Hebdo. Tra i presenti, diversi leader: Francois Hollande, Angela Merkel, Matteo Renzi, David Cameron, Mariano Rajoy, Martin Schulz, Jean Claude Juncker, e perfino Benjamin Netanyahu e Petro Poroshenko. In sintesi, il fiore all’occhiello delle élites del mondo Occidentale. Quella andata in scena ieri a Parigi tuttavia non è stata una manifestazione di solidarietà ne tantomeno un occasione sincera per dire no al terrorismo, ma una vera e propria farsa mediatica. Qualcuno sembra aver improvvisamente riscoperto che il terrorismo non è solo un elemento attraverso cui destabilizzare stati sovrani, ma un nemico da combattere con fermezza. I vari Hollande, Cameron, Merkel e Netanyahu, hanno già dimenticato la scia di sangue che hanno contribuito a far scorrere in Siria in questi ultimi anni per rovesciare il regime di Bashar Al Assad. Il sostegno, economico e militare, che insieme hanno fornito a diverse fazioni terroristiche islamiche – come Al Nusra, Al Qaida e ISIS – rende evidente una semplice e banale considerazione: l’ipocrisia che i leader dell’Occidente mettono continuamente in MOSTRA manipolando l’opinione pubblica mondiale.
Il copione è sempre lo stesso: da una parte ci si MOSTRA uniti e decisi a combattere insieme un nemico pericoloso ed imprevedibile, dall’altra lo si utilizza per i propri scopi anche a costo di isolare chi quel nemico lo combatte veramente. Il 18 Giugno del 2014 il presidente siriano Bashar Al Assad ha rilasciato delle dichiarazioni che suonano oggi profetiche: “L’Occidente e i Paesi che sostengono l’estremismo e il terrorismo in Siria e nella regione devono rendersi conto che questa minaccia crescente sta per colpire tutti, in particolare i Paesi che hanno sostenuto il terrorismo e gli hanno permesso di svilupparsi” L’attentato alla redazione di Charlie Hebdo può essere interpretato utilizzando diversi elementi e punti di vista: fattori religiosi, etnici/culturali, economici, sociologici e politici; in riferimento alla questione dell’immigrazione clandestina e al modello di integrazione costruito dalla Francia nel corso degli ultimi anni.
Diverse cose sono state dette e scritte in questi giorni, tuttavia in pochi hanno FATTOnotare come la vera ragione di questa mobilitazione e spasmodica attenzione mediatica non sono stati i 12 morti di mercoledì scorso; ma la paura, il terrore con cui l’Occidente, in modo ipocrita, è tornato a fare i conti: la consapevolezza di essere inermi ed indifesi di fronte a qualcosa di cui non si ha più il controllo. Dopo decenni passati a fare delle fazioni terroristiche islamiche l’arma attraverso cui rovesciare e isolare paesi ritenuti scomodi – dalla Russia, alla Siria, all’Iran – l’Europa oggi si trova di fronte ad un bivio: decidere di combattere realmente il terrorismo attraverso la costruzione di intelligence condivise proprio con quei regimi ritenuti come il male assoluto, oppure CONTINUARE a fare finta di niente, sperare semplicemente che tutto ciò non accada più, e dopo, al massimo, sfilare in corteo per pulirsi la coscienza, senza girare a guardare quella di scia di sangue che oggi ci si è ritorta contro.

giovedì 8 gennaio 2015

Charlie Hebdo.Forse è il caso di fare un ragionamento sereno e complesso...


di Gabriele Adinolfi

PARTIAMO DALL'AZIONE IN SE STESSA

Distinguiamo le vittime
Il commando che ha colpito a Parigi ha fatto dodici morti.
Uno di questi, Frédéric Boisseau, uomo delle pulizie, è una vittima innocente, altri due, Franck Brinsolaro e Ahmed Merabet, erano agenti in servizio, caduti nell'adempimento del dovere. Gli altri nove erano giornalisti di Charlie Hebdo ed erano tutti obiettivi scelti non a caso. Parlare di loro nove come di vittime innocenti è a dir poco fuorviante.
Cosa facevano i giornalisti?
Erano satirici provvisti di un talento che si smarriva sovente in cattivo gusto e in insolenza.
Le vignette dissacranti nei confronti di Maometto e dell'Islam hanno scatenato una reazione forte.
Di certo nessuno se l'immaginava così forte ma è pur vero che insultare i sentimenti e il credo della gente non è consigliabile e neppure elegante. La reazione è stata musulmana ma avrebbe potuto benissimo essere cristiana visto che avevano irriso anche il cristianesimo fino a fare una vignetta in cui Gesù sulla croce si fa sodomizzare e gode.

Un assalto alla libertà?
Hollande ne ha fatto degli “eroi” (semmai avrebbe dovuto usare il termine di martiri ma ormai neppure il Presidente conosce il francese), in quanto caduti per la libertà d'espressione.
Quanto a questa libertà d'espressione sia consentito bestemmiare le credenze degli altri non è dato sapere. Quel che sappiamo di certo è che tale libertà non esiste. Hollande ha impedito più di uno spettacolo di Dieudonné, Faurisson è stato perseguitato per decenni, diversi autori e diverse opere sono all'indice con divieto di stampa e di diffusione: in nome di quale libertà parla Hollande? E in cosa i suoi “eroi” si sono contraddistinti quando si trattava di difendere la libertà altrui? Nel negarla anch'essi.


PASSIAMO AL PERICOLO DEL TERRORISMO ISLAMICO IN FRANCIA
E' un attacco musulmano alla Francia?
Obiettivamente, se ci si attiene soltanto a quanto è accaduto a Charlie Hebdo, la risposta seria è no.
Lo diventerà?
Probabilmente sì. Perché se il commando, composto da gente professionista e formidabile, verosimilmente già in procinto di riparare tra l'Iraq e la Siria dopo esser transitata per una frontiera (italiana, spagnola o belga) non colpirà di nuovo, c'è però da prevedere il fenomeno di emulazione che s'incendierà nelle banlieues laddove il fondamentalismo idiota (esattamente lo stesso dei teocon) si sposerà con lo sbando sociale e psicologico e c'è quindi il forte rischio che vengano commessi attentati alla cieca nel nome di Allah.

Chi fa parte del commando?
Com'era evidente fin dal primo secondo, i colpevoli indicati in fretta e furia dalla Polizia per trarsi d'impaccio non sono quelli veri. Che si tratti però di gente andata a combattere in Siria e che si è fatta un mestiere delle armi contro l'esercito legittimo e ordinato di Damasco è più che plausibile.*
I francesi hanno giocato agli apprendisti stregoni facilitando la formazione di brigate djihadiste con centinaia e centinaia di banlieusards. I sopravvissuti sono macchine da guerra, fanatici e freddi, sono pericolosissimi.

Chi ha interesse a che prenda la maionese?
Ovvero chi gioca con il fuoco? Di sicuro le Istituzioni che stanno eccitando da qualche mese, quasi reclamando a gran voce una strategia della tensione che consenta di distrarre la pubblica opinione dalla bancarotta sociale, economica e politica dell'Eliseo e di Matignon. Ma poi il nemico/amico inglese che con lo djihadismo ha relazioni molto particolari e che già lo ha utilizzato venti anni orsono, di strage islamica in strage islamica, tutte coordinate da Manchester, per costringere Chirac ad abbandonare le mire francesi nel Pacifico.
Possiamo quindi dire che, al di là dell'autenticità – magari favorita e indotta dall'alto – di azioni terroristiche, queste sono al contempo utili all'establishment e deleterie per esso.

Obiettivo l'asse renano
Insieme alla logica oligarchica del terrore diffuso (che è quella che piace all'establishment) entrano in gioco le guerre per procura. Oggi infuriano per sventare ogni riproposizione dell'asse Parigi-Berlino-Mosca e soprattutto per impedire alla Germania di guidare l'Europa al di fuori della subordinazione Wasp e del contenimento asiatico.
Attaccata pesantemente in Ucraìna, la Germania è riuscita diplomaticamente a parare il colpo, a respingere gli assalti inglesi e a ricucire sotto traccia con la Russia. Ora, con gli accordi con Tsipras, sembra destinata a rafforzarsi anche in Grecia. L'Inghilterra non ci sta e cosa di meglio se non portare la tensione in casa tedesca con l'anti-islamismo pro-israeliano e poi in Francia per indebolirla e per allontanarla da Berlino?
Per tutte queste ragioni c'è da temere seriamente un'escalation.

PER GLI IMPAZIENTI, I MIOPI, I FURBI E I MALATI MENTALI

Il vantaggio del Front National
Di sicuro quanto accaduto porta acqua al partito lepenista. Il fatto che Marine venga ricevuta all'Eliseo da Hollande significa sdoganamento e l'avvio di una partita – tra socialisti e destra – per vedere chi potrà meglio utilizzarla contro l'avversario. Questo può consentire a un partito, oggettivamente impreparato, di avvicinarsi al sottopotere. Opportunisticamente e tatticamente parlando l'Fn non può che esultare. Tuttavia è un percorso minato che viene approntato per esso. Stavolta Marine, almeno a giudicare dalla prima dichiarazione che metteva l'accento sull'impreparazione dell'intelligence francese, sembra essersi resa conto del rischio che corre, non solo di venire strumentalizzata ma anche di essere trascinata in una strategia della tensione etnoreligiosa a tutto vantaggio di alti pupari. E sembra, per ora, volersi sottrarre a questa trappola.

Il doppio estremismo teocon
Le formazioni djihadiste per quasi trent'anni sono state formate, armate, incubate, sostenute dal Pentagono, dai servizi inglesi, da quelli israeliani oltre che dalle petromonarchie.
Gli djihadisti hanno preso il posto del terrorismo comunista e trozkista e sono manipolati dalla Cia o, comunque, da Big Brother.
Una quindicina d'anni fa quando il Pentagono ha lanciato lo “scontro di civiltà” ha fatto affidamento sulla psicopatia che, in società discentrate e corrotte, non poteva mancare. Questo ha prodotto i contrapposti fondamentalismi. In cui quello cristiano è comunque perdente rispetto a quello islamico in quanto quest'ultimo è fanatico mentre il primo si vuole furbetto. Gli islamici poi fanno mentre i cristiani integralisti aspettano la Provvidenza oppure agiscono da isolati: dei disturbati lone wolfs

Djihad e anti-islamismo
Chi ha prodotto lo djihadismo ha anche caldeggiato la nascita dell'anti-islamismo che è un'autentica coglioneria. Sostenere che l'Islam sia pericoloso in sé per le sue mire vale quanto sostenere che lo sono il cristianesimo e l'ebraismo. In Siria, in Iraq, in Libia, in Egitto sono quasi sempre dei musulmani che si contrappongono agli djihadisti. Musulmani furono o sono dei campioni della libertà – e del dialogo con noi europei – come Arafat. Massoud, Saddam, Assad.
L'Islam non ha prodotto l'immigrazione (semmai è accaduto l'inverso) e l'immigrazione musulmana non è più numerosa, più pericolosa, più insidiosa di altre che sono buddiste, animiste, induiste e cristiane. I nigeriani, che rappresentano la comunità immigrata probabilmente più problematica sono in maggioranza cristiani. L'anti-islamismo è persino più imbecille dell'anticomunismo trinariciuto. E' proprio tramite la collaborazione con le forze socialnazionali arabe che si esce dal cul de sac. In quanto all'immigrazione il problema non è religioso, è ben più profondo ed è la ragione per la quale ci si deve battere per lo Ius Sanguinis. I minareti valgono le sinagoghe e Charle Hebdo non è di certo qualcosa di meglio da vantare come simbolo.

C'E' QUALCOSA DA DIFENDERE?
Per esempio il Presepe o il menu alla mensa scolastica
Non se ne può più. In ogni caso sono tradizioni nostre, anche per chi non si senta cristiano (il presepe d'altronde è rappresentazione mithraica se proprio vogliamo essere rigorosi). L'immaginario, il rituale, il cerimoniale fanno Cultura e dunque Civiltà e non possono essere rimossi. Ma Gesù per i musulmani è un profeta: infatti raramente sono loro a chiedere che venga ignorato: a farlo sono quasi sempre i dementi dis/educatori progressisti (gente alla Charlie Hebdo) che con la scusa dell'altrui sensibilità danno altri colpi di piccone alle nostre fondamenta.
Lo djihadismo può prendere piede in Europa
Alto è il rischio ed esattamente come negli anni sessanta e settanta altro era non cadere nella logica idiota e servile dell'anticomunismo liberista e altro era invece ignorare l'offensiva terroristica e culturicida, nel caso il djihadismo prendesse piede esso andrebbe combattuto (anche se so benissimo che di tutti quelli che oggi fanno gli anti-islamici non si schiererà neppure l'uno per cento...). Ma andrebbe combattuto senza dimenticarne le cause e gli alleati. Anche quelli rimasti vittime di quanto hanno avevano seminato, come i giornalisti di Charle Hebdo e i loro simili e compari. E andrebbe combattuto con alleati islamici socialnazionali, non di certo sperando che il Vaticano, che con Migrantes fa – esattamente come fece per decenni in Francia – da ponte per l'immigrazione e per il disagio che poi esploderà.
Nessun opposto estremismo, nessun dualismo, nessun piagnisteo apocalittico, sono necessarie coscienza, volontà di potenza e virilità!
Una volta ancora: servono timonieri lucidi, con la bussola e con il polso giusto. Vedremo se la tensione quantomeno li selezionerà.

mercoledì 7 gennaio 2015

Acca Larenzia, la strage rimossa. Così la videro quelli che nel ’78 stavano a sinistra e oggi invocano il dialogo...


di Annalisa Terranova (Secolo d'Italia)

“Più di dieci anni fa dovevo andare in un liceo di Milano con Ignazio La Russa per parlare agli studenti degli anni di piombo. Doveva essere un gesto di riflessione comune. Ma la notizia fu divisiva, montò un clima di mobilitazione contraria, non se ne fece niente…”. A raccontare è Fiorello Cortiana, già senatore dei Verdi, amico di Alex Langer e prima ancora militante di Lotta continua. Il superamento della violenza di quegli anni per lui, nel 1978, quando il 7 gennaio tre giovani missini cadono uno dopo l’altro in un’angusta e buia strada della periferia di Roma sud, era già in atto: in quel periodo Cortiana è nel servizio d’ordine degli indiani metropolitani e lo scontro con l’area dell’Autonomia è all’ordine del giorno. “Noi rifiutavamo l’etica e l’estetica della violenza, era il nostro tratto distintivo rispetto ad esempio ai compagni di Potere operaio, che si sentivano depositari della verità e ritenevano di fare la rivoluzione perché usavano le armi. Il mio collettivo era composto da 150 giovani, due provenivano dal Msi. Quando rileggo le notizie di quegli anni noto che i giovani si buttavano via, l’adesione all’ideologia dell’odio ha condotto a una grande dissipazione di energia”. Riflette su Acca Larenzia: “Fu un’azione studiata per far vedere che occorreva un salto di qualità. Avviene anche a Milano con l’omicidio di Pedenovi. Alcune frange invasate volevano con questi omicidi coinvolgere anche altri compagni nel terrorismo. Per Potere Operaio, per Prima linea, la violenza era un fatto estetico-dimostrativo. Per le Br era un fatto militare”. E quindi la sinistra dovrebbe riconoscere che il valore dell’antifascismo militante ha condotto a questi lutti, ha fatto versare sangue innocente? “Se c’è un tratto che ha accompagnato gli anni Settanta – risponde Cortiana – questo è stato la cultura dell’antagonismo. Ho un nemico quindi so chi sono. L’antifascismo militante non ha più senso. Io già allora sentivo Ian Palach come un martire anche mio, ma un altro conto è essere antifascista perché sei contro la dittatura”. Quel clima di piombo può tornare? “Le ideologie sono cadute – tira le somme Cortiana – ma lo schema può tornare a ripetersi se i processi che costruiscono le identità politiche si basano ancora sull’antagonismo e non sulla ricerca. Se si cerca il conflitto alla fine il meccanismo si rimette in moto”.
“La strage di Acca Larenzia? Come l’ha presa la sinistra? La sinistra l’ha semplicemente rimossa. Perché riguardava i fascisti, la parte nemica. È stato, a torto, considerato un atto di terrorismo minore, da archiviare senza quella riflessione e quel senso di umanità che impone di guardare alla morte senza distinzione di colore politico”. Giovanni Fasanella, autore di libri fondamentali per ricostruire gli anni più oscuri della storia postbellica italiana e in particolare il caso Moro, seguì gli anni di piombo inizialmente come cronista dell’Unità, maturando solo più tardi un’opinione ben precisa su quella vicenda: “Acca Larenzia – afferma oggi – è uno degli episodi più oscuri degli anni di piombo e si inquadra a pieno nella strategia della tensione. C’era chi aveva interesse a esasperare gli animi. Gli omicidi rimasti senza responsabili in quegli anni andrebbero letti tutti insieme, parlo di Walter Rossi a Roma, parlo di Fausto e Iaio a Milano… C’erano menti esterne che si impegnavano in questa strategia, per preparare quel clima di violenza diffusa che è successivo alla strategia stragista. E a cosa serviva questa eccitazione degli animi? – continua Fasanella – a preparare e a legittimare il terrorismo di destra e di sinistra, terreno nel quale maturano il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, che avviene pochi mesi dopo Acca Larenzia. Il contesto di una destra in ebollizione e di una sinistra in ebollizione punta a quello. Bisogna guardare a un piano più alto, con una prospettiva che esula dai singoli episodi di sangue. La radicalizzazione dello scontro fascismo-antifascismo è solo uno specchietto delle allodole. Esso conduce all’omicidio politico per eccellenza, che ha la finalità di bloccare la politica del compromesso storico e l’attivismo dell’Italia nel Mediterrano che turbava i servizi francesi e impensieriva quelli inglesi. È evidente che la mia è una visione politica, che esula dagli aspetti giudiziari”. Secondo Fasanella questa riflessione è mancata a sinistra come a destra, ma “è una riflessione che serve al Paese. Lo schema fascisti contro comunisti è deviante. Dobbiamo domandarci chi aveva interesse a fare entrare la politica italiana in una fase diversa con la morte di Moro. E dobbiamo trovare le risposte”. Le risposte Fasanella le ha trovate spulciando documenti britannici desecretati ed è giunto alla conclusione che l’intelligence di quel Paese è intervenuta pesantemente per cambiare il corso della politica italiana: “Gli inglesi nella prima metà dei Settanta arrivano a progettare un golpe in Italia e quel disegno viene accantonato solo per l’opposizione degli Usa e della Germania. Fin dalla fine della guerra i servizi di quel paese hanno legami sia con elementi fascisti che con elementi legati alla sinistra insurrezionalista, così come sappiamo che i servizi francesi hanno utilizzato il terrorismo rosso. C’è un documento dei servizi inglesi, da me citato nel mio libro Il golpe inglese, che ha un titolo inquietante, si chiama Appoggio a una diversa azione sovversiva. Siamo all’inizio di quell’esplosione di violenza che in Italia toccherà il punto più alto con l’omicidio di Aldo Moro”.
“Acca Larenzia è stata la fine dell’età dell’innocenza, per moltissimi di noi”. Francesco Lo Sardo, giornalista di Europa e autore Rai, nel 1978 aveva diciotto anni ed era legato all’area di Democrazia proletaria. Faceva politica al Trieste Salario e frequentava il liceo Giulio Cesare. “Mi ricordo perfettamente – racconta – quando sentii la notizia, su Radio città futura, dove facevo i turni di notte”. La stessa radio, dunque, dove fu irriso il nome di Francesco Ciavatta. “Ma per me – dice ancora Lo Sardo – la morte di quei fascisti fu una disgrazia, un lutto, e così per molti dei miei compagni. La sinistra a Roma, Pci a parte, era un’area fluida, molto frantumata dopo il convegno di Bologna del 1977. Mancavano luoghi di riflessione e di confronto ma c’era già una divisione molto forte tra chi, come noi, rifiutava l’uso delle armi, se non come strumento di difesa, e chi ne faceva un cardine della mobilitazione rivoluzionaria. Eravamo tutti immersi nella retorica dell’antifascismo ma lo scontro era soprattutto dentro la sinistra. Noi non pensavamo che coloro che facevano agguati contro i fascisti fossero compagni che sbagliavano, non li giustificavamo, ma sapevamo che erano comunque del nostro mondo. Il Pci era più ipocrita, affermava che quelli del Movimento erano altro dal Pci ma in questo c’era un elemento di falsità”. E che idea vi siete fatti della strage di Acca Larenzia? “Che era maturata dentro alla galassia dell’Autonomia. Ma noi la elaborammo, questa cosa, sul piano personale più che politico perché appunto mancavano luoghi di riflessione. Molti ambienti della sinistra considerarono quella strage un punto di non ritorno e questo non è mai emerso perché non c’erano interlocutori politici a sinistra che potessero in qualche modo farsi carico di questo disagio. Per questo io oggi sento il dovere di parlare di queste vicende per spiegare che hanno avuto un effetto devastante e per fare una riflessione sui rischi dell’oggi”. Rischi, secondo Lo Sardo, legati all’esasperazione dovuta alla crisi: “Ci sono pezzi di società di cui non sappiamo niente, poi arrivano fenomeni come i Forconi e non sappiamo come analizzarli, ci fermiamo alla denuncia delle infiltrazioni da destra. Un aspetto marginale. A mio avviso l’immunizzazione della società dovuta alla tragedia degli anni di piombo è scaduta. Il piombo può tornare. Tenere aperta la finestra su certe memorie è utile per testimoniare che quelle logiche sono gravissime, sul piano politico ma anche per gli strascichi che producono nelle persone, nelle famiglie, negli amici. Se quel tipo di scontro tornerà a verificarsi non sarà per la contrapposizione tra frange di estrema destra e centri sociali ma perché si vorrà dare uno sbocco violento alla sofferenza sociale. E lì che si deve intervenire per prolungare l’effetto repellente rispetto alla violenza che possiede chi ha vissuto quegli anni”.

“Acca Larenzia? I compagni non ci hanno capito niente di Acca Larenzia. Non abbiamo capito quanto fosse importante. Per voi è stata quello che fu per noi Piazza Fontana. Non abbiamo neanche capito che il terzo morto, quello caduto negli scontri con i carabinieri, cambia tutto”. Andrea Colombo, giornalista, impegnato nel Movimento del ’77, tra i protagonisti della campagna per l’innocenza di Mambro e Fioravanti accusati della strage di Bologna, autore del libro Storia nera, già redattore del Manifesto e di Liberazione, conferma la rimozione e la superficialità con cui la sua area accolse quelle tre morti. “Per noi in quel periodo era essenziale lo scontro con il Pci, l’antifascismo era un valore marginale, non fondamentale. I fascisti non erano un problema politico. Certo, se ti vengono a menare, ti difendi, ma ci si fermava lì. Ma ricordo che a Roma, nei mesi precedenti la strage di Acca Larenzia, c’era stato uno stillicidio di aggressioni ai compagni a piazza del Popolo. Un fatto non banale: perché occupare il centro della città era considerato un fatto che non poteva essere digerito. Forse Acca Larenzia matura in questo clima. Di certo fu un’azione militare. Non ho mai creduto alla tesi che fossero ragazzini che volevano accreditarsi presso gruppi più importanti. Del resto le Br a Roma cominciano tardi, nel 1976. E c’era già una galassia di sigle armate. Una parte di queste sigle entra nelle Br con Morucci e un’altra parte mantiene le strutture che aveva. Dunque la sinistra all’inizio non capisce, comprende tardi. Noi della destra non sapevamo e non capivamo nulla. Il nostro interesse, all’epoca, era lo scontro con lo Stato e con i padroni, tutto il resto era marginale. E poi a Roma in quella fase non c’era il pericolo fascista, semmai c’era stato nel 1972, quando la percentuale raggiunta dal Msi aveva creato un caso politico, ma nel 1978…”. E allora perché? Tre morti non “necessari” alla strategia dell’estrema sinistra militarizzata che aveva come finalità quella di colpire il Pci e il compromesso storico. Cosa che accadrà con il sequestro Moro. Ma dall’altra parte, sul versante della destra, c’era qualcuno che sentiva il bisogno di trascinare gli elementi più focosi versa la deriva della lotta armata? Storicamente, quello fu il prodotto della strage di via Acca Larenzia. “Ecco appunto dobbiamo storicizzare – afferma Colombo – storicizzare l’antifascismo, evitare l’accanimento giudiziario sui responsabili. Gli anni Settanta furono una fase di scontro durissimo. Le vittime lasciate a terra nello scontro fascisti-antifascisti furono una scia marginale, inutile e crudele. Con picchi di vera barbarie, come l’omicidio di Sergio Ramelli. Storicizzare – specifica Colombo – significa evitare quello che io vedo oggi, cioè un re-imbarbarimento che alla fine acchiappa tutti, a sinistra come a destra. Oggi se tornassi a fare la campagna per la strage di Bologna mi darebbero del traditore. E anche dall’altra parte vedo in funzione meccanismi del genere. L’antifascismo militante era già di retroguardia negli anni Settanta, figuriamoci oggi. È un problema non politico. Ma non viene abbandonato perché è l’unico collante. Già nel 1977 più niente a sinistra ci teneva insieme. Per questo restano attaccati a questo concetto di retroguardia”.