mercoledì 29 aprile 2015

SERGIO RAMELLI: UNA STORIA CHE FA ANCORA PAURA...



A Sergio Ramelli, nell'anniversario della morte. 

Lo ricordiamo col suo sorriso, come molte fotografie ce lo dipingono e come molti amici lo ricordano. Aveva diciotto anni, ma un commando di sciacalli di Avanguardia Operaia, in nome dell'antifascismo, lo massacrò sotto casa a colpi di chiave inglese, spaccandogli il cranio, nella Milano degli "anni di piombo" dove "uccidere un fascista non è reato". Sergio rimase in coma per 47 giorni, prima di spegnersi in una fredda stanza di ospedale, coi ragazzi del Fronte della Gioventù al suo capezzale. 

Sergio fu vittima di una violenza cieca, ideologica e feroce. La violenza dell'antifascismo militante, che lo aveva preso di mira a scuola, al Liceo Molinari, dove era stato ritenuto "colpevole" di aver scritto un tema nel quale criticava l'operato delle Brigate Rosse, già responsabili del duplice omicidio di due militanti missini a Padova, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. Ne seguirono i "processi politici", le aggressioni verbali e fisiche, le minacce vergate sulle mura del quartiere. Fino a quando la sua foto non venne recapitata nelle mani del servizio d'ordine di Avanguardia Operaia, che decise di passare alle vie di fatto e di eliminarlo utilizzando le chiavi inglesi Hazet 36, purtroppo assai in voga in quei terribili giorni. 

Al suo funerale, partecipato da molti attivisti della destra politica, si cercò di vietare il corteo funebre, mentre nel consiglio comunale milanese la notizia della sua morte venne accolta con un applauso corale, come nel peggiore degli incubi. Qualche anno più tardi venne scoperto il covo di via Bligny. a Milano, dove fu rinvenuto un vero e proprio archivio tenuto segreto per decenni dalla sinistra extraparlamentare milanese, che aveva schedato e colpito decine di attivisti di destra, magistrati, poliziotti, politici e personalità ritenute scomode. Il processo per l'omicidio Ramelli si concluse con condanne ridicole, con pene abbreviate e con assassini rilasciati dopo pochi anni di carcerazione. 

Nel primo anniversario della morte di Sergio, il 29 aprile del 1976, Prima Linea "festeggiò" con un altro omicidio, quello di Enrico Pedenovi, consigliere del Msi milanese. Lo ricordiamo, assieme a tutte le vittime di quella stagione di sangue e di odio. 

Mai più infamia, mai più antifascismo. 

SERGIO ED ENRICO PRESENTI!

martedì 28 aprile 2015

Milano torna agli anni di piombo: colpite librerie e centri di destra...


 di Matteo Carnieleto (Il Giornale)

La sinistra milanese non conosce rispetto. Sono, questi, giorni importanti per la destra meneghina. Domani, infatti, verranno commemorati Sergio Ramelli, Enrico Pedenovi e Carlo Borsani, tutti barbaramenti uccisi da uomini di estrema sinistra.
Nella notte, dopo l'incontro Divide et impera: Milano Burning, le radici dell'odio, sulla morte di Sergio Ramelli, sono stati colpiti alcuni importanti centri della Destra milanese. La libreria Ritter, uno dei più importanti centri della destra meneghina, è stata data alle fiamme. Le vetrine sono andate in frantumi, sono tutte da tappezzare, come ci racconta il proprietario. A causa dell'incendio, i condomini del palazzo che ospita la libreria sono stati evacuati.


Anche la sede dell'Ugl di via Aosta 13 è stata colpita questa notte. Come si legge nel sito: "Tra le ipotesi, le posizioni assunte dalla federazione su Expo in merito alle inefficienze relative alla sicurezza".

La sede di Forza Nuova Milano Sud è stata imbrattata con della vernice e le sono state divelte finestre e imposte. Attualmente, i ragazzi di Forza Nuova stanno aspettando gli artificieri perché nella sede del locale è ancora presente un tubo inesploso.

lunedì 27 aprile 2015

Italia in vendita con il silenzio assenso della politica...



di Mario Bozzi Sentieri (Barbadillo.it)


E’ proprio vero che della politica si può fare a meno ? Molti italiani ne sono convinti e perciò disertano le urne, “schifano” l’argomento, archiviano la questione girandosi dall’altra parte.
In realtà, come diceva  un vecchio slogan – tuttora di attualità – se tu non ti occupi di politica, la politica si occupa di te … nel bene e nel male. Certo, c’è la politica vessatoria e truffaldina, quella della corruzione e degli interessi personali, delle tasse e dei regolamenti soffocanti contro cui non è difficile provare una naturale insofferenza. Ma c’è anche una politica che costa tantissimo per i suoi silenzi e le sue assenze.

Pensiamo a quanto pesa la politica, nel senso, teorico e pratico, della Costituzione, dell’organizzazione, dell’amministrazione dello Stato e della direzione della vita pubblica, in rapporto ai temi dell’economia, rispetto alle questioni relative alla gestione del territorio, alle infrastrutture, alla burocrazia, alla tassazione, alla scuola, alla formazione, alla ricerca.
Ed ancora pensiamo a quanto conta l’assenza della politica italiana rispetto allo sfarinarsi del  nostro sistema produttivo, posto sotto attacco non solo da parte di una generica congiuntura economica quanto, in molti casi,  di grandi gruppi industriali stranieri.

E’ nota la recente iniziativa  dell’americana  Whirpool, che, in contrasto con l’accordo preso nel 2013, ha portato fuori dall’Italia alcune linee di produzione ed ora si appresta a dichiarare 1.350 esuberi, compresi gli 800 addetti dello stabilimento di Caserta che verrebbe chiuso.

Così come è significativa la recente cessione della Pirelli al colosso cinese ChemChina, secondo una strategia del Governo di quel Paese che mira, attraverso suoi fondi statali, a occupare posizioni strategiche in vari settori dell’economia mondiale e a portare in Cina le competenze tecnologiche  (carpendo anche segreti di produzione) per essere competitivi direttamente dal proprio territorio.

Terza ma non ultima la cessione da parte di Finmeccanica di Ansaldo STS e Breda al colosso 
giapponese Hitachi. A denunciare il fatto che ogni decisione sia stata fatta in funzione delle necessità finanziarie dell’azionista piuttosto che in ragione del valore strategico, per l’Italia, dell’industria dei Trasporti sono  stati i “Cappellani del lavoro” del capoluogo ligure. Dopo avere auspicato ed atteso uno sforzo congiunto per la costituzione di un “Polo Italiano dei Trasporti”, come realtà integrata della capacità progettuale e professionale del nostro Paese in questo importante settore, essi non hanno potuto fare a meno di denunciare proprio  il silenzio della Politica.

Una Politica – aggiungiamo noi – sempre più debole e sempre più scissa rispetto al contesto sociale, culturalmente incapace di pensare e di pensarsi in grande, limitando  il proprio ruolo alle sole azioni fiscali e monetarie (dettate dall’Unione Europea) anche in contesti di disoccupazione strutturale, anche là dove sono in gioco i destini strategici delle nostre aziende.

Nel denunciare questa realtà e nel manifestare la nostra solidarietà ai lavoratori e ai tecnici delle imprese che pagano, in prima persona, questa assenza della Politica, questa diserzione della Politica, l’invito è di andare oltre la pura e semplice fotografia dell’esistente, le pur legittime difese di settore, le proteste, le sempre più deboli trattative. Di Politica, di idee e di visioni ampie e complessive c’è bisogno, non certo di un attendismo sfibrante ed inconcludente, che sembra condannare l’Italia ad un irreversibile tramonto.


Come diceva, nel maggio del 1915 Gabriele D’Annunzio, paladino della battaglia interventista: “ …noi non siamo, noi non vogliamo essere un museo, un albergo, una villeggiatura, un orizzonte ridipinto col blu di Prussia per le lune di miele internazionali , un mercato dilettoso ove si compra e si vende, si froda e si baratta …”. A cent’anni di distanza siamo ancora lì:  “mercato dilettoso”, grazie al silenzio della politica nazionale,  a disposizione dei mercanti internazionali. Con i risultati che sono bene visibili a tutti.

venerdì 24 aprile 2015

La “Festa della Liberazione” ha 70 anni. E li dimostra tutti...


di Lando Chiarini (Il Secolo d'Italia)


Un 25 Aprile all’insegna della massima mobilitazione mediatica, ma anche dei veti, delle ripicche e delle esclusioni. Se ancora fino a qualche tempo fa tali celebrazioni servivano a diffondere e a rafforzare la religione civile della “Liberazione“, sul cui culto poggiava la retorica dell’Italia “nata dalla Resistenza“, oggi, a settant’anni di distanza, le stesse non riescono a trasmettere altro che il senso di una festicciola di partito, e per di più, impastata di polemiche.

Emblematico è il caso di Alessandria, il cui sindaco Maria Rita Rossa, “piddina” di confessione renziana, si è vista categoricamente bocciare dall’Anpi la proposta di affidare ad un ministro (Orlando, Boschi, Pinotti) l’orazione ufficiale. Niente da fare. Ufficialmente, perché alle celebrazioni non partecipano i membri del governo. In realtà, perché gli uomini (e le donne) di Renzi non risultano graditi all’associazione dei partigiani. Diversamente da Sergio Cofferati, il cui nome è stato fulmineamente rispedito al mittente dal sindaco, che lo ha bollato come una provocazione: «Ha denunciato il partito dopo aver perso le primarie». A sua volta l’ex-leader della Cgil ha controreplicato in un crescendo rossiniano di dichiarazioni e prese di posizioni il cui interesse è davvero pari a zero.


La “baruffa alessandrina” non stupisce più di tanto. Anzi, da un certo punto di vista rappresenta lo scontato epilogo di una ricorrenza mai stata veramente di tutti. Non lo è stata per gli italiani del Sud, “liberati” solo dalle truppe americane sbarcate in tutta libertà in Sicilia con l’appoggio dei mafiosi costretti dal regime di Mussolini ad espatriare negli Stati Uniti. Non lo è stata per quegli italiani del cosiddetto “triangolo della morte” – non necessariamente fascisti, anzi – per i quali la guerra cominciò nel momento in cui finiva per tutti gli altri. Non lo è stata, infine, per quella generazione di giovani che si arruolò dall’altra parte per servire la nazione più che la fazione. Sono aspetti arcinoti, ma ignorati da ben 70 anni. È esattamente da allora che la Resistenza è una festa di parte. Per renderla davvero nazionale e patriottica sarebbe servita una grande e coraggiosa “operazione verità”. È accaduto l’esatto contrario e chi, come Gianpaolo Pansa, ha cercato da sinistra di avviarla, si è ritrovato insultato e isolato dal “culturame” ufficiale. Tutto normale in un’Italia, unica nazione al mondo in cui si festeggia la tragedia della guerra civile. È proprio questo, del resto, il frutto avvelenato della retorica partigiana del 25 Aprile imposta dal Pci. Nessuna meraviglia, dunque, se siano oggi i suoi eredi nel Pd ad usare la “Liberazione” per regolare i conti al proprio interno.

martedì 21 aprile 2015

21 Aprile, Natale di Roma: Il valore simbolico della città eterna...


da Azione Tradizionale

“Il mito è la forma umana per esprimere una realtà metafisica che altrimenti il nostro linguaggio non sarebbe in grado di comunicare. Con Roma il Mito si fa “forza formatrice della realtà e si palesa in gesta, avvenimenti ed anche istituzioni le quali per tale via assumono un significato simbolico” (J.Evola).


 Il valore simbolico di Roma -e della sua origine- consiste nell’essere il tentativo di restaurare l’Unità delle origini, attraverso una spiritualità virile e dominatrice che sa arrestare il processo di decadenza spirituale che caratterizzava l’umanità.
Roma è il luogo fatidico, raggiante di luce, espressione sensibile del Centro, dell’ORIGINE, da cui derivano tutte le cose. E’ il luogo dove le tendenze contrarie si armonizzano, neutralizzandosi in un perfetto equilibrio. Compito di Roma è quello di ristabilire l’ORDINE (cosmos) in un mondo in preda al disordine (caos).

Tramontati gli antichi imperi mesopotamici, il regno egiziano, quello persiano e terminata la breve ed esaltante epopea di Alessandro Magno, il mondo era privo di un centro sacrale e militare irradiante i valori di Ordine, Eroismo, Virilità, Volontà, Gerarchia, Aristocrazia e Impero. In quest’opera di riordinamento gerarchico dell’esistenza, sono state vinte, dalle- legioni romane, le popolazioni latine, etrusche, cartaginesi, galliche, greche e semitiche. Roma ha riportato la luce di una spiritualità virile, essa “non avrebbe potuto assurgere a tanta potenza se non avesse avuto, in qualche modo, origine divina, tale da offrire agli occhi degli uomini, qualcosa di grande e di inesplicabile” (Plutarco).

L’origine divina dell’Urbe è testimoniata dal mito di Romolo e Remo. Virgilio individua in Enea il progenitore dei Romani. Enea sfuggito all’incendio di Troia approda, dopo sette anni di navigazione, sulle coste del Lazio, dove sposa Lavinia la figlia del Re Latino. Dopo la morte di Enea, il figlio Ascanio fonda sui Colli Albani una nuova città, Alba Longa, dove regneranno 19 suoi discendenti. L’ultimo di questi, Numitore, viene spodestato dal fratello Amulio, che, per assicurare ai suoi discendenti il trono, costrinse l’unica figlia di Numitore, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta. Rea Silvia viene scelta da Marte per continuare la stirpe d’Enea, da cui sarebbe stata fondata la CITTA’ ETERNA. Dall’unione del Dio e della giovane vergine nascono Romolo e Remo. La nascita non passa inosservata al perfido Amulio che strappa i due gemelli al seno materno, ordinando di buttarli nel Tevere e di far murare viva Rea Silvia. La nutrice a cui i piccoli sono affidati non se la sente di ucciderli, e li deposita in una cesta che abbandona alla acque del Tevere e al volere degli Dèi. La cesta viene trasportata a riva dalla corrente, i due gemelli trovano rifugio presso l’albero di fico “Ruminal”(1) e vengono svezzati da una lupa, per poi essere cresciuti da una coppia di pastori (Faustolo e Acca Larenzia). Una volta adulti Romolo e Remo, venuti a conoscenza delle loro origini si pongono alla guida di un esercito, uccidono Amulio e i suoi seguaci e reìnsediano Numitore, che per riconoscenza concede loro di fondare una città. Per stabilire quali dei due fratelli dovesse tracciare il solco sacro e dare il nome alla città, i due gemelli consultano il volo degli uccelli: Remo dal colle Aventino vede sei avvoltoi, Romolo dal Palatino ne vede dodici. Aggiogando due buoi bianchi(2) viene tracciato il perimetro di Roma, vengono fatti sacrifici agli Dèi e viene acceso un fuoco sacro. Remo sorpreso a saltare per scherno il solco sacro, viene ucciso da Romolo. Era il 21 aprile 753 a.C., NATALE di Roma.

II Mito di Romolo e Remo testimonia l’origine sacra di Roma e Indoeuropea dei romani, restauratori del sacro ordine della Tradizione. Roma nasce sotto il segno del Dio guerriero Marte, e tale paternità sigilla il carattere guerriero e marziale della romanità. L’unione di Marte, espressione dell’aspetto maschile fecondatore dell’esistenza, e di una vergine vestale, espressione dell’aspetto femminile generativo dell’esistenza, testimonia il ritrovato equilibrio fra i due poli opposti ma complementari -maschile e femminile- e l’inizio di un nuovo ordine che avrà come fondatore un eroe divino: Romolo. La nascita di un eroe divino dall’unione fra un Dio e una mortale è un mito ricorrente nei popoli indoeuropei: Zeus e Latona generano Apollo, Zeus e Alcmene generano Eracle, etc. L’abbandono dei due gemelli(3) alle acque e la loro sopravvivenza ripropongono il simbolo dei “Salvati dalle acque”. Ciò rappresenta il superamento del flusso del divenire che travolge e affoga gli uomini deboli, ma che è indifferente a colui che supera la propria natura mortale. Egli è l’EROE, il messaggero della Tradizione, che ha il compito di ristabilire l’Ordine Divino nel mondo.I! fico “Ruminal” presso il quale i gemelli trovano rifugio simboleggia “l’albero del Mondo”, espressione della vita universale da cui traggono nutrimento Dèi ed Eroi (Odino, Eracle, Gilgamesh). Il Lupo rappresenta la forza primordiale e selvaggia della natura ma anche la semplicità, l’asprezza, la forza virile dei conquistatori: è la potenza che rigenera il mondo.I due gemelli rappresentano la lotta fra il principio ordinatore – Romolo – e il caos – Remo.(4) Gli Dèi attraverso il volo dei 12 avvoltoi testimoniano la designazione di Romolo quale fondatore di Roma. Il volo degli uccelli rappresenta la lingua dell’umanità primordiale, la voce degli Dèi. Inoltre il numero 12 è significativo, perchè ricorrente in vari Centri che hanno incarnato e diffuso la Tradizione solare: 12 adityva solari della tradizione Indù, le 12 tappe del cammino del Dio-eroe Gilgamesh, le 12 fatiche di Eracle, i 12 discepoli di Lao-Tze, i 12 Dèi dell’Olimpo greco, le 12 verghe del fascio littorio, i 12 cavalieri della Tavola rotonda, i 12 apostoli, etc. La ritualità seguita da Romolo nel tracciare i confini dell’Orbe, i sacrifici offerti agli Dei indicano il rispetto che il Romano nutriva per le leggi che regolano l’universo. Remo prendendosi gioco del solco sacro sfida presuntuosamente la divinità e ritiene di poter superare i limiti e le facoltà che sono proprie di un comune mortale. Romolo espressione del principio olimpico si oppone alla prevaricazione titanica di Remo, e uccidendo quest’ultimo garantisce il rispetto dell’Ordine.

NOTE

1: Questo nome rimanda all’idea di nutrire: l’attributo di Ruminus riferito a Giove, nell’antica lingua latina designava la Sua qualità di “nutritore”.2: “II duce (Romolo) … comincia a tracciare il solco rituale, badando che all’interno, dalla parte della città, sia la vacca, immagine della fertilità e fuori, dalla parte della campagna, il bue, emblema della forza”. Da “La razza di Roma” di M. Scaligero, pag. 81.3: Il tema dei Gemelli o dei Fratelli si ritrova in numerose tradizioni, come ad esempio in quella egiziana o in quella ebraico-cristiana. E’ il tema di un unico principio dal quale si differenzia una antitesi raffigurata dall’antagonismo tra i due. Uno incarna la potenza luminosa del Sole, l’altro il principio oscuro. In riferimento a Romolo e Remo, il primo è colui il quale traccia il solco e stabilisce così un Limite, l’Autorità, la Legge. II secondo è colui che tale Limite oltraggia, e per questo viene ucciso.4: “Remo, il quale sta a simboleggiare l’elemento antigerarchico, proprio al periodo decadente del matriarcato, vìola la intangibilità del solco e Romolo lo punisce. Ciò vuole significare la inviolabilità di ciò che è ritualmente consacrato e l’affermazione del nascente spirito guerriero olimpico, antiegualitario, sul vecchio spirito orgiastico, comunistico, anarcoide: è il primo atto di giustizia inesorabile, di senso di subordinazione assoluta ad un ideale superiore di cui da quel momento la Civitas sarà la manifestazione vivente”.

martedì 7 aprile 2015

IL PARTITO DI DIO IN DIFESA DEL PAESE DEI CEDRI...


di Elisa El Moussawi

L'entità sionista auto proclamatasi "Stato di Israele" nacque il 14 maggio del 1948, grondante di sangue palestinese.

Tutti i principali leader Sionisti furono coinvolti nel massacro del popolo abitante la Palestina e la Galilea, che da un giorno all'altro si trovò costretto a lasciare la propria casa e la propria terra. I palestinesi dovettero subire-e subiscono ancora oggi-la disgrazia di vedere un figlio o una madre morire sotto i propri occhi senza poter far niente se non piangere sul suo cadavere. I Sionisti conquistarono poco a poco la maggior parte dei territori che ottennero con vere e proprie stragi e maltrattamenti senza alcun riguardo per la dignità umana, nemmeno rispettando donne e bambini. In seguito penetrarono in Libano con l'intento di ottenere altre terre in modo da estendere il loro dominio sull'intera area del Mediterraneo Orientale. Invasero per prima una cittadina chiamata "Hula",nel 1948, dove massacrarono oltre ottanta civili innocenti.
In quel periodo lo Stato libanese si limitava a contare i morti, impossibilitato ad agire, a causa delle forti divisioni religiose interne (cristiani, musulmani e tra questi tra sciiti e sunniti).
Il Libano si rivolgeva sistematicamente all'organo che in teoria avrebbe dovuto tutelare l'integrità di tutti gli Stati del mondo lavorando così al mantenimento della pace: l'ONU.
Ma questi non agiva in alcun modo, dimostrando come per l'entità Sionista si era sempre pronti a chiudere un occhio.

In una sempre più cruenta escalation, nel 1968 Israele bombardò l'aeroporto di Beirut, distruggendo 7 aerei. Nel 1978 occupa il Sud del Libano e nello stesso anno i membri dell'ONU si riuniscono ed emanano il decreto numero 425, secondo il quale l'occupazione sarebbe dovuta finire.
Tuttavia il decreto non venne rispettato e l'ONU non prese alcun provvedimento. Nel frattempo in Palestina continuava a scorrere il sangue dei palestinesi e molti di loro iniziarono a fuggire dalle loro terre in direzione del Libano, che in poco tempo si riempì di profughi.
Nel paese dei cedri, la parte sciita della popolazione non aveva alcun partito a cui fare riferimento ma proprio in quel periodo si profilò la figura dell' imam" Musa Sader" che lavorò duramente per creare il partito dei "mahrumin" ossia dei "privati", in quanto gli sciiti in Libano erano privati di tutti i loro diritti, diversamente dai cristiani e dai sunniti, nonostante questi ultimi fossero numericamente in netta minoranza.
Le cause di questa privazione risalgono agli anni dell'occupazione franco-britannica che preferirono avere l'appoggio dei Cristiani (palesemente finanziati dai paesi europei) e della minoranza sunnitta, appoggiata dai paesi arabi come Egitto e Arabia Saudita.

Gli sciiti, che costituiscono il 28% dei musulmani non erano affatto rappresentati. Così si era formato il partito dei " privati" che poi fu chiamato il partito degli "Amal" ossia della "speranza" poichè aveva avuto origine con l'intento e con la speranza di cambiare la posizione politico-sociale ed economica degli sciiti all'interno del Paese, ma il loro ruolo fondamentale fu quello di rispondere all'invasione israeliana nel Libano meridionale.
Il membri del partito di Amal iniziarono così attraverso le direttive di imam Mosa Sader a combattere il nemico nonostante fossero militarmente scarsi.

Nel 1982 Israele estese la sua occupazione, raggiungendo la capitale "Beirut". Stanchi di questa situazione che non faceva altro che generare vittime su vittime, un gruppo di ragazzi ben decisi si impegnarono per ottenere la liberazione del territorio libanese dall'occupazione israeliana e si recarono in Iran per chiedere aiuto a " El Moussawi Khomeyni".

Khomeyni, politico e religioso iraniano, è stato per molti anni la guida Spirituale per molti sciiti. Ancora oggi l'Aytollah, il quale ha avuto un ruolo attivo nella Rivoluzione Islamica Iraniana è considerato un esempio da seguire ed imitare. Egli non esitò ad accogliere la richiesta di questi ragazzi Libanesi che quando tornarono in Patria diedero vita agli "Hezbullah"(partito di Dio) ed entro breve tempo arrivarono anche i rinforzi dall'Iran. I giovani libanesi sciiti che aderirono a questo partito furono addestrati militarmente da ufficiali iraniani ed in breve tempo in Libano sorse una milizia politica inquadrata e addestrata come mai ve ne furono prima.
Così il Partito di Dio iniziò la lotta contro l'entità sionista. Da una parte riusciva a contrastare le forze militari israeliane dall'altra raccoglieva fondi per costruire ospedali e scuole in Libano.
Hezbullah fu attraversato da una grandissima fama tra le persone attraverso la loro disponibilità ad aiutare il prossimo e il loro spirito combattivo che suscitò nei libanesi la speranza di poter riconquistare la libertà e di poter condurre un giorno una vita tranquilla e di pace senza temere che da un momento all'altro potesse entrare in casa un soldato nemico.
Cosa ancora più importante è che con gli Hezbullah, i libanesi potevano iniziare a sentirsi in un modo o l'altro protetti. Il partito di Dio, nacque come un movimento politico-religioso improntato sulla religione sciita per cui tutti i suoi membri sono tenuti a rispettare una forma, delle regole tra cui vi è quella di non attaccare mai il nemico se non in caso di risposta, quindi per autodifesa. La regola principale da rispettare, però, è quella della morale che non deve assolutamente essere trasgredita in quanto i membri si dichiarano "il Partito di Dio" e ,in quanto tali, essere rispettosi in maniera reciproca e nei confronti di qualsiasi essere umano. Devono mantenere una buona condotta e mantenere una retta morale, anche in pubblico.

Nel frattempo in Libano scoppiò la Guerra Civile che vide contrapporsi cristiani e musulmani (e tra i musulmani sciiti e sunniti) tuttavia Hezbullah non vi partecipò, e si dedicò invece al vero nemico al quale aveva rivolto la sua attenzione fin dalle origini: l'entità Sionista ("Israele").

Nel 1985 nasce ufficialmente il partito degli Hezbullah. Nel 1989 vi furono le elezioni e fu eletto leader "sheik Sobhi Tfaily" Due anni dopo invece fu eletto "sayid Abbas El Moussawi" ma purtroppo dopo non molto tempo dalla sua elezione, mentre si trovava in macchina con la famiglia (la moglie e il figlio di quattro anni), fu barbaramente ucciso in un attentato del Mossad.
I loro corpi carbonizzati furono riportati nella sua città natale "Nabi Chit" che gli dedicò un intero edificio.

Dopo la morte di Mussawi, il movimento è guidato da Sayid Hassan Nasrallah, tutt'oggi leader indiscusso del Movimento, e nel maggio del 2000 dopo quasi quattro decenni di occupazione militare, quello che viene chiamato Stato di Israele si ritirò dal territorio libanese. 
Questo per il gran merito, appunto, di Hezbullah.

venerdì 3 aprile 2015

L’ecologia contemporanea e il pensiero di Alain de Benoist...



 di Francesco Marotta

Uno dei presupposti delle società attuali, è un approccio superficiale e metodico che ha stravolto nel corso degli anni i filoni della materia che si occupa degli ecosistemi presenti sulla Terra. L’ecologia, purtroppo, non è immune dalle questue che si basano su un arrangiamento anacronistico ed interpretativo, spesso assolutista, quando si parla degli organismi che delimitano i margini dell’interazione con l’ambiente che li circonda; capovolgendone il senso e gli elementi distintivi, predisposti ad un certo uso comune. Emerge, quando parliamo di ecologia, sempre più una volontà che si adatta alla riformulazione di un ruolo interattivo ed utilitarista, che è poi la base e la voce del lasciapassare sistemico e massificante di una tendenza: un’unica specificità, morfologica e biologica, che deve essere somministrata con sregolatezza. In che modo? Riformulando le trasfigurazioni prese alla lettera da Eraclito e dalle sue trasformazioni del “fuoco vitae”, riadattate ad un elemento e ad un magistero, quale è diventata in alcune sue diramazioni l’ecologia contemporanea. Conglobate in un assolo ripetitivo che richiama alla memoria a qualsiasi organismo, purché provvisto di caratteristiche proprie, una certa autenticità sommaria in cui «Tutte le cose sono uno». Quel principio che si basa su un criterio paritario che agisce destrutturando tutte le peculiarità e le differenze delle autonomie che tra l’altro, definiscono la storia dell’uomo, livellate da una mentalità progressista che è contro le identità collettive. A fronte di questa inconcepibile alterazione che ha investito addirittura i processi economici e finanziari (vedasi l’ultima invenzione dei green bond), poniamo alcune domande, ad Alain de Benoist. Per conoscere le sue osservazioni sul rapporto fra l’uomo e la natura, il suo parere sui movimenti ecologisti moderni e sull’ecologia profonda, espressione del filosofo e alpinista norvegese Anes Naess. Tanti argomenti per analizzare una branchia della scienza, vittima illustre del personalismo liberal-capitalista.





Gli stati occidentali sono accomunati dai due principi base: quello tecnico-industriale e quello della produttività, con il fine ultimo di incidere sulle prospettive del mercato. In tutto questo, quale può essere una corretta relazione tra uomo e natura ?



Gli autori liberali sono a favore di un mercato « autoregolatore e autoregolato »: essi ritengono che la « mano invisibile » (Adam Smith) sarebbe in grado di operare tanto più efficacemente sui mercati se si eliminasse ogni ostacolo politico, culturale e ambientale, che potrebbe arrestare una libertà commerciale intesa come libertà fondamentale. In una simile prospettiva, è chiaro che le preoccupazioni ecologiste non sono affatto tenute in considerazione. Gli stessi autori liberali riconducono tutti i valori all’unico valore dello scambio commerciale. Essi considerano come inesistente tutto ciò che non si riesce a concepire in termini di calcolo e di quantità. Si mostrano indifferenti verso la qualità della vita in quanto non é quantificabile. Infine, hanno creduto per molto tempo che le risorse naturali fossero al contempo gratuite e inesauribili, mentre oggi sappiamo che non sono né le une né le altre. Per tutte queste ragioni, la logica profonda del capitalismo liberale, che é una logica dell’illimitato, vale a dire del « sempre di più », risulta inconciliabile con le esigenze de conservazione degli ecosistemi.



Un rapporto corretto con la natura implica rompere con l’idea che già si trova nella tradizione biblica, secondo la quale l’uomo deve « dominare la Terra» (Gen. 1, 28) – diventare il « signore e sovrano » della natura, come voleva Cartesio. In altre parole, si tratta di farla finita con questo concetto secondo il quale la Terra sarebbe un mero oggetto appropriabile da un soggetto umano per mezzo della tecno-scienza. Al rapporto di dominio si deve sostituire un rapporto di coappartenenza. La natura non è soltanto « buona » in virtù di quello che ci offre, essa è intrinsecamente buona, indipendentemente perfino dall’utilizzo che se ne fa. Il mondo naturale non è un semplice scenario della nostra esistenza, ma è invece una delle condizioni sistemiche della vita. L’etica dell’ambiente si pone così immediatamente come antagonista della concezione utilitarista o strumentale della natura, sia che quest’ultima si esprima come indifferenza nei confronti dei problemi ambientali sia per la loro considerazione nella sola prospettiva di una gestione dell’ambiente naturale conforme all’assiomatica dell’interesse. Al di là delle illusioni dello « sviluppo durevole » e del « capitalismo verde », questo modo di vedere le cose deve portare finalmente a formulare una critica in profondità dell’ideologia della crescita: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito.



Che idea si è fatto dei movimenti ecologici moderni e dei “nuovi” parametri del progresso che alcuni di essi seguono con costanza da diversi anni ?



Il grande problema dei movimenti ecologisti moderni é che in realtà non si interessano molto all’ecologia. Trascorrono più tempo a tutelare l’immigrazione, la teoria del gender, il femminismo egualitario o la legalizzazione delle « droghe leggere », tutte cause il cui carattere «ecologico» è assai poco evidente, piuttosto che lottare per restaurare gli equilibri naturali. In molti paesi, i Verdi si sono storicamente alleati a partiti socialisti o socialdemocratici acquisiti al culto della crescita, del produttivismo, e del sovrappiù, e per di più oggi sempre più convinti dei benefici dell’economia di mercato. E’ il motivo per il quale molti di loro esitano a rimettere in discussione i postulati dell’ideologia del progresso o la nozione stessa dello «sviluppo».



E’ appunto per uscire da questo circolo vizioso che un certo numero di economisti, teorici o gruppi ecologisti propongono di adottare un approccio alternativo. Invece di limitarsi a valutare il costo finanziario dei rischi, a determinare tassi d’inquinamento sopportabili, a moltiplicare le sanzioni, tasse e regolamentazioni d’altro genere, sarebbe a loro avviso il caso di ripensare interamanente il modello attuale di società, di farla finita con l’egemonia del produttivismo e della ragione strumentale; insomma, di agire sulle cause piuttosto che sugli effetti, rompendo con la religione della crescita e con il monoteismo del mercato. Sono i partigiani della decrescita.



Secondo lei, quali spazi può occupare nella società europea il pensiero dell’ecologia profonda, espresso dal filosofo e alpinista norvegese Anes Naess ? È evidente una cattiva interpretazione dell’ecosofia contemporanea, mescolata all’ecologia superficiale ?



Ci sono delle cose molto interessanti nell’Ecologia profonda, di cui il norvegese Arne Naess, scomparso nel 2009, è stato il principale teorico. Naess, ad esempio, riconosceva a pieno titolo il valore intrinseco della natura: « Il benessere della vita non umana sulla Terra ha valore per se stessa, scrive Naess. Questo valore é indipendente da ogni forma di utilità strumentale per i limitati scopi umani». Per arrivare a tale conclusione, la Scuola profonda usa un’argomentazione di tipo spinozista, secondo la quale la prova del valore intrinseco della natura è che l’uomo che cerca di realizzare se stesso finisce per diventare parte integrante con la natura.



L’Ecologia profonda diventa più criticabile quando spinge fino all’assurdo il suo rifiuto di quella visione « antropocentrica » e « specista ». Certo, non c’è dubbio che la sfida ecologista implichi una riforma del nostro modo di pensare, e l’avvento di una forma di pensiero più globale, meno « insulare » – dunque meno « antropocentrica ». Ma non si deve cadere neppure nell’eccesso opposto, che consiste nel credere che il miglior modo di impedire all’uomo di ritenersi soggetto sovrano della Terra, sia negare la sua specificità e del suo “dissolversi” nell’essere vivente, considerandolo solo come un’entità naturale fra altre. L’Ecologia profonda cade in questo eccesso quando loda un biocentrismo egualitario o riduzionista, o ancora quando interpreta l’unità del mondo come semplice identità, senza considerare che in una vera concezione olistica, il tutto è sempre articolato su diversi livelli. In questo modo, essa si delinea come una falsa alternativa fra l’antropocentrismo dominatore e il rifiuto di riconoscere all’uomo le caratteristiche specifiche che gli appartengono. Una simile alternativa continua furtivamente ad appoggiare sul dualismo cartesiano. Il compito che attende gli ecologisti è superare in toto questo dualismo. Non si tratta dunque di scegliere cultura contro natura, come fanno quelli che credono che quest’ultime si contrappongano come la libertà e la necessità, né natura contro cultura come pensa chi crede che il solo modo per proteggere l’ambiente naturale sia dissolvere l’uomo nel flusso dell’ esistenza, e perfino farlo scomparire. Si tratta, al contrario, di rifiutare l’umanesimo erede degli Illuministi, che crede che si possa riconoscere all’uomo la sua dignità strappandola al mondo naturale, e l’ideologia di quelli che dimenticano ciò che crea in proprio il fenomeno umano. Riconoscere la specificità umana non legittima più il dominio e la distruzione della Terra, così come la difesa e la conservazione della natura non implicano la negazione di ciò che vi è di unico nella specie umana.



(Traduzione a cura di Cristina Laura Masetti)

mercoledì 1 aprile 2015

Cultura. La spiritualità di FT Marinetti fra anticlericalismo, spiritismo e cristianesimo...


 di Giovanni Balducci (Barbadillo.it)

È noto come il Programma sansepolcrista del 1919 fosse fortemente anticlericale e presentasse addirittura un piano di marinettitav“svaticanizzazione” dell’Italia mediante il sequestro di beni e l’abolizione dei privilegi ecclesiastici. All’adunata di piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919 a Milano partecipa anche Filippo Tommaso Marinetti in qualità di leader del Partito Politico Futurista.

L’anticlericalismo di Marinetti ben si sposa con quello del movimento fascista, anzi è ancor più radicale di quest’ultimo, come si evince dal manifesto “Contro il Papato e la mentalità cattolica, serbatoi di ogni passatismo”, sempre del 1919, in cui il poeta propone di: «Sostituire all’attuale anticlericalismo retorico e quietista un anticlericalismo d’azione, violento e reciso, per sgomberare l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico che potrà scegliere una terra adatta ove morire lentamente».

Tali dichiarazioni non fanno altro che confermare quanto già espresso da Marinetti ne L’aeroplano del Papa, pubblicato nel 1912, in cui il padre del Futurismo predicava la necessità di «svaticanare l’Italia» e – in tempi non sospetti – di muovere guerra alla bigotta Austria.

Ma il violento anticlericalismo marinettiano è ben visibile in nuce già nel celebre Manifesto futurista del 1909, così pregno di quel dinamismo anarchico ed antitradizionale che sarà la cifra essenziale del movimento futurista, dal quale prenderà il via una nuova e rivoluzionaria stagione culturale, e che rappresentò, ça va sans dire, l’antecedente storico non solo di tutta l’arte a venire, ma anche di un nuovo modo di intendere la vita veloce e disinvolto.

fiuturism1Coevo al Manifesto del Futurismo è il “Manifesto politico per le elezioni del 1909” in cui Marinetti faceva professione di nazionalismo, anti-pacifismo, anti-socialismo ed anti-clericalismo. Dello stesso anno è anche l’incendiario romanzo “Mafarka il futurista”, che gli valse un processo per oltraggio al pudore. Pervaso da suggestioni nietzscheane ed anti-romantiche, il romanzo culmina con la generazione da parte del protagonista di un essere dalle fattezze di uccello meccanico, stante a simboleggiare la volontà di potenza ed il genio creativo dell’artista, temi cari al filosofo della “morte di Dio”.

A proposito delle concezioni antimetafisiche di Marinetti, Julius Evola – che di metafisica, invece, campava – ricorderà nella sua autobiografia di quando il poeta, dopo aver letto un suo scritto, gli disse chiaro e tondo che le proprie idee erano lontane dalle sue più di quelle di un esquimese. Ma si sa, quando non si crede più nella trascendenza, si finisce spesso col credere a tutto: così fu anche per Marinetti, che come molti altri positivisti della sua epoca – pensiamo a Cesare Lombroso, e alla sua passione per i tavolini traballanti – prese a frequentare medium e spiritisti, stringendo amicizia, tra l’altro, con la sensitiva e poetessa triestina Nella Doria Cambon, confidente, per altro, anche di Svevo e di D’Annunzio.

Ma il vitalismo di cui è pervasa l’intera opera marinettiana non è esente da influenze misticheggianti: quella di Marinetti è però una “mistica della materia”, infatti, il movimento, l’azione, il dinamismo, per Marinetti, non sono che espressioni di quell’energia bergsonianamente intesa come frutto di uno slancio vitale che spinge la materia ad evolversi. Egli stesso affermava che ogni seraaeropoemamarinetti era solito inginocchiarsi e pregare di fronte alla lampadina del proprio comodino, perché in essa circolava la “divina velocità”.

Con l’avanzar degli anni, nondimeno, farà ritorno alla fede cattolica. Negli anni ’30 promuove addirittura il movimento dell’“arte sacra futurista”, sostenendo che: «Solo gli artisti futuristi, che da vent’anni impongono nell’arte l’arduo problema della simultaneità, possono esprimere simultaneamente i dogmi simultanei del culto cattolico, come la Santa Trinità, l’Immacolata Concezione e il Calvario di Dio».

I suoi ultimi scritti, del 1944, sono “L’aeropoema di Gesù”, dove canta con enfasi palinodica «l’illusione di essere di metallo, mentre si è solo povera carne piangente», ed il “Quarto d’ora di poesia per la X Mas” – scritto poche ore prima di morire – in cui pare destreggiarsi tra il ritrovato amore per Dio e la passione per l’azione che l’accompagnò per tutta la vita: «Non vi grido arrivederci in Paradiso – dirà ai combattenti della X – ché lassù vi toccherebbe ubbidire all’infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti dunque autocarri avanti».