domenica 20 dicembre 2015

CASAGGì IN CORTEO: PRIMA GLI ITALIANI!












Il sogno si è avverato: tantissime persone hanno risposto all’appello di Casaggì e Fratelli d’Italia, con Gioventù Nazionale, sfilando per le strade di Firenze al grido di PRIMA GLI ITALIANI.

Una grande mobilitazione identitaria che ha centrato l’obiettivo: rappresentare il dissenso popolare e portarlo nelle strade, per lanciare un forte messaggio al governo Renzi nella città del Premier. Il riscatto dei tantissimi italiani che il buonismo ipocrita ha lasciato indietro: una maggioranza silenziosa e stanca, composta dai tanti lavoratori che mantengono in piedi questo sistema con le proprie tasse e si vedono scavalcati nelle graduatorie per le case popolari da chi è arrivato in Italia pochi mesi prima, dalle tante famiglie indigenti che si sacrificano silenziosamente per sbarcare il lunario, dai pensionati senza più una dignità, dai residenti di quelle periferie che stanno subendo la crisi economica e la violenza di un immigrazione incontrollata che viene pagata soltanto dagli ultimi, mentre la classe politica al governo continua a sistemare gli amici degli amici nella peggiore tradizione del clientelismo italiano.


Un messaggio chiaro al governo del “Boldrini-pensiero”: per una chiusura immediata delle frontiere e l’utilizzo della nostra Marina Militare per il presidio dei confini; contro il business milionario dell’accoglienza, che sta alimentando questo traffico disumano di persone; per una politica estera che intervenga nei paesi di origine con accordi e scelte forti che possano prevenire gli esodi; contro lo Ius Soli e la cittadinanza rapida; per la reintroduzione del reato di immigrazione clandestina e l’attuazione di un piano legislativo che consenta alle forze dell’ordine di intervenire e rimpatriare; contro quella elite politica, capeggiata dal Pd, che incarna uno spirito anti-nazionale incapace di rilanciare il paese, sempre attento alle ingiustizie che avvengono dall’altra parte del mondo, ma incapace di salvaguardare i nostri anziani, i nostri esodati, le nostre partite iva e i nostri cittadini. 

Una manifestazione che non ha mai, neanche per un attimo, prestato il fianco alle banalizzazioni della “guerra tra poveri” che l’estrema sinistra – nella sua contromanifestazione – sperava di affibbiarci: sappiamo perfettamente che il primo nemico è quella globalizzazione che rappresenta la causa dei processi migratori, che relega l’uomo a merce, che destabilizza le Nazioni e sopprime gli spazi di sovranità. Comprendiamo benissimo che il libero mercato ha la necessità di muovere le masse come i capitali, nella speranza di creare manodopera a basso costo ed eserciti di schiavi di riserva che abbassino i tetti salariali e gli standard sindacali dei paesi con uno stato sociale più marcato. E’ anche per questo che occorre ribadire la necessità di chiudere le frontiere e fermare questa invasione: per tutelare i nostri lavoratori, la nostra identità, il nostro futuro; per non illudere nessuno con la speranza di un avvenire che non abbiamo più neanche per noi.

Una marcia, la nostra, che ha ribadito l’assoluta necessità di riconquistare una sovranità, per tornare padroni del nostro destino: la sovranità nazionale e politica ormai subordinata alle potenze straniere, quella monetaria affossata dall’eurocrazia e dal signoraggio, quella popolare svilita da governi tecnici e premier per nomina. Uno degli striscioni firmati da Casaggì recitava: “Nazione, sangue e suolo: vivere sovrani, per non morire schiavi”. Perché questa rivoluzione sovranista deve avere il marchio della nostra identità: quella della Civiltà europea, delle nostre tradizioni, delle nostre cattedrali, delle nostre lingue, della nostra arte, della nostra cucina, della nostra agricoltura, della nostra storia. Solo così si combatte il mostro globale: riscoprendo un sano senso di appartenenza che è il solo argine al pensiero unico e all’omologazione planetaria, il solo antidoto a quella società multietnica senza punti di riferimento, senza radici e senza origini, tenuta insieme soltanto dalla frenesia del consumismo, privata di ogni riferimento di ordine superiore, liquefatta nel mare del nichilismo e delle teledipendenza. Un’identità, la nostra, che vuole rinsavire il senso di Comunità, riscoprire i legami solidali, difendere le Idee e custodire le differenze. 

In piazza sventolavano centinaia di bandiere, firmate da Casaggì, riportanti il simbolo della fiaccola tricolore: un testimone stretto nel pugno, con una fiamma che simboleggia il movimento e la trasmissione dell’eterno. Lo striscione di apertura recitava ciò che riassume al meglio questa magnifica giornata di mobilitazione e passione: “Siamo lo stupendo vivere in un mondo di morti”. L’Italia più bella è questa.

martedì 17 novembre 2015

Parigi, multiculturalismo fallito e i limiti all’immigrazione di massa...


di Stenio Solinas (Barbadillo.it)
Scoprire, come sta avvenendo in queste ore, che gli assassini di Parigi sono in maggioranza francesi è uno di quei cortocircuiti della Storia su cui converrebbe riflettere.
Lasciamo da parte le ovvie considerazioni di politica estera, ovvero uno scenario in cui la politica militare francese fra Mali, Centro-Africa, Afghanistan e Medio Oriente ha trasformato il Paese nel bersaglio numero uno dei jihadisti del mondo islamico, e guardiamo un po’ meglio quello che accade sul fronte interno. Esiste una situazione esplosiva nelle banlieues della capitale, e non solo, che la crisi economica ha aggravato, mentre l’assimilazione da un lato e il multiculturalismo dall’altro si sono dimostrati nel tempo incapaci di dare una risposta. La popolazione che le abita è sempre più giovane, oscilla fra microcriminalità, piccola economia di sussistenza pubblica e l’impossibilità di trovare uno sbocco in una città-mondo che esalta sì le «diversità», ma espelle dal centro, così come dai nuovi-antichi quartieri trasformati dalle mode e dagli stili di vita emergenti, le vecchie classi sociali «bianche» e «beur», ovvero il ceto piccolo borghese e operaio, l’immigrazione di prima generazione, relegando gli uni e l’altra ai margini geografici e sociali.
All’ultimo Festival di Cannes ha fatto molto discutere la Palma d’oro assegnata a Deephan, un film di Jacques Audiard, che narra l’arrivo a Parigi di un ex guerriero tamil, fuggito dagli orrori della guerra civile in Sri Lanka e dai suoi stessi orrori, perché in quel conflitto ha combattuto, devastato, ucciso. Che cosa trova il nostro profugo nella periferia parigina che lo accoglie? L’assenza dello Stato e la presenza di tanti caïd della droga, in lotta fra loro per il controllo dello spaccio. Musulmani di origine, francesi per cittadinanza, teppisti di puro succo indigeno, una miscela esplosiva dove le bande si alleano o si combattono in nome di supposte regole nazionali e/o religiose. Ne verrà fuori una strage, con l’ex tamil che ritrova a un certo punto quell’ebbrezza del sangue e della morte che si illudeva di aver dimenticato. Stando alle autorità transalpine, ci sono oggi circa 1.500 giovani francesi riconducibili alla filiera islamista coinvolti nel conflitto siro-iracheno, l’84 per cento in più rispetto allo scorso anno. Oltre cinquemila sono gli islamisti radicali titolari sul territorio della cosiddetta scheda S, ovvero ritenuti pericolosi per la sicurezza.
L’eredità coloniale fa il resto.È la punta di un iceberg cresciuto nell’odio del vecchio romanzo nazionale francese. Su tutto ciò, da un quarantennio a questa parte, la Francia dei «diritti dell’uomo» ha steso una melassa insopportabile picconando quelli che erano i valori identitari nazionali, colpevolizzando cioè i francesi per il solo fatto di voler essere tali, senza però che mai dalle parole generiche, dalla facile retorica dei buoni sentimenti, dalle lusinghe massmediali un tanto al chilo si agisse poi veramente in profondità, disinnescando i conflitti, ricucendo i tessuti economici e sociali, riaffermando un diritto-dovere nei rapporti fra cittadino e Stato. Una melassa indigesta e indigeribile dove le vecchie parole d’ordine venivano ridicolizzate, ma le nuove restavano appannaggio di una società dello spettacolo divenuta ormai un tutt’uno con la società della politica, un’orgia di «politicamente corretto» dietro al quale, così come per la politica estera francese, non c’era e non c’è né una visione strategica né un progetto, ma solo l’illudersi di essere al passo con i tempi.
Oggi la Francia ufficiale, con sette milioni di musulmani in casa, si trova a dover rispondere a una domanda semplice che essendo però «politicamente scorretta» si è finora rifiutata di porsi: quando è che il fenomeno di immigrazione di massa oltrepassa i livelli fisiologici che gli sono propri? Alcuni studiosi, di destra come di sinistra, parlano già di «sostituzione di popolazione» e sono gli stessi che si chiedono in nome di quale principio una società multietnica debba essere giudicata preferibile a una società monoetnica. Perché, insomma, si debba applaudire all’«elogio del meticciato» e non alla difesa di un’identità etnoculturale che viene invece spacciata come un crimine. Anche perché, se è un crimine, non si capisce bene quale guerra si voglia combattere… (da Il Giornale)

lunedì 2 novembre 2015

GRANDE CORTEO A FIRENZE, CONTRO IMMIGRAZIONE E GOVERNO RENZI!



La destra scende in piazza con un grande corteo nel cuore di Firenze: l’obiettivo è quello di lanciare un forte messaggio al governo Renzi, al Presidente della Regione Rossi e al sindaco Nardella. Una mobilitazione popolare, sostenuta da comitati e movimenti, contro l’emergenza dell’immigrazione clandestina gestita in modo fallimentare da una sinistra che ha aperto le frontiere senza preoccuparsi delle conseguenze e dei rischi per il tessuto economico, sociale e culturale di una Nazione che vive un momento di crisi. 

Il pericolo dell’infiltrazione di terroristi islamici, lo Ius Soli e la cittadinanza rapida, le cooperative rosse che gestiscono il business milionario dell’accoglienza, lo sfruttamento della manodopera a basso costo, l’abbandono delle nostre periferie, l’assenza di un futuro per i nostri giovani, l’abolizione del reato di clandestinità, l’insicurezza e la criminalità in crescita, la subordinazione verso un’Europa che non tutela i nostri interessi, la concessione di diritti agli stranieri che i nostri connazionali si vedono negati, l’abusivismo e il degrado nel nostro centro storico, l’attacco ripetuto ai pilastri fondanti della nostra Civiltà e della nostra Tradizione, i rischi connessi alla società multietnica: sono solo alcuni dei problemi che, da italiani e da fiorentini, abbiamo il dovere di affrontare e risolvere. 

Con noi ci sarà la gente che non vuole chinare il capo. Un popolo al quale non può essere negata la legittima difesa; un Popolo che sta subendo gli errori di una classe politica scollegata dalla realtà; un Popolo che vuole poter contare sul diritto ad una casa e ad una stabilità lavorativa; un Popolo stanco di delegare e di subire. E’ il nostro Popolo, quello che non vuole rinunciare alla propria identità, che vuole vivere in un paese sovrano, che crede nella giustizia sociale, che vuole restituire una dignità all’Italia e dare una speranza ai propri figli. 

Per troppo tempo sei rimasto a guardare. Adesso è tempo di lottare!

SABATO 19 DICEMBRE ORE 16 - PIAZZA DELL’UNITA’ - FIRENZE
GRANDE CORTEO TRICOLORE
CON OSPITI NAZIONALI E INTERVENTI POLITICI 

sabato 31 ottobre 2015

STOP GENDER!




Nella notte fra giovedì e venerdì, i militanti di Ronin Scuole, movimento studentesco di Ronin Pisa hanno affisso, su cancelli e portoni di alcune scuole elementari e medie di Pisa, volantini di protesta contro la cosiddetta “Teoria Gender”.
La Riforma voluta dal governo Renzi, nonostante le raccomandazioni e le minacce del Ministro Giannini, apre la strada alla diffusione nelle scuole della teoria gender. Quest’ultima, ormai affermata in molti paesi occidentali, è un’ideologia che fonda la propria essenza sulla convinzione che non esistano uomini e donne, ma comportamenti sociali in grado di stabilire – a piacimento – l’identità sessuale della persona.
Questo attacco alla sessualità e ai suoi generi – maschile e femminile – è una manipolazione dell’essere umano e della sua natura, una mutazione antropologica che viene promossa dalle grandi lobby con un bombardamento mediatico e culturale. Negli ultimi anni abbiamo assistito al tentativo, già in atto, di far scomparire i termini “madre” e “padre” dall’utilizzo quotidiano per convertirli nei più anonimi e politicamente corretti “genitore 1” e “genitore 2”: sono stati proprio alcuni istituti a cancellare queste parole dalla propria modulistica e dai libretti delle giustificazioni o a diffondere nelle scuole elementari le fiabe gay.
Lo scopo ultimo di questo folle progetto è la creazione di un uomo senza identità, amorfo e resettato, manipolabile e fluido, una pedina di quell’omologazione assoluta fondata sul pensiero unico e allineato. È un attacco al cuore della nostra civiltà e del suo pilastro storico: quella famiglia che rappresenta la prima cellula comunitaria della società”.
“Il comma 16 del testo della “Buona scuola” in nome della lotta alla discriminazione, rimanda alla legge 119 del 2013 che, a sua volta, fa riferimento alla Convenzione di Istanbul e al decreto legge n.93. Il testo non si riferisce alla nozione classica di “sesso biologico”, ma al concetto di “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti” e di “superamento degli stereotipi che riguardano il ruolo sociale, la rappresentazione e il significato dell’essere donne o uomini mediante l’inserimento di un approccio di genere nella pratica educativa”, oltre all’assoluta necessità di “promuovere una adeguata formazione non solo alle superiori, ma fin “dalla scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”.
Ribellarsi a questa follia è un dovere etico.

venerdì 23 ottobre 2015

Sindacalismo e Rivoluzione: in memoria di Filippo Corridoni...






di Mario M. Merlino

 Il 23 ottobre del 1915 si va all’assalto del monte San Michele, dove gli austro-ungarici hanno approntato temibili difese, scavando la roccia per i cannoni e le mitragliatrici, srotolando il filo spinato. L’Alto Comando italiano, come del resto quello di tutti gli altri Paesi in guerra, è ancorato alle strategie risalenti a Napoleone e di tutto l’Ottocento, ammassare cioè truppe e aprirsi un varco tra le linee avversarie… con soddisfazione estrema delle raffiche della mitragliatrice, simile al gioco di buttar giù il più gran numero di birilli, dei cavalli di Frisia su cui stendere, panni stesi ad asciugare, il grigioverde dei fanti. Una carneficina di corpi straziati di membra e di sangue sparsi, irriconoscibili.
   Trincea delle Frasche, 32° reggimento, brigata Siena. Cade – e il suo corpo non sarà identificato -, volontario, Filippo Corridoni, già interventista, già figura ardita e nota del sindacalismo rivoluzionario, classe 1887 (era nato il 19 agosto a Pausula, in provincia di Macerata, che da lui prenderà nome di Corridonia. Nel 1905 si era trasferito a Milano per essere in prima fila nelle lotte operaie, malato di tubercolosi, esistenza grama e ardente, gli stenti, la prigione). L’Arcangelo, come sarà ricordato. Da una delle sue ultime lettere: ‘Io rimarrò sempre il Don Chisciotte del sovversivismo; ma un Hidalgo senza ingegno pieno soltanto di fede. Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma se potrò cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora’…
   Nei mesi antecedenti l’entrata in guerra dell’Italia, della neutralità, egli si trova nel carcere di San Vittore a scontare la pena per l’ennesima manifestazione antimilitarista. Alceste De Ambris, a lui fedelissimo, viene incaricato dagli altri suoi compagni di lotta sindacale di recarsi in carcere e di comunicargli come abbiano intenzione di scendere in campo, nelle strade e nelle piazze, a fianco del composito fronte interventista per portare la loro voce a favore della Grande Guerra, intesa quale lavacro purificatore per realizzare la dignità e la giustizia del lavoro, rendere il proletariato parte integrante della Nazione. Egli è titubante. Cosà dirà il compagno e l’amico, che si trova ristretto proprio per aver combattuto ogni uniforme con cui lo Stato e il suo apparato repressivo si reggono con le armi? Corridoni gli si fa incontro, sorride, lo abbraccia – ‘so tutto, sono con voi, appena fuori dal carcere, daremo battaglia…’.
   Questo entusiasmo è il medesimo che ha segnato tutto il breve percorso, intenso, della sua esistenza: egli vede il lavoratore e il soldato frutto della medesima battaglia (si respira l’atmosfera nuova del nuovo secolo come farà Ernst Juenger con il breve scritto La mobilitazione totale e, successivamente, con il ponderoso L‘operaio) perché ‘la realtà tragica ed impreveduta ha spazzato via i rosei sogni e le splendide illusioni, ed ha imposto a tutti un più accurato e profondo esame di coscienza… Pane, sì, ma anche idee, anche educazione. Bisogni fisiologici, sì, ma anche spirituali, culturali. Il proletariato non è classe finchè non ha una coscienza di classe; e questa non si acquista finchè l’organizzazione non si allargherà ad altre battaglie oltre quella del salario e dell’orario. Si mangia per vivere e non si vive per mangiare. E noi vogliamo, dall’alto di questa libera tribuna, illuminare le nuove vie della marcia proletaria’.
   Proprio nell’ultima sua detenzione, aprile 1915, Corridoni scrive Sindacalismo e Rivoluzione, che sarà edito solo nel 1921, che può ben considerarsi testamento spirituale e politico – solo sei mesi lo separano dalle trincee sotto monte San Michele. Una lucida sintetica analisi, un ragionamento robusto, una visione ampia e articolata del problema rivoluzionario alla vigilia del conflitto. Certo non si può pretendere ad un giovane degli anni ’10 di travalicare l’orizzonte del proprio tempo (solo visionari, folli e disperati, quali Nietzsche lo hanno saputo voluto fare e pagato di persona), soprattutto con lo scenario tragico e dirompente, il rovinio tellurico dell’Europa, quale confine. E’, altresì, vero che egli comprese che era tempo di saldare le masse con la nazione e renderle un popolo, di superare la condizione di un’Italia debole nella sua borghesia, vile e taccagna, incapace di pensare ‘in grande’… Quell’Italia ‘proletaria e fascista’ di cui l’amico Mussolini si fece interprete, pur con tanti tentennamenti e troppi compromessi.
   Ben altro e di più sarebbe e si dovrebbe scrivere, ma questo è un breve sincero, poco articolato e forse con qualche incertezza, verso Filippo Corridoni a cento anni dalla sua morte, di un uomo che seppe scrivere alla donna cara: ‘Ho amato le mie idee più di una madre, più di qualsiasi amante cara, più della vita. Le ho servite sempre ardentemente, devotamente, poveramente. Chè anche la povertà ho amato, come San Francesco d’Assisi e frà Jacopone, convinto che il disprezzo delle ricchezze sia il migliore ed il più temprato degli usberghi per un rivoluzionario’ (dal Campo, 12 settembre 1915).
   Una lezione di vita, uno stile che vale la pena tenere a mente, soprattutto oggi in tempi mali, di abbandono e disincanto. Dirigendosi verso le postazioni austriache di monte San Michele, se si abbandona il percorso asfaltato e ci si inoltra per un viottolo fangoso, superato il cippo, di modesta fattura, della divisione Sassari, e ,proseguendo per una ripida tutta sassi, si arriva alla stele dedicata a Corridoni, eretta nel 1923, alta oltre i venti metri con fregi raffiguranti la mano destra aperta in segno di saluto, l’aquila che si volge ad est, il fascio littorio e i simboli del lavoro quali la ruota e l’aratro. Alla base la scritta incisa nella pietra: ‘Qui eroico combattente cadde Filippo Corridoni fecondando col sacrificio della vita la gloria della patria e l’avvenire del lavoro’. (Ho trovato di grande onestà intellettuale e di rigoroso rispetto questo epitaffio che non cerca di tirare perla giacchetta un morto e arruolarlo d’ufficio).
    Infine, rievocandone la figura l’apostolato la morte, avvenuta due anni prima, Benito Mussolini scriveva, fra l’altro, su Il Popolo d’Italia ‘Egli era un nomade della vita, un pellegrino che portava nella sua bisaccia poco pane e moltissimi sogni e camminava così, nella sua tempestosa giovinezza, combattendo e prodigandosi, senza chiedere nulla’. Chi non vorrebbe ascoltare un simile richiamo rivolto a se stesso? Gli dei nascono e muoiono per risorgere, così la pensava Drieu la Rochelle, concludendo il suo romanzo Gilles. E, se ciò vale per il divino, perché non dovrebbe valere per le sue manifestazioni, quali gli arcangeli, l’Arcangelo della trincea delle Frasche?

mercoledì 14 ottobre 2015

Ius Soli passa alla camera: vergogna nazionale!

da Azione Tradizionale

E’ ufficialmente cominciata la nuova ondata di attacchi a tutto ciò che è Identità. Il “passo in avanti” che ci chiedeva tutto l’Occidente è arrivato, con l’approvazione della Camera alla legge sulla cittadinanza, che introduce lo Ius Soli al posto dello Ius Sanguinis.
E oggi in parlamento si discute delle unioni civili…
(www.repubblica.it)- Sì dell’Aula della Camera alla nuova legge sulla cittadinanza. Il testo, approvato con 310 sì, 66 no e 83 astenuti, passa al Senato. I deputati della Lega hanno urlato “Vergogna!”. Quelli del Pd hanno applaudito. Al voto finale si sono astenuti i deputati M5S, mentre contro il testo hanno votato quelli di Lega, Fdi e Fi. Forza Italia non ha votato compatto. 
Addio quindi allo ius sanguinis, via libera allo ius soli temperato e allo ius culturae: sono queste le nuove fattispecie per l’acquisto della cittadinanza italiana da parte dei minori stranieri, introdotti dalla proposta di legge approvata oggi dalla Camera.
Ius soli temperato. Acquista la cittadinanza per nascita chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Per ottenere la cittadinanza c’è bisogno di una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età. Se il genitore non ha reso tale dichiarazione, l’interessato può fare richiesta di acquisto della cittadinanza entro due anni dal raggiungimento della maggiore età. Quanto allo ius soli previsto dalle norme attuali, relative allo straniero nato e residente in italia legalmente senza interruzioni fino a 18 anni, il termine per la dichiarazione di acquisto della cittadinanza viene aumentato da uno a due anni dal raggiungimento della maggiore età.
Niente ius soli per i cittadini europei. La nuova fattispecie di acquisto della cittadinanza per nascita non sarà applicabile ai cittadini europei, in quanto possono essere titolari di permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo solo i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea.
Dubbi sul permesso di soggiorno Ue. Tale permesso è rilasciato allo straniero cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea in possesso da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità; reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale; disponibilità di alloggio che risponda ai requisiti di idoneità previsti dalla legge; superamento di un test di conoscenza della lingua italiana. Non hanno diritto al permesso gli stranieri che: soggiornano per motivi di studio o formazione professionale; soggiornano a titolo di protezione temporanea o per motivi umanitari; hanno chiesto la protezione internazionale e sono in attesa di una decisione definitiva circa tale richiesta; sono titolari di un permesso di soggiorno di breve durata; godono di uno status giuridico particolare previsto dalle convenzioni internazionali sulle relazioni diplomatiche.
Ius culturae. Può ottenere la cittadinanza il minore straniero, che sia nato in Italia o sia entrato nel nostro Paese entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Nel caso in cui la frequenza riguardi il corso di istruzione primaria, è necessaria la conclusione positiva di tale corso. La richiesta va fatta dal genitore, cui è richiesta la residenza legale, oppure dall’interessato entro due anni dal raggiungimento della maggiore età.
Norma transitoria. Le nuove norme si applicheranno anche ai 127mila stranieri in possesso dei nuovi requisiti ma che abbiano superato, al momento di approvazione della legge, il limite di età dei 20 anni per farne richiesta. Il ministero dell’Interno avrà sei mesi di tempo per rilasciare il nulla osta.

lunedì 5 ottobre 2015

35 anni fa l’addio a Nanni De Angelis: per lui giustizia non è mai stata fatta...


di Antonio Panullo (Secolo d'Italia)

Sono passati 35 anni dalla morte di Nanni De Angelis, uno dei leader di Terza Posizione, movimento politico attivo a Roma e in Italia nella seconda metà degli anni Settanta. Nanni era molto noto a Roma, era apprezzato e benvoluto da tutti, anche da coloro che non ne condividevano le idee. La sua storia è troppo nota perché la si debba qui raccontare nuovamente per esteso, pertanto ci limiteremo a ricordare brevemente cosa accadde quei giorni, sottolineando che la sua morte in carcere colpì e segnò profondamente tutta una generazione di militanti che sino ad allora aveva dovuto sopportare ogni tipo di persecuzione, dal sistema e dall’estrema sinistra, per la quale uccidere un fascista non era reato. Nanni era nato il 31 luglio 1958 a Campotosto, in provincia dell’Aquila, di dove è originaria la sua famiglia. Dopo aver frequentato brevemente insieme con il fratello Marcello la sezione del Msi dei Parioli, in viale Rossini, i due preferirono prendere altre strade, formando in seguito Terza Posizione insieme con altri attivisti. Nanni era un vero artista, oltre che uno sportivo: per anni in piazzale delle Muse è rimasto ben visibile un mural da lui (e da altri) realizzato nel 1976 per ricordare i venti anni dell’invasione sovietica dell’Ungheria: vi si vede un ragazzo che lancia una molotov contro un carro armato comunista. Terza Posizione e i militanti del Fronte della Gioventù avevano un buon successo nel quartiere Trieste di Roma, dove De Angelis era responsabile di TP. Nanni e gli altri ragazzi del gruppo si alternarono con i ragazzi missini nelle veglie per Francesco Cecchin, un’altra giovanissima vittima di quegli anni, a piazza Vescovio. Le cose precipitarono il 23 settembre 1980, quando furono emessi centinaia di mandati di arresto in seguito alla strage di Bologna, molti dei quali mandati riguardavano attivisti di estrema destra tra cui anche Nanni e il fratello. Va ricordato e sottolineato che tutti ragazzi arrestati in quella circostanza risultarono naturalmente del tutto estranei ai fatti, ma molti di loro rimasero ingiustamente in carcere diversi mesi. Per Nanni, innocente, non ci fu altra scelta che la latitanza, ma il 3 ottobre fu arrestato in via Sistina a Roma insieme con Luigi Ciavardini. I due avevano appuntamento con qualcuno che avrebbe dovuto fornire loro documenti falsi. Ma gli inquirenti ascoltavano le telefonate. Nel corso della movimentata cattura, De Angelis è più volte colpito duramente con i calci delle pistole. Secondo i giornali, in seguito si apprese che in questura fu fatto passare tra due file di poliziotti e massacrato di botte, perché scambiato per errore per uno dei partecipanti al commando che aveva ucciso il poliziotto Evangelista davanti al Giulio Cesare.

Nanni De Angelis fu trovato morto il 5 ottobre pomeriggio

Il giorno successivo, il 5 ottobre, Nanni viene trovato morto in cella di isolamento a Rebibbia e le autorità forniscono immediatamente una versione di “suicidio”. La famiglia viene per ore tenuta all’oscuro della morte, appresa poi dal telegiornale. All’arrivo in questura De Angelis sta abbastanza bene, pur con una botta in testa, ma poi il giovane, aggravatosi, viene ricoverato al craniolesi del San Giovanni perché accusa forti dolori alla testa, colpita dal calcio della pistola di un poliziotto. Ma anziché rimanere nell’ospedale, poco dopo De Angelis viene trasferito a Rebibbia, dove neanche c’è il medico. Il trasferimento avviene in barella poiché il giovane non è in condizioni di camminare. Secondo la cronaca di allora del Tempo, il giovane aveva lo sguardo fisso nel vuoto e guardava il fotografo del quotidiano romano senza però vederlo, immerso in uno stato di stordimento. Alle 18 viene trovato morto, impiccato con una corda ricavata dai lenzuoli, senza che nessuno abbia visto o sentito niente. Il Msi senza mezzi termini in interrogazioni parlamentari (firmate da Almirante, Romualdi, Caradonna, Rauti, Miceli e Greggi) sostiene che il giovane sia stato colpito in questura e rianimato addirittura con l’intervento di un medico, e che la sua morte non sia dovuta a suicidio ma ad altre cause. Marchio nella sua interrogazione chiede poi se corrisponda al vero che i giovani appena arrivati in questura siano stati aggrediti da agenti perché qualcuno aveva detto che erano responsabili della morte di un loro collega. Michele Marchio in un’altra interrogazione – stavolta al Senato – sostiene anche che la Digos fece fotografare solo Ciavardini e non De Angelis dopo l’ingresso in questura e chiede chi abbia autorizzato il trasferimento di De Angelis dal San Giovanni al carcere. A questo si aggiunge la inspiegabile crudeltà nei confronti della famiglia, mai avvisata né dell’arresto e del trasferimento del giovane né della sua misteriosissima morte.

L’autopsia dimostrò che Nanni De Angelis fu duramente picchiato

Successivamente si apprende che il direttore del craniolesi Interligi aveva dato con riluttanza l’autorizzazione al trasferimento, purché fosse ospitato all’infermeria e subisse un controllo neurologico, e che a Rebibbia il giovane non fu accompagnato da alcuna cartella medica né altra documentazione sanitaria. Tutta la stampa nazionale, una volta tanto, espresse gli stessi dubbi del Msi, addirittura il quotidiano di Torino la Stampa si chiese come abbia potuto il giovane legare le lenzuola a un’inferriata… che non c’è. I giornali in particolare criticarono il fatto che la tv fu informata prima dei genitori del decesso e insistono sul pestaggio in questura e sul perché il giovane sia stato sbattuto in cella anziché ricoverato nell’infermeria del carcere. Si apprese in quei giorni dai giornali che De Angelis arrivò al San Giovanni già con una medicazione affrettata effettuata in questura, segno che, come sosteneva il senatore Marchio, De Angelis era già stato visitato da un medico il quale aveva il compito di “renderlo presentabile” dopo le percosse ricevute. Quello che sosteneva la famiglia e il Msi fu confermato dagli esiti dell’autopsia, che smentirono totalmente quanto dichiarato dai medici del carcere in un primo momento. L’8 ottobre Nanni viene sepolto a Poggio Cancelli, in provincia dell’Aquila, nella tomba di famiglia alla presenza dei familiari e dei suoi camerati. Ogni anno viene ricordato da chi gli voleva bene.

giovedì 10 settembre 2015

"Tornate a casa vostra". Quando la sinistra sputava sui profughi istriani...


di Giuseppe De Lorenzo (Il Giornale)

Il Pci non conobbe la parola "accoglienza". Per gli italiani di Pola e Fiume solo odio. L'Unità scriveva: "Non meritano la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane"

"Poi una mattina, mentre attraversavamo piazza Venezia per andare a mangiare alla mesa dei poveri, ci trovammo circondati da qualche centinaio di persone che manifestavano.

Da un lato della strada un gruppo gridava: 'Fuori i fascisti da Trieste', 'Viva il comunismo e la libertà' sventolando bandiere rosse e innalzando striscioni che osannavano Stalin, Tito e Togliatti". Racconta così Stefano Zecchi, nel suo romanzo sugli esuli istriani (Quando ci batteva forte il cuore), l'accoglienza del Pci agli italiani che abbandonarono la Jugoslavia per trovare ostilità in Italia. Quella che fino a pochi attimi prima era la loro Patria.
Quando alla fine della seconda guerra mondiale, il 10 febbraio 1947 l'Italia firmò il trattato di pace che consegnava le terre dell'Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia di Tito, la sinistra non conobbe l'accoglienza. Tutt'altro. Si scaglio con rabbia e ferocia contro quei "clandestini" che avevano osato lasciare il paradiso comunista.
Trecentocinquantamila profughi istriani e dalmati. Trecentocinquantamila italiani che la sinistra ha trattato come invasori, come traditori. Ad attenderli nei porti di Bari e Venezia c'erano sì i comunisti, ma per dedicargli insulti, fischi e sputi. Nel capoluogo emiliano per evitare che il treno con gli esuli si fermasse, i ferrovieri minacciarono uno sciopero.
Giorgio Napolitano ha ragione: il Pd è davvero l'erede del Pci. La sinistra italiana, che di quella storia è figlia legittima, dimentica tutto questo. Ora si cosparge il capo di cenere e chiede a gran voce che l'Italia apra le porte a tutti i migranti del mondo. Predica l'acccoglienza verso lo straniero che considera un fratello. Quando per anni ha considerato stranieri i suoi fratelli. Gli unici profughi che la sinistra italiana ha rigettato con violenza erano italiani. Istriani e Dalmati. "Sono comunisti. Gridano 'fascisti' a quella povera gente che scende dalla motonave (...). Urlano di ritornare da dove sono venuti".
Non sono le parole di Matteo Salvini. "Tornate da dove siete venuti" era lo slogan del Partito Comunista di Napolitano, Violante, D'Alema, Berlinguer e Veltroni.
L'Unità, nell'edizione del 30 novembre 1946, scriveva: "Ancora si parla di 'profughi': altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi".
Oggi invocano l'asilo per tutti. Si commuovono alla foto del bambino riverso sulla spiaggia. Lo pubblicano in prima pagina. Dedicano attenzione sempre e solo a chi viene da lontano. Agli italiani, invece, a coloro che lasciatono Pola, Fiume e le loro case per rimanere italiani, la sinistra riservò solo odio. Lo stesso che gli permise di nascondere gli orrori delle Foibe.
"Non dovevamo dimentirare che eravamo clandestini, anche se eravamo italiani in Italia".

lunedì 31 agosto 2015

Intervista a Marco Scatarzi di Casaggì...



Intervista di Randy Ichinose (Eco Tricolore) a Marco Scatarzi di Casaggì Firenze

1) Randy: Casaggì. Molto in generale come nasce e quale è la storia del centro sociale?
Marco: Casaggì nasce nel gennaio del 2005 a Firenze per volontà della comunità militante di Azione Giovani.
La volontà era quella di creare uno spazio libero, un “centro sociale di destra”, che potesse offrire un modello aggregativo che – partendo da una visione del mondo identitaria – fosse in grado di essere un punto di riferimento politico, solidaristico e culturale.
E’ stato un percorso difficile, ma anche bellissimo: in pochi anni si sono avvicinati al progetto centinaia di giovani, per quello che effettivamente ha rappresentato un unicum nella storia della “destra” fiorentina.
Finalmente si respirava aria nuova, si utilizzava un linguaggio diverso, una grafica accattivante; si organizzavano iniziative fuori dagli schemi, che fino ad allora erano state appannaggio della sinistra antagonista; si tornava in piazza con cortei tricolori oceanici, si riempivano le pagine dei giornali, si conquistava la Consulta studentesca con percentuali bulgare, si eleggevano consiglieri comunali a suon di preferenze e si metteva in piedi un circuito culturale, militante e politico in grado di sostenersi da solo: libero da pelose supervisioni, da imposizioni partitiche, da diktat ideologici o correntizi. Un percorso di emancipazione ed autodeterminazione dal basso compiuto tra mille difficoltà e in un territorio difficilissimo.
Un’esperienza che ha resistito a tutti i tracolli politici della destra italiana, restando sempre in prima linea. Casaggì ora conta un decennio di lotte: ha una propria sede, costruita con le proprie mani ed autofinanziata quotidianamente, ha dei propri riferimenti politici nelle Istituzioni locali, ha un nucleo militante compatto e ormai strutturato in tutta la Toscana, continua a sfornare attività di vario genere con cadenza settimanale e senza sosta.
2) R: Quali le vostre battaglie principali e le vostre attività?
M: Facciamo nostre tutte le battaglie che risultano inquadrabili in una prospettiva identitaria, sociale e comunitaria. Abbiamo una visione del mondo profonda, che può declinarsi in ogni ambito.
Svolgiamo un buon numero di attività militanti, in modo particolare nelle scuole superiori, che da sempre riteniamo un terreno fertile per la diffusione di idee.
Siamo molto attività anche sul territorio cittadino, con volantinaggi e iniziative nei quartieri. Nel nostro spazio organizziamo conferenze, cene sociali, concerti, cineforum, gruppi di studio, assemblee ed eventi.
Nei nostri locali ospitiamo una libreria (Sherwood), un pub (Bogside), un progetto musicale (Gene ZeroZero), un laboratorio di cinema e arte, una scuola di formazione e uno “sportello di aiuto del cittadino” con l’aiuto di avvocati e commercialisti. La giustizia sociale è una delle nostre priorità e i nostri referenti nelle Istituzioni hanno un continuo dialogo con quelle fasce sociali che subiscono in modo irreparabile i nefasti effetti della crisi: l’emergenza abitativa, il carovita e l’accesso ai servizi sono solo alcune delle tante battaglie che portiamo avanti.
Ci interessa la tutela del lavoro sano, quello di molte piccole imprese italiane che custodiscono pratiche di mestiere che rientrano nel patrimonio identitario delle nostre terre, ormai minacciate da un’economia globale che macina profitti e produce delocalizzazioni, che omologa, che spersonalizza, che livella, che uccide.
Ci affascina un approccio equilibrato all’ambiente, dove il rapporto con il cosmos viene prima delle necessità produttive dell’uomo e dei suoi bisogni, spesso indotti da un mercato a caccia di nuovi consumatori, di crescite forzate, di corse verso il nulla. Vorremmo un modello sociale fondato sul concetto di Comunità, aperto alla pratica del dono, consapevole delle proprie radici e delle proprie origini. Ci schieriamo a difesa della natura, dell’identità di genere, della famiglia tradizionale.
Vogliamo difendere ad ogni costo la sovranità della Nazione, la proprietà della moneta, il futuro etnico di un Popolo e di una Patria che subisce quotidianamente un’invasione migratoria programmata dai poteri forti al fine di sradicarne i connotati.
3) R: Firenze, la città che ha avuto Sindaco Renzi e ora Nardella, ma in generale una roccaforte rossa dell’Italia. Come commentare l’attuale situazione della città?
M: Firenze è una città magnifica, che viene gestita in modo pessimo.
La gestione Renzi-Nardella ha fatto di Firenze un porto franco per la speculazione immobiliare e per le grandi holding interessate al turismo di massa: le multinazionali hanno balcanizzato tutto quello che poteva rappresentare una fonte di profitto, relegando i fiorentini a dei prestatori di manodopera impossibilitati a godere dell’usufrutto.
E’ una città che sta perdendo repentinamente i propri connotati storici e culturali. Ciò che Renzi ha fatto su scala nazionale, cioè la liquidazione e la svendita del Paese, è stato prima realizzato a Firenze: è un modus operandi preciso, che risponde a logiche stabilite e costanti.
A ciò si aggiunge il devastante buonismo che affligge le maggioranze fiorentine e toscane, quelle che lucrano sul business dell’accoglienza e piangono lacrime di coccodrillo per tutti, salvo lasciare uno dei centri storici più importanti del mondo nelle mani dell’abusivismo, della delinquenza e dell’immigrazione clandestina.
Quello di questi anni è stato un attacco duplice alla città: dall’alto per mezzo dei grandi investimenti economici, tutti rigorosamente stranieri, dal basso attraverso il lassismo e il permissivismo più estremi, con derive criminali e delinquenziali che colpiscono i fiorentini.
4) R: Il vostro sbarco in Valdisieve è stato criticato, come c’era da aspettarsi, dall’Anpi e in generale, dalla sinistra. Che dire quindi dell’antagonismo presente in Toscana?
M: Esiste una galassia dell’estremismo rosso che non è corretto definire “antagonista”.
“Antagonista” è chi è alternativo ad un sistema di potere, non chi – da quel sistema – ha ottenuto spazi, finanziamenti ed agibilità politica per anni. Molti di loro credono di essere i depositari della verità e della democrazia (che non praticano in alcun modo) arrogandosi il diritto di decidere (o di illudersi di poterlo fare) chi deve parlare e chi deve tacere. Si muovono in uno spazio d’azione che non ha contorni politici, ma psichiatrici. Con loro non si devono mai adottare i metodi del rancore, ma quelli della compassione.
5) R: Previsto in questi giorni uno sciopero per la sicurezza sui treni. I crimini sono in rapida salite, come non ricordare lo stupro sulla tratta di Pisa o i due capotreni aggrediti di recente. Come commentate?
M: E’ il risultato di un sistema politico che ha fatto del buonismo la propria bandiera.
La Toscana, quando era in vigore la legge Bossi-Fini, si era rifiutata di costruire i “centri di identificazione ed espulsione”, perché “siamo tutti figli del mondo”.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. A fare i controlli su quei treni, dove le “risorse” che la Boldrini vorrebbe importare nel nostro paese per “mantenere il nostro welfare” stuprano e aggrediscono, dovrebbero andarci quei consiglieri regionali che si rifiutarono di costruire il CIE.
6) R: Per concludere, uale è il vostro rapporto verso altri movimenti della destra italiana? Quali i più vicini a voi?
M: Cerchiamo di operare in sinergia con tutti coloro che condividono la nostra visione del mondo, nel rispetto delle storie, delle specificità e dei percorsi di ognuno.

mercoledì 19 agosto 2015

E' arrivata CASAGGì SIENA!


E' arrivata Casaggì Siena!

In una delle città più importanti della Toscana e dell’Italia, dove la sinistra è riuscita a distruggerne tutti i fiori all’occhiello come: Università, ospedale e Monte dei Paschi. 

In una città in cui la popolazione non ha altra scelta che assoggettarsi ad una certa politica clientelare messa in atto da questo governo, nasce Casaggì Siena.

Casaggì è un progetto militante nato per dare voce e corpo alle idee della destra sociale, identitaria e nazionale. Un presidio a difesa del territorio e della nostra gente.


La volontà è quella di costruire un movimento forte e trasversale, capace di interpretare le esigenze di tutti quegli italiani abbandonati dalle Istituzioni locali, umiliati da una classe politica che ha distrutto tutta una città e la sua provincia, minacciati dall'omologazione che sta distruggendo l'identità dei nostri comuni e la specificità delle nostre terre.

Le battaglie che porteremo avanti sul territorio sono moltissime tra cui: la lotta all’immigrazione clandestina ed al fallimentare modello d’integrazione imposto dal progressismo, la priorità degli italiani nell’accesso ai servizi e ai diritti fondamentali, la lotta alla droga, la tutela dell’economia locale, dell’artigianato e delle nostre piccole imprese logorate dalla concorrenza sleale e da accordi commerciali scellerati, la difesa delle categorie dei lavoratori più esposte al precariato e alla flessibilità.

domenica 19 luglio 2015

Paolo Borsellino, una domenica di 23 anni fa' la strage di via d'Amelio...





di Mario Aldo Stilton (Secolo d'Italia)


Paolo Borsellino 23 anni dopo. 23 anni ed è ancora domenica. Perchè era domenica anche allora. Anche quel 19 luglio 1992. E siccome tutti commemorano tutto e tutti ricordano tutto, abbiamo pensato di proporre  un ricordo diverso. Senza enfasi e senza retorica. Un ricordo lontano dalle polemiche di queste ore che, probabilmente, Borsellino avrebbe liquidato con una alzata di spalle. Ricordo lontano anche dai dubbi, dalle ipotesi, dalle trame e dalle deviazioni che ci accompagnano anno dopo anno. Borsellino e i ragazzi della scorta sono morti in quella torrida domenica estiva. Torrida proprio come questa. Fatti letteralmente a pezzi da un’auto bomba parcheggiata sotto casa dell’anziana madre del magistrato. In quella via d’Amelio che ormai è nella memoria di ognuno. Quella dannata domenica Paolo Borsellino andò a pranzo in casa di Pippo Tricoli. Erano amici i due e d’estate spesso soggiornavano in villette attigue a Villagrazia di Carini. Con Tricoli, leader regionale del Msi e titolare della cattedra di Storia Contemporanea all’Ateneo di Palermo, Borsellino si frequentava sin dai tempi dell’Università e delle iniziative politiche che lo avevano visto apertamente simpatizzare per la giovane destra. La giornata, l’ultima nella vita del magistrato che insieme a Giovanni Falcone rappresenta lo Zenit dell’impegno contro ogni mafia e ogni criminalità, ci è stata tratteggiata dal ricordo semplice e pulito del figlio Manfredi e da quello addolorato dell’amico Pippo. Un ricordo che per il ragazzo odora di mare, di spiaggia e di amici; ricordo che profuma di panelle e arancini serviti in tavola nonché  dell’immancabile “comizio” che il padre Paolo regalò, “come suo solito”, alle due famiglie riunite. Ricordo triste, presagio di sventura, quello di Tricoli. Una preoccupazione taciuta alla famiglia e consegnata all’amico di sempre con lapidaria certezza: “È arrivato il tritolo per me “. Una confidenza che Pippo mai avrebbe voluto ricevere e men che meno, successivamente, esporre. Ecco, ci piace ricordarlo così Paolo Borsellino, in questa domenica di 23 anni dopo. Lontano dall’ufficialità di maniera e dall’atto dovuto. Ci piace ricordarlo insieme ad un’altro che pure ci manca tanto: insieme al suo amico Pippo Tricoli. Due esempi, per noi. Due uomini con la schiena dritta. Il nostro vero e più grande patrimoniod

sabato 11 luglio 2015

La vita di una comunità è più importante dei suoi debiti finanziari...


di Marcello Veneziani



Un asfissiante dirigismo finanziario sta soffocando la vitalità dell’economia e la sovranità degli stati europei. Il Novecento ci aveva abituato a vedere sulla scena due modelli economici contrapposti: da una parte il modello dello Stato interventista che frenava il libero mercato sotto la cappa di uno statalismo invadente, che dirigeva l’economia e stabiliva reti di protezione e vincoli, nel nome del Welfare, dell’economia sociale, se non socialista, tra programmazione e pianificazione. E dall’altra parte il modello del libero mercato che lasciava spazio all’iniziativa privata nel nome del liberismo e della deregulation, la libera circolazione di merci e capitali. Nel nuovo millennio è cresciuto in Europa, sulle ali del libero mercato e della finanza globale, un mostro sovrastatale che impone un rigido, oppressivo, minaccioso dirigismo economico. L’unica sovranità che riconosce è la sovranità del debito, il cosiddetto Debito Sovrano e l’assoluta priorità che impone agli stati e alle società è pagare i propri debiti, ridurre il deficit, tendere al pareggio di bilancio.

L’imperativo riguarda direttamente gli stati membri e la spesa pubblica ma ricade inevitabilmente sull’iniziativa privata, sulle imprese, sulle condizioni reali dell’economia di un paese. Se c’è da scegliere tra l’assetto contabile degli stati e la vita reale dei popoli, la priorità degli euro-dirigisti è assegnata senza esitazioni al primo, a scapito della seconda. Un paese può fallire, finire in default e perfino essere estromesso dall’Europa, se non ha i conti in ordine e se non rispetta i parametri imposti dal dirigismo economico europeo. Il debito sovrano assume oggi lo stesso ruolo che aveva il peccato originale: una macchia indelebile, che anche le nuove generazioni ereditano dalla nascita, una colpa assoluta e indipendente dalle volontà e dai comportamenti di ciascuno che li pone in condizione permanente di dipendenza e subalternità, tra procedure d’infrazione e minacce di sospensione ed espulsione, equivalenti tecnico-finanziari della scomunica, dell’anatema e della dannazione. Vista l’entità gigantesca del debito e la sua crescita esponenziale col tempo, che costringe non a ridurre veramente il debito ma solo a pagare gli interessi sui debiti pregressi, vista l’impossibilità di terapie radicali e definitive, non c’è alcuna uscita dal tunnel del debito, solo un percorso obbligato e scandito da tappe infinite che non consentono il recupero della libertà né il ripristino della sovranità. Debitori si nasce, si cresce e si muore.


“Il privato si è mangiato il pubblico – scrive Mario Tronti – l’economia si è mangiata la politica, la finanza si è mangiata l’economia, quindi il denaro si è mangiato lo Stato, la moneta s’è mangiata l’Europa, la globalizzazione si mangia il mondo”. Naturalmente non si tratta di seguire gli schemi complottistici e dividere l’Europa tra vittime e carnefici: ci sono state politiche dissennate che hanno ingigantito il debito e ci sono tentativi apprezzabili di risanare gli errori passati. Ma a questo punto non resta che fuoruscire dalla gabbia, rimettere in discussione la sovranità del debito e partire da altre basi, non legate alla finanza ma alla vita reale dei popoli e dell’economia, alla sovranità politica, nazionale e popolare. La crisi economica non si risolverà finché restiamo solo sul terreno dell’economia e soprattutto se restiamo dentro i dogmi e gli schemi tecno-finanziari. Lo stesso mercato finanziario appare fortemente condizionato da fattori psicologici, emotivi, meta-economici: la borsa è psicolabile e lo dimostra ogni giorno… Si tratta allora di spodestare l’Economia dal trono di Ars regia e riportarla a terra, in mezzo alle genti. Bisogna salire di un piano o scendere alle fondamenta se si vuole spezzare la china automatica che si è generata. Tocca alla politica, la grande politica che decide, non la governance, tagliare il nodo di Gordio. Per questo, con tutte le velleità, le astuzie e l’avventurismo che hanno accompagnato l’esperienza greca e le sue tifoserie nostrane, è necessario trarre un insegnamento e una previsione dal referendum: un popolo viene prima degli assetti contabili, la vita di una comunità è più importante dei suoi debiti finanziari, non è possibile cacciare dall’Europa chi fa parte della sua storia e della sua identità. Solo su queste basi si potrà rifondare l’Europa vera, viva, variegata, ricca di passato e di avvenire.

lunedì 6 luglio 2015

CASAGGì e GIOVENTÙ NAZIONALE contro la "buona scuola" di Renzi...




CASAGGì e GIOVENTÙ NAZIONALE contro la "buona scuola" di Renzi: sigillati simbolicamente tutti i provveditorati allo studio della Toscana. Il governo ruba il futuro dei giovani italiani, aziendalizza l'istruzione e non interpella gli studenti. 
Azioni simultanee a Firenze, Pisa, Siena, Empoli, Arezzo e anche nella Valdichiana e nella Valdinievole: nastri da cantiere e volantini sono stati affissi sui luoghi simbolo del "diritto allo studio": scuole, provveditorati e uffici regionali. A realizzare il tutto le sigle della destra identitaria afferenti a Casaggì, il "centro sociale di destra" attivo a Firenze e a Gioventù Nazionale, il movimento giovanile di Fratelli d'Italia.
Il governo Renzi approva il suo modello di "buona scuola" senza degnarsi di un confronto con il mondo studentesco. 
L'ennesimo passo verso lo smantellamento della scuola pubblica è compiuto, nel silenzio generale e senza dibattiti preventivi.
Il mondo della formazione si aziendalizza e il sapere diventa merce, mentendo intatti i punti deboli del comparto-scuola: strutture inadeguate, docenti impreparati e faziosi, tagli al personale, precarizzazione generale.
L'istruzione cessa di essere un diritto e diventa un prodotto da accompagnare alla massificazione in atto e al processo di riduzione dell'esistente alla logica del profitto e della produttività; un primo passo verso la creazione del consumatore di domani, privo di identità, di coscienza critica e di radici, di spunti vitali, solidali e comunitari.
Se questa è la "buona scuola", siamo fieri di essere quelli dell'ultimo banco.
Casaggì Firenze, Casaggì Empoli, Casaggì Valdichiana, Ronin Pisa, Spartacus Valdinievole, ArezzoZero, Gioventù Nazionale Toscana.

mercoledì 1 luglio 2015

Beppe Niccolai e la critica del progresso che cancella la comunità...


di Giovanni Fonghini (Barbadillo.it)

"….E poi la “cultura” del progresso illimitato, travolgente, senza legami, senza tradizioni, senza i ricordi. Che vale oggi la storia di un borgo medievale, nel rispetto di chi ci ha vissuto, parlato, camminato, prodotto cultura e fiabe per bambini? Che vale conservare un paesaggio, un fiume, un ruscello? Anche quelli sono valori della tradizione. L’uomo non è fatto solo per produrre e consumare; l’uomo è anche pianta, albero-figlio della terra, della sua terra. La città a misura d’uomo. L’uomo, il rispetto della sua complessa unicità.
A chi abita nelle “batterie” degli uomini da lavoro resta, oggi, una sola via da percorrere per conservare la stima di sé: non rimuovere dalla coscienza la vita di chi ci è accanto, di chi ci è compagno di sventura; non dimenticarlo non chiudersi nel più completo isolamento. Si abita sullo stesso pianerottolo e non ci si conosce. E si fa di tutto per evitare di conoscersi. Si chiudono con i tramezzi i balconi.
Perché? Per la paura di vedere riflessa nel vicino la propria immagine disperata, di uomini da lavoro in “batteria”. E i figli? Scendono dalle nuove zone di frontiera, le bande. Che possono fare se sono cresciuti in questa “cultura” che ha ucciso, con la memoria storica, città e territorio? Vandalismi? E come possono avere rispetto se ciò che vedono (e in cui vivono) è triste e brutto? Centinaia di migliaia di abitazioni che si distinguono solo per i numeri civici. Quei quartieri: disegnati da quale “cultura”? Da quali “architetti”? I ragazzi, oggi abituati ad essere consumatori, sfiorano l’angoscia, la noia per sazietà di stimoli. Via la Patria, via la religione, via le ideologie, via ogni fede. Via ogni autorità, tutto è permesso. Viva la città senza bandiere, senza altari, senza idee, senza politica vera. Si scatenano i demoni. Questa è la cultura fondante sorta per edificare la città senza Dio. La città senza inibizioni, la città dove si può tutto. Ed ecco l’infelicità, la noia, il collasso totale. Come si esce da questa crisi metapolitica, da questa crisi di religione? Occorre ritrovarsi, tornare a stare insieme. Tornare ad un modo di vivere che dia senso alla vita.
Superare la vacanza della Storia che ci ha portato alla perdita di identità. Tornare Comunità. Tornare “memoria”.
Alcuni giorni fa un amico su Facebook mi proponeva questo brano tratto da un discorso del 1985 di Beppe Niccolai, politico e parlamentare missino. Con questo amico ho spesso grande sintonia di vedute, a dispetto dei nostri diversi, per non dire opposti, percorsi politici di gioventù. Beppe Niccolai fu un grande uomo politico, che della storia e della tradizione italiana seppe fare seme fertile per elaborare analisi politiche estremamente lucide e, con il senno di poi, molto avanti rispetto ai suoi tempi. Era un uomo libero, non aveva paura a schierarsi fuori dal coro e dai luoghi comuni di cui era intrisa la politica di allora. Seppe guadagnarsi il rispetto di chi era su posizioni diverse dalle sue, come Leonardo Sciascia che in un’intervista della tv francese ebbe parole di apprezzamento per la sua relazione di minoranza quale componente della commissione parlamentare antimafia. Il brano di cui sopra è di 30 anni fa circa, ma se lo leggiamo alla luce degli accadimenti attuali è evidente quanto le sue parole risultino addirittura profetiche. Viene tratteggiato un mondo, un ambiente, un territorio devastati – penso in modo particolare a quando scrive “Che vale conservare un paesaggio, un fiume, un ruscello?” – e un individuo alienato perché deprivato della sua identità e della sua essenza umana. Mi si perdoni l’accostamento ma a me viene da pensare al tema dell’ecologia. Si potrebbe dire che l’ecologia, intesa nel senso di uno sfruttamento più equo ed equilibrato delle risorse naturali, debba fare rima con la giustizia sociale. Lo sfruttamento rapace e indiscriminato, nel nome del business elevato a nuovo idolo dei giorni nostri, delle risorse della terra si lega in maniera indissolubile alle ingiustizie sociali sempre più macroscopiche. Quando ero bambino alcuni di quelle ingiustizie avrebbero detto che gridavano vendetta al cospetto di Dio. Ma se si parla di ecologia non posso non pensare ad un altro grande maestro di pensiero e di azione, Rutilio Sermonti, scomparso pochi giorni fa. Si è giustamente scritto molto di lui; senza fare torto alle molte cose eccellenti che ho letto il mio spirito romantico mi ha portato a scegliere questo ritratto .

martedì 23 giugno 2015

Mario Sanesi: itinerario di libertà dal Msi alle Nuove sintesi...




La Voce della Fogna
di E. Nistri (Barbadillo.it)

Longanesi ha scritto che i figli dei grandi uomini assomigliano al padre solo per il naso. L’aforisma si adatta solo in parte al caso di Mario Sanesi, anche se non è da escludere che la personalità volitiva e un po’ ingombrante del padre abbia influito sul suo “profilo basso” in politica come nel lavoro. Su di esso pesò anche un’innata modestia, che lo indusse per esempio, lui laureatosi a pieni voti in storia medievale, con una ponderosa tesi di ricerca che Franco Cardini gli aveva assegnato intuendo in lui non comuni doti di ricercatore, a non cercare gli sbocchi universitari che il suo maestro gli aveva proposto, accontentandosi di una decorosa e inappuntabile carriera come professore di scuola. Ma non sempre la modestia, con buona pace di Marinetti, è la virtù dei mediocri, e, come dimostrano i suoi articoli e le sue recensioni su “Diorama letterario”, sempre puntuali, documentate, approfondite, Mario un mediocre non era.
Legato da rapporti di amicizia e di stima a Marco Tarchi, Sanesi seguì le principali tappe del suo itinerario umano, politico e culturale, dentro e fuori il Msi: dal campeggio a Corfù, nella Grecia dei Colonnelli, l’anno della maturità (quando però, dopo qualche dissapore coi locali, non rinunciò a intonare le strofe irripetibili dell’Osteria numero dieci cantate a suo tempo dal padre volontario di guerra) alla cooptazione nel direttivo provinciale del partito, a metà anni Settanta, insieme a figure di non comune levatura intellettuale, dallo stesso Tarchi a Dario Durando, dai fratelli Sinatti a Carlo Terracciano; dai viaggi in Francia all’amicizia con Jacques Marchall, dalla fondazione della “Voce della Fogna” a quella di “Diorama”, dall’esperienza della Nuova Destra alla fuoruscita dal partito, a costo di entrare in collisione col “federale padre” che pure doveva essere orgoglioso di quel figlio colto, lui che per i traumi del dopoguerra e la necessità di mantenere la famiglia non era potuto andare al di là di un diploma di ragioniere.
Il destino lo accomuna a Terracciano e alla Tre Re
Negli ultimi mesi della sua vita il suo aspetto fisico appariva pesantemente segnato dal subdolo operato di un male rivelatosi invincibile. Il suo volto di eterno ragazzo appariva ormai opaco e segnato. Eppure, stoico senza enfasi, cercò fino all’ultimo di condurre una vita normale, senza indulgere all’autocommiserazione, continuando a seguire i suoi discepoli sin quasi alle soglie della maturità, forte di una vocazione didattica che lo accomunava a Marco Tarchi. Pochi giorni fa, quando il suo destino era ormai segnato, fece la scelta di vivere i pochi giorni che gli restavano in Sardegna, con un gruppo di amici fidati. La morte, per arresto cardiaco, l’ha colto quasi in riva al mare, all’età di 62 anni: troppo pochi per chi avrebbe avuto ancora tante cose da offrire e da chiedere alla vita. Resta il rimpianto di un uomo modesto ma non mediocre, riservato ma non timido, colto senza ostentazioni, riservato ma capace di dire quello che pensava senza ritrosie né infingimenti. E la rabbia per un destino ingrato che l’accomuna purtroppo a tanti altri esponenti della sua generazione, da Carlo Terracciano a Susanna Tre Re.
Addio, Mario. Di quella magica e remota stagione di “Elementi”, che, insieme a tanti fraintendimenti e incomprensioni, ci regalò qualche attimo di rara felicità, non hai voluto essere che un discreto testimone e un intelligente comprimario. Ma non è retorica scrivere che, se tutti noi avessimo preso esempio da te, l’Italia sarebbe forse un paese migliore.
Alla politica era arrivato quasi per predestinazione familiare. Il padre, Sergio, originario di Castelfiorentino, uno dei comuni più rossi d’Italia, era stato giovanissimo volontario nella campagna di Grecia, combattente nella Repubblica Sociale, per poi divenire, dopo anni molto difficili, dirigente della Silvaneon, un’azienda pionieristica nel campo della pubblicità luminosa, fondata da Nando Martellini, anch’egli reduce della Rsi, vittima di uno dei primi rapimenti in Toscana. All’alba degli anni Settanta, quando il figlio si iscriveva alla Giovane Italia sull’onda delle grandi manifestazioni per la libertà della Polonia, era il segretario della federazione fiorentina del Msi, asserragliata come in un fortilizio al piano nobile di un palazzotto di piazza Indipendenza. Consigliere comunale e provinciale, alla fine degli anni Ottanta sarebbe divenuto senatore, per poi traghettare, forte del suo prestigio di ex combattente, il riottoso mondo reducistico missino in Alleanza Nazionale. Buon oratore, stimato nelle istituzioni anche dagli avversari, ricco di interessi culturali nonostante gli studi interrotti, morì nel 1999 e non è forse un caso se la sua scomparsa è coincisa con l’emergere di forze centrifughe sempre più devastanti all’interno della destra fiorentina.