venerdì 30 maggio 2014

SABATO 14 GIUGNO PRIMO EVENTO CULTURALE DI RONIN PISA...




"La guerra è finita" è un libro diviso. Metà storia e metà romanzo, diviso trale fascinazioni dei due autori, Mario Michele Merlino e Roberto Mancini. Guerra che, secondo la storiografia ufficiale, termina con l'armistizio di Cassibile, ma secondo i protagonisti del racconto, no.

Ludovico e Gaetano, i protagonisti, si incontrano là dove si combatté per riscattare l'onore offeso della Patria dopo l'8 settembre del '43. Soldati della Repubblica Sociale Italiana, prigionieri, dopo la guerra vivono vite differenti, poi tentano di raccogliere una nuova sfida, ma si rendono conto che sarà di altri il compito di non ammainare la bandiera. Ma rimane il dono della memoria, quello di aver partecipato, nonostante la sconfitta, alla bella battaglia.

giovedì 29 maggio 2014

Marine Le Pen “sfonda a sinistra”: il 40 per cento degli operai ha votato FN...

tratto da Destra.it

Un sondaggio IFOP per l’Humanité, lo storico organo del  partico comunista francese,  ha evidenziato con crudele freddezza l’avanzata del Front National nella —  un tempo mitica e impermeabile ad ogni suggestione nazionalista — classe operaia. Con amarezza i sindacati hanno dovuto ammettere che il messaggio di Marine Le Pen ha attraversato e entusiasmato larga parte del mondo delle grandi fabbriche, il nucleo centrale del blocco sociale della sinistra.
L’indagine dell’Humà rivela che il 33 per cento dei simpatizzanti di Force ouvrière hanno barrato sulla scheda la fiamma; stessa storia per  Sud-Solidaires, abbandonata dal 27% dei suoi tesseratiNelle fila della CGT— il mitico sindacato comunista ortodosso, tanto amato un tempo da Sartre e dalla rive gauche,  il FN è secondo con il 22 per cento, superato soltanto dagli estremisti del Front de gauche (30%). Pascal Debay, capofila della CGT, ha ammesso  mestamente che il risultato del Front «n’est une surprise». Contento lui…
L‘Humanité chiude il suo allarmato ma onesto reportage, facendo due somme. Calcolando le proiezioni degli istituti di sondaggio, il quotidiano del PCF calcola attorno (o più) al 40 per cento (46 per l’IFOP, 43 per IPOS)  gli operai che hanno votato Front National. Dati pesanti che impongono alla sinistra francese (e non solo) una riflessione. Marine Le Pen è riuscita a “sfondare a sinistra” e convincere i ceti più fragili — coinvolgendo, come notava “La Stampa” sabato scorso,  anche i francesi di “seconda generazione”, ovvero gli immigrati integrati — del suo messaggio sociale e nazionale.
Bene. Complimenti alla signora e ai militanti del FN. Un’ultima annotazione: ricordiamo, per la cronaca e agli immemori, che 30 anni fa le avanguardie della destra italiana avevano iniziato ad immaginare avevano immaginato un progetto politico similare. I tempi e gli uomini non erano maturi o pronti ma la direzione era corretta. 

mercoledì 28 maggio 2014

E i parassiti-oligarchi pensano al Ttip...


di Lorenzo Moore (Rinascita)


L’Europa della miseria, paladina dell’usura bancaria e aggrappata agli scampoli di potere a lei delegati da Wall Street, dalla City e da Francoforte (Bce), vorrebbe rispondere allo schiaffo ricevuto dai popoli d’Europa nelle recenti elezioni che hanno bocciato il partito unico ppe-pse dell’euro-crazia, con un nuovo salto nel buio: l’accelerazione della firma del l’infame Ttip, la creazione cioè di un’ulteriore area di libero scambio, di flessibilità nel lavoro, di tagli sociali, di sudditanza alle politiche economiche, agricole e tecniche degli Stati Uniti.
I negoziati, già in corso – e caldeggiati dallo stesso Barack Obama nel suo recente viaggio alle colonie occidentali europee, Italia compresa – ma nel segreto più assoluto, dicono i paladini-oligarchi dell’Unione europea, dovrebbero condurre, in tempi brevissimi, alla firma quantomeno di  un “mini-patto subito” Ue-Usa.
I media disinformatori dell’Occidente – in Italia Corriere della sera in testa – “giustificano tale patto-capestro come una mossa per “rispondere alla nuova aggressività della Russia di Vladimir Putin”, sbandierando la questione ucraina – un manifesto caso di conculcamento della libera volontà di un popolo europeo di scegliere il proprio naturale destino: in quel caso il desiderio della maggioranza pro-russa dell’Ucraina orientale – come motivo essenziale per tale scelta.
La stampa embedded e i media omologati spacciano tale mini-patto come la possibilità di creare “un’area commerciale Usa-Ue senza precedenti”, foriera di chissà quale volano allo sviluppo e al benessere economico.
Nulla di più falso.
La prima conseguenza dell’eventuale firma clandestina (da parte di rappresentanti non eletti dai popoli europei!) di un tale accordo “transatlantico”, ridurrebbe le economie nazionali dell’Europa occidentale alla mercè dei grandi capitali delle multinazionali d’oltreoceano, con tutto il loro carico di deregolamentazioni, flessibilità nel lavoro, spaccio di prodotti chimici e surrogati, dagli ogm in giù, e cioè ad un grande mercato di consumo dei beni nordamericani e di progressiva scomparsa delle produzioni europee autoctone.
Non a caso in Francia, Marine Le Pen, diventata la guida del primo partito nazionale, oltre a chiedere l’immediate dimissioni di Hollande (i socialisti sono ormai il terzo partito d’oltralpe e non hanno più rappresentatività), e a chiedere la rottura del patto che ha imposto ai popoli europei una moneta unica a debito, l’euro, ha posto come terzo motivo di battaglia la denuncia del Ttip.
Come non è un caso che Mario Draghi, per nulla afflitto dallo schiaffo all’eurocrazia, da Sintra in Portogallo, ha annunciato un proseguimento tetragono della politica di anti-deflazione e di immissione di liquidità a buon mercato alle banche, senza alcun cenno né alla crisi economica dei cittadini (e non delle banche) né a possibili interventi come quelli sugli eurobond, ormai quasi unanimemente sollecitati dagli stessi suoi sponsor liberaldemocratici del ppe e del pse.
Per quanto riguarda l’Italia – purtroppo egemonizzata da un Pd governativo schierato su posizioni di partecipazione all’Ue, alla Bce e al Fmi – le prospettive, con la prossima assunzione della presidenza dell’Unione europea da parte di Matteo Renzi, sono catastrofiche.  Il suo vice-ministro alla Miseria (lo chiamano “Sviluppo”), Carlo Calenda, si sta dando un gran da fare, qui e negli stessi Usa, perché questo vergognoso mini-patto Ue-Usa possa essere firmato già a novembre, dopo le elezioni statunitensi dette di “medio termine” (che i “democratici” nordamericani non vogliono turbare immettendo nella campagna elettorale un tema – quello del commercio transatlantico appunto – non del tutto digerito da quel partito e dai suoi elettori).
Il mini-patto che andrebbe ad essere firmato, riguarderebbe, allo stato, il fondamentale settore dell’energia (con gli Stati Uniti intenzionati a sostituirsi alla Russia e al gas che a noi per esempio giunge a Monfalcone con forniture – più care e prive, al momento degli adeguati mezzi di deposito e trasporto – di gas da scisto, la tecnologia sperimentale Usa di estrazione del gas dalla frantumazione delle rocce), e i comparti di agricoltura, auto, chimica, farmaceutica, cosmetica, tessili e para medicali. Poi si passerebbe ad accordi specifici su ogm, trasporti, audiovisivi, servizi finanziari.
Occorre una mobilitazione dal basso, di popolo, subito, per bloccare sul nascere, prima che sia troppo tardi, questa esiziale rinuncia nazionale ed europea alla propria indipendenza economica. 

venerdì 23 maggio 2014

23/05/1992 – 23/05/2014: In ricordo di Giovanni Falcone e della sua scorta...




"Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana".

In ricordo di Giovanni Falcone e della sua scorta

23.05.1992 – 23.05.2014

giovedì 22 maggio 2014

Scritti di Venner. I cinquecento anni del Cavaliere ribelle nell’incisione di Dürer...


* Barbadillo.it per la ricorrenza di un anno dalla scomparsa dello storico Dominique Venner, ripropone un suo scritto celebre su Dürer. Soprattutto in tempi di indistinzione e conflitti con nemici “liquidi” e inafferrabili, la testimonianza di intellettuali e uomini liberi come Venner diventa bussola e lezione di carattere per i ribelli. ***
Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo, è la mirabile incisione realizzata da Dürer nel 1513, esattamente 500 anni fa. Il geniale artista che eseguì su commissione tantissime opere edificanti, dà qui prova d’una libertà sconcertante e audacemente provocatrice. All’epoca non era opportuno ironizzare sulla Morte e il Diavolo, terrore della brava gente e non solo, alimentato da chi ne traeva profitto. Ma lui, il Cavaliere solitario di Dürer, sorriso ironico sulle labbra, continua a cavalcare, indifferente e calmo.
Al personaggio del Diavolo non concede uno sguardo.Pertanto, questo spaventapasseri è ritenuto pericoloso. Terrore dell’epoca, come lo ricordano le innumerevoli Danze macabre e vendite delle Indulgenze per i  secoli del purgatorio, il Diavolo è pronto all’imboscata. Si appropria dei trapassati per gettarli nelle fiamme dell’Inferno. Il Cavaliere se ne prende gioco e disdegna questo spettro che Dürer vuole ridicolo.
La Morte, lei, il Cavaliere la conosce. Lui sa bene che, lei, è alla fine del cammino. E allora? Cosa può su di lui, malgrado la sua clessidra vibri per ricordare lo scorrere inesorabile della vita?
Immortalato dall’incisione, il Cavaliere vivrà per sempre nel nostro immaginario al di là del tempo. Solitario, a passo fermo sul suo destriero, la spada al lato, il più celebre ribelle dell’arte occidentale cavalca tra i boschi selvaggi e i nostri pensieri sul suo destino, senza paura né supplica. Incarnazione di una figura eterna in questa parte di mondo chiamata Europa.
L’immagine dello stoico Cavaliere mi ha spesso accompagnato nelle mie rivoluzioni. E’ vero che sono un cuore ribelle e che non ho smesso d’insorgere contro la lordura invadente, contro la bassezza promossa a virtù e contro le menzogne assurte a rango di verità. Non ho smesso d’insorgere contro chi, sotto i nostri occhi ha voluto la morte dell’Europa, nostra millenaria civilizzazione, senza la quale io non sarei nulla.
(traduzione per Barbadillo.it di D.D.M.)
Note
Un ribelle del ventesimo secolo, lo scrittore Jean Cau, ha consacrato una delle sue più belle opere, Il Cavaliere, La Morte e il Diavolo, pubblicato (in Francia) dalle Edizioni della Tavola Rotonda nel 1977. Di fronte alla Morte, immagina queste parole dalla bocca del Cavaliere : “ Sono stato sognato e tu non puoi nulla contro il sogno degli uomini”.
A cura di Dominique Venner

mercoledì 21 maggio 2014

Colonia Italia...


Le principali aziende italiane stanno finendo sotto controllo estero

di Giuliano Augusto (Rinascita)

I recenti rialzi dei listini della Borsa italiana sono l'effetto del ruolo predominante esercitato dai fondi di investimento esteri, in particolare quelli americani e arabi che, grazie alle enormi risorse finanziarie a disposizione, possono ormai farla da padroni. Una colonizzazione strisciante della nostra economia che si sta attuando nella più totale indifferenza della classe politica italiana che appare in tutt'altre faccende affaccendata. Politici che, a differenza di quelli della Prima Repubblica, non riescono a comprendere che la colonizzazione, perché di questo si tratta, delle principali aziende nazionali, rappresenta un altro colpo mortale alla nostra sovranità nazionale e alla possibilità di impostare un minimo di politica estera autonoma. Ormai i soci stranieri sono in maggioranza rispetto a quelli italiani nelle prime banche italiane, Unicredit e Intesa-San Paolo. Comandano in colossi industriali ex pubblici come Eni, Telecom e Finmeccanica e hanno gettato le premesse per comandare nel gruppo che da sempre rappresenta il fiore all'occhiello del capitalismo italiano, ossia le Assicurazioni Generali. La metodologia è stata quella classica. Prima è stata comprata una quota minima di tali società, giusto per tastare il terreno e partecipare alle assemblee ordinarie e straordinarie. Poi, visto che, a differenza di altri Paesi, i governi non davano l'idea di guardare con sospetto la novità, anzi dimostravano di apprezzare, il loro appetito è cresciuto e i soldi investiti sono aumentati. In linea teorica si dovrebbe essere soddisfatti all'idea che un gruppo estero decida di partecipare alle sorti di una azienda nazionale e di aspettarsi di ricavarne dei profitti sotto l'aspetto della distribuzione dei dividendi. E' quello che si chiama principio di reciprocità. In fondo, alcuni anni fa, un'azienda italiana del gruppo Luxottica di Del Vecchio, ha acquistato un marchio famoso dell'abbigliamento Usa come Brooks Brothers che si trovava in crisi e che grazie all'impronta italiana si è rimesso rapidamente in sesto. Ma le aziende italiane che si trovano ormai sotto controllo estero sono aziende strategiche, aziende presenti con successo nel loro settore specifico e che per decenni hanno permesso all'Italia di ritagliarsi una bella fetta di politica estera autonoma. Il caso più eclatante è quello dell'Eni voluto da Enrico Mattei per assicurare una politica energetica autonoma all'Italia e slegarla dall'influsso delle Sette Sorelle che condizionavano la politica italiana attraverso le proprie forniture di gas e di greggio. I rapporti preferenziali creati negli ultimi ani dall'Eni con la russa Gazprom sono lì a testimoniare della continuità di una politica estera “continentale” che ha visto convergenti, nonostante tutto, le visioni di un Porodi e di un Berlusconi. Di Monti, sicuramente no, visto la sua impostazione “atlantica” e il suo essere stato un consulente di gruppi come Moody's e Goldman Sachs che, a diverso titolo hanno operato per la privatizzazione delle aziende pubbliche, sia speculando in borsa sia diffondendo valutazioni sulla necessità che il Tesoro vendesse le sue partecipazioni. La devastante crisi economica ha fatto il resto. Di soldi italiani in giro ce ne sono infatti pochi e i rari grandi imprenditori italiani sono ormai più finanzieri che industriali. Non amano il rischio e non hanno la voglia e i mezzi per investire in attività produttive, limitandosi a fare gli azionisti cercare di sopravvivere mentre il mondo intorno a loro è cambiato completamente. Siamo assistendo anche al definitivo collasso del capitalismo dei “salotti buoni”, quello che fino alla fine degli anni ottanta era raccolto intorno a Mediobanca. Un capitalismo senza capitali all'interno del quale le relazioni contavano più dei soldi investiti e dove le azioni si pesavano e non si contavano. Mediobanca, diretta dal non compianto Enrico Cuccia, grazie all'ingegneria finanziaria, ha permesso alle grandi famiglie italiane (vedi gli Agnelli con la Fiat) di comandare nelle proprie aziende tirando fuori il minimo di quattrini ed arrivando, con una faccia tosta incredibile, a presentare questo fatto come espressione del Mercato. Poi, con l'arrivo del Mercato, quello vero, quello dove i numeri contano, per tutti costoro è stata notte fonda. Un Libero Mercato che, dopo il crollo dell'Urss, ha allungato le sue mani pure sulle aziende pubbliche che la politica aveva fino ad allora utilizzato per contrastare il peso dei grandi gruppi stranieri e italiani. Già, la politica. Una politica che oggi è totalmente assente e che, essendo il terminale degli interessi “atlantici”, in particolare il PD, sta offendo tutto il proprio sostegno allo sfascio che si sta attuando sotto i nostri occhi.   


martedì 20 maggio 2014

Buon compleanno Barone, sono ben 116! Julius Evola nel ricordo di Giano Accame...


tratto da Destra.it

Franco Volpi, stretto collaboratore di Adelphi e di Repubblica, va ormai considerato – specie per gli approfondimenti nella cultura tedesca da Schopenhauer a Heidegger e Schmitt – come il più interessante studioso italiano di filosofia. Nella puntata su Evola della serie sulle Intelligenze scomode del Novecento per Rai Educational, con Sergio Tau ho trasmesso di Volpi questa dichiarazione:
Quando realizzai il Dizionario delle opere filosofiche, prima in Germania e poi in Italia, uno dei problemi più spinosi fu quello riguardante la filosofia italiana. Quali autori, quali filosofi, oltre agli scontati Croce e Gentile, andavano inseriti in questo Dizionario per avere una scelta sufficientemente rappresentativa? La mia prima idea fu quella di inserire come terzo grande pensatore del Novecento italiano Julius Evola.
Ne risulta che tutti e tre gli autori più rappresentativi del Novecento italiano erano di destra. Croce, beninteso, come Einaudi, apparteneva alla destra antifascista (mentre erano filofascisti tra gli economisti Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni). Se partiamo da questo primo dato per un breve giro del mondo arriviamo alla conclusione che un’assai larga parte dell’intelligenza del secolo scorso fu di destra. E con qualche eccezione, come Croce o Borges (antiperonista), lo fu d’una destra fascista o accusata di fascismo.

Ma nell’ambito della destra non fascista vanno ricordati per importanza nella cultura mitteleuropea gli scrittori austriaci, in gran parte ebrei, nostalgici dell’impero asburgico: da Stefan Zweig, suicida nel ricordo de Il mondo di ieri, a Franz Werfel che si convertì al cattolicesimo, a Joseph Roth con La cripta dei cappuccini e La marcia di Radetsky, a Lo Stendardo di Alexander Lernet-Holenia (non ebreo), a Hugo von Hofmannsthal, lo scrittore d’una grande famiglia ebraica assimilata che formulò l’espressione “rivoluzione conservatrice”.

Fu accusato di nazismo Martin Heidegger, considerato a livello mondiale il maggiore filosofo del secolo. E se Heidegger fu solo epurato, Carl Schmitt, maggiore politologo del Novecento, venne imprigionato per un anno dagli americani a Norimberga sotto accusa d’aver collaborato coi capi nazisti che nello stesso carcere furono impiccati. In realtà né Heidegger, né Schmitt, né Ernst Jünger, l’anarca di destra che con Schmitt e Heidegger scrisse libri a quattro mani, né Oswald Spengler, autore del Tramonto dell’Occidente, né Werner Sombart, geniale storico dell’economia, condivisero gli orrori del nazismo.

Col nazismo vennero confusi per la loro appartenenza alla composita galassia della “rivoluzione conservatrice” di cui il nazismo fu la componente più volgare e perciò vincente. Tratto comune a tutti loro fu il pensiero della crisi, da cui anche il fascismo era reattivamente germinato. Fu vicino al fascismo romeno Mircea Eliade, il maggior studioso del fenomeno religioso, ed è stato seppure impropriamente avvicinato al nazismo lo studioso svizzero della psicologia del profondo e degli archetipi, Carl Gustav Jung, secondo solo a Freud (con cui finì in polemica) nella psicanalisi. Nell’edizione italiana un saggio dell’americano Richard Noll è stato addirittura intitolato Jung, il profeta ariano (Mondadori 1999).

In Psicologia e alchimia del 1944 Jung citava Evola e da accuse d’antisemitismo si difese così nel 1934: “L’inconscio ariano ha un potenziale maggiore di quello ebraico; questo è il vantaggio e lo svantaggio di una giovinezza non ancora completamente sfuggita alla barbarie. Nella mia opinione è stato un grande errore di tutta la psicologia medica precedente applicare categorie ebraiche, che non sono nemmeno vincolanti per tutti gli ebrei, indiscriminatamente a cristiani, tedeschi o slavi. Così facendo la psicologia medica ha dichiarato che il segreto più prezioso dei popoli germanici – la profondità creativamente profetica dell’anima – è un garbuglio infantile e banale, mentre per decenni la mia voce ammonitrice è stata sospettata di antisemitismo. L’origine di tali sospetti è Freud. Non conosceva l’anima germanica più di quanto la conoscano i suoi imitatori tedeschi. La potente apparizione del nazionalsocialismo, che tutto il mondo osserva con occhi stupiti, ha forse insegnato loro qualcosa di meglio?”.

Il carattere reattivo accomuna il romanziere e premio Nobel norvegese Knut Hamsun, filonazista, e il romanziere giapponese Yukio Mishima, tre volte candidato al Nobel e “fascista di ritorno”: omosessuale (o bisessuale, perché ebbe anche moglie e figli) e contento d’esser stato riformato evitando i rischi della guerra, ottenne successi in Occidente come scrittore decadente; ma avendone compresa poi la vanità, tornò alle tradizioni degli antichi samurai, creò una formazione paramilitare, il Tate no Kai, Società degli Scudi, e in polemica contro l’asservimento del Giappone agli Stati Uniti si suicidò col rito del seppuku a 45 anni.

Anche gli scrittori fascisti francesi, da Pierre Drieu la Rochelle, suicida, a Robert Brasillach, fucilato per collaborazionismo, a Lucien Rebatet, lungamente carcerato, sorsero per reazione alla decadenza del loro paese, che di lì a poco a perse l’impero coloniale. È riconosciuto fra i geni del secolo l’anarchico Céline, imprigionato per collaborazionismo e antisemitismo, che fu lo straordinario innovatore della prosa narrativa francese; così come Ezra Pound, sbattuto dagli americani in una gabbia e poi tredici anni in manicomio criminale per il suo filofascismo, fu l’innovatore del modo di fare poesia in lingua inglese (influenzando l’irlandese Yeats e Eliot, entrambi premi Nobel e con inclinazioni fascistoidi, così come nel mondo inglese ebbero tratti fascistizzanti sia T.E. Lawrence (Lawrence d’Arabia), autore del classico I sette pilastri della saggezza, che D.H. Lawrence, autore del Serpente piumato e di Lady Chatterley); e Filippo Tommaso Marinetti, fondatore col futurismo della più completa fra le avanguardie del Novecento, giacché comprese poesia, prosa, pittura, scultura, musica, teatro, cucina, ecc., che poté vantare d’aver superato per primo le regole sintattiche con cui per secoli s’era fatta poesia, da Omero a d’Annunzio (altro precursore del fascismo).

Non solo quindi tre eccezionali maestri nell’arte della parola, ma anche punte avanzate nelle più ardite espressioni d’avanguardia. Inizialmente futurista e poi creatore d’una sua forma espressiva volta all’interpretazione grafica della rivoluzione fascista fu Mario Sironi, ormai considerato il maggior pittore italiano del Novecento. E se Sironi fissò l’immagine del fascismo nella pittura murale, Leni Riefenstahl, che rimane la maggior regista di documentari, filmò l’immagine del nazismo riprendendone nel Trionfo della volontà un congresso di partito a Norimberga.

L’elenco dei geni di destra potrebbe allungarsi includendovi altri premi Nobel, da Guglielmo Marconi, fascistissimo presidente dell’Accademia d’Italia, a Luigi Pirandello, a Konrad Lorenz, il maggior studioso di comportamento animale. Ma non fu tipicamente di destra l’inventiva tecnico-scientifica da cui sorse la radio, anche se il Duce si avvalse tra i primi della possibilità di comunicare col popolo via etere; né l’etologia di Lorenz si presta a essere rigidamente etichettata. Il relativismo pirandelliano venne invece assimilato al fascismo da Adriano Tilgher ottenendo il consenso di Mussolini, che nel recensirne i Relativisti contemporanei nel novembre 1921 aveva scritto:
La definizione è esattissima. Il Fascismo è stato un movimento super-relativista, perché non ha mai cercato di dare una veste definitiva programmatica ai suoi potenti stati d’animo, ma ha proceduto per intuizioni frammentarie. Se per relativismo deve intendersi il dispregio per le categorie fisse, per gli uomini che si credono i portatori di una verità obiettiva immortale, per gli statici che si adagiano, invece che tormentarsi e rinnovellarsi incessantemente, per quelli che si vantano di essere sempre uguali a se stessi, niente è più relativistico della mentalità e dell’attività fascista. Se relativismo e mobilismo universale si equivalgono, noi fascisti abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e di dirci volta a volta: aristocratici e democratici, rivoluzionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti – noi siamo veramente i relativisti per eccellenza.
Insomma: nessuno in politica era mai stato così… pirandelliano come Mussolini. E Pirandello, ostentatamente iscrittosi al Partito fascista dopo l’assassinio di Matteotti, aveva in tante novelle e opere teatrali temi di critica non marxista, non economicista, al costume borghese, alla corruzione liberaldemocratica ne I vecchi e i giovani e scritto in Berecche e la guerra un racconto interventista. Furono inoltre di destra alcuni geni dell’organizzazione, come Henry Ford (autore tra l’altro d’un libro antisemita, che dovette ritirare dalla circolazione per evitare boicottaggi alle vendite delle sue automobili), che segnò lungo quasi tutto il secolo nel mondo per milioni di operai il modo di lavorare in fabbrica. O come in Italia Italo Balbo, che a capo dell’Aeronautica militare realizzò voli transoceanici in grandi formazioni, mentre prima di lui queste prodezze erano affidate a prove di coraggio solitario. O come Renato Ricci, che assunto il compito d’organizzare la gioventù italiana si recò in Inghilterra da Baden-Powell, fondatore degli scouts, che gli diede preziosi consigli, e in Germania da Walter Gropius, del movimento architettonico Bauhaus. Creata l’Opera Nazionale Balilla, fece costruire 890 Case del Balilla, 1.470 palestre, 2.568 campi sportivi, 40 teatri, 22 piscine, 520 ambulatori, una quantità di locali per biblioteca e una dozzina di Collegi, fra cui l’Accademia di educazione fisica al Foro Mussolini, l’Accademia femminile di Orvieto, i Collegi navali di Venezia e Brindisi, il Collegio aeronautico di Forlì, le Scuole marinaretti di Sabaudia e Cagliari e mise in mare la nave scuola Palinuro per educare gli scugnizzi napoletani. Gandhi venne a visitarlo. Con 12mila dirigenti Ricci mise 6 milioni di ragazzi a far ginnastica, tra cui 2 milioni e mezzo di Balilla, oltre 2 milioni di Piccole italiane, 960mila Avanguardisti, quasi mezzo milione di Giovani italiane.

Ricci aveva 28 anni quando Mussolini gli affidò quell’incarico e non volle avvalersi di collaboratori più vecchi di lui. Fece quindi realizzare il Foro Italico, rimasto tra i capolavori mondiali dell’architettura sportiva, da architetti giovanissimi, tra cui Luigi Moretti, che affermatosi tra i grandi architetti del Novecento in età matura fu chiamato negli Stati Uniti a progettare il complesso del Watergate. Accanto a Moretti altro genio dell’epoca fu Giuseppe Terragni, a cui si deve, tra altre opere entrate nella storia dell’architettura, la Casa del Fascio di Como. Ma ecco come il figlio di Renato Ricci, architetto Giulio, ha raccontato i criteri selettivi usato da suo padre per il Foro Italico: “Il primo che chiamò fu Del Debbio, che aveva 28 anni, e gli fece fare l’Accademia, lo Stadio dei Marmi e il primo piano regolatore del Foro Mussolini. Poi venne Costantini, che aveva 25 anni. Lo conobbe premiandolo a una gara di sci. Disse che aveva bisogno di lavorare. Mio padre lo chiamò a Roma e lui fece l’obelisco, le piscine, il tennis. Giulio Pediconi si presentò al Ministero e chiese del lavoro. Ricci gli domandò: “Quanti anni ha?”. “23″. “Quanto lavoro ha fatto?”. “Niente”. “Allora venga a lavorare per me”. L’architetto Pediconi ha fatto la Fontana della Sfera. Poi ha chiamato l’architetto Pintonello, che aveva collaborato con Costantini alla realizzazione del monolito e gli diede l’incarico dello Stadio Olimpico. Anche Moretti fu chiamato a collaborare al Foro quando aveva poco più di 23 anni: predispose il piano regolatore definitivo del Foro, che susseguiva quello precedente di Del Debbio. Moretti ha progettato la Casa delle Armi e altri lavori che avrebbero dovuto essere realizzati, compreso uno stadio per 400mila persone. Rimase legato, come del resto gli altri architetti e artisti, a mio padre fino all’ultimo giorno. E il giorno che mio padre uscì, nel 1950, di prigione, trovò sulla porta di Regina Coeli Moretti commosso, che piangeva, e lo portò con la sua macchina a casa”.

Il Novecento è stato connotato dal particolare valore politico attribuito proprio dal fascismo alla cultura. Renzo De Felice, descrivendone l’uscita con pochi compagni da partito socialista per aderire alle agitazioni interventiste, disse che Mussolini aveva scelto il “partito della cultura”. Era infatti interventista la cultura delle riviste del primo Novecento: quella più di destra, fiorentina, con Papini, Prezzolini, Soffici, ma anche quella che era inconsapevolmente una “sinistra della destra” con le pubblicazioni futuriste e del sindacalismo rivoluzionario, due movimenti d’avanguardia destinati a confluire nel fascismo. Poté sembrare sulle prime una scelta perdente rispetto alla posizione di prestigio goduta da Mussolini in casa socialista, eppure la via della cultura fu una scorciatoia verso la conquista del potere e l’estensione dei consenso.

Ci ripensò Gramsci, tormentandosi in prigione. Dal marxismo aveva appreso che la cultura era sovrastruttura: fu l’esempio di Benito Mussolini a suggerirgli l’importanza dell’egemonia culturale nella società per giungere al potere e conservarlo. Solo un vecchio trombone come Norberto Bobbio poté teorizzare stupidaggini secondo cui dove c’era cultura non c’era fascismo e viceversa. Una sinistra salottiera, sempre più vuota d’idee ma supponente, di queste cretinate si compiace da decenni, senza rendersi conto d’aver solo imitato tecniche usate dal fascismo per l’estensione del consenso attraverso eccezionali promotori di cultura come Giovanni Gentile con l’Enciclopedia italiana e la Normale di Pisa, organizzazioni come i Littoriali, i Guf, le riviste dei Berto Ricci, ancora le riviste e i premi d’arte di Bottai, la legge Bottai del 2% da destinare alle arti sul costo degli edifici pubblici, ma soprattutto la piena libertà di scelta stilistica, dai classicisti sino agli astrattisti, garantita agli artisti durante tutta la durata del regime.

L’imitazione ha giovato elettoralmente alla sinistra, meno alla cultura italiana e anche mondiale, la cui creatività nella seconda metà secolo fu meno brillante che non tra le due guerre.
Per vie molteplici, oggi, si fa sempre più preciso il senso, che una minaccia oscura incombe sull’intera civilizzazione d’Occidente. Nella crisi, investente non questa o quella forma speciale, ma la compagine dell’intero mondo moderno, sembra che si preannuncino i sintomi della fine di un mondo, del tramonto di una cultura.

giovedì 15 maggio 2014

Renzi e Soros, l`amico amerikano...


di Giuliano Augusto (Rinascita)

Matteo Renzi si sta evidenziando come un politico più che affidabile per le logiche del mondialismo e per gli interessi dell'Alta Finanza. Le speranze riposte su di lui oltre Atlantico e oltre Manica sono forti. 1400139581.jpgLa conferma più nota è quella dell'articolo del settimanale Time che già nel 2009, quando guidava la Provincia di Firenze, lo presentava come “l'Obama italiano”. Quindi come una persona sulla quale contare, sui tempi lunghi, per guidare la “trasformazione” dell'Italia secondo i desiderata di Wall Street e della City che, quando si tratta di fare quattrini, mettono subito da parte le storiche rivalità esistenti tra gli inglesi e la loro ex colonia. E non si tratta soltanto dei disegni per mettere le mani sulle aziende ancora sotto controllo pubblico, come Eni, Enel e Finmeccanica. E guarda caso, giorni fa nell'Eni è stato sancito il passaggio in minoranza del socio pubblico (Tesoro e Cassa Depositi e Prestiti) rispetto a quelli privati. Per lo più, fondi di investimento anglofoni, dotati di risorse finanziarie quasi infinite. Sempre in questi giorni, Renzi ha raccolto il plauso e l'incoraggiamento di un simpatico (si fa per dire) criminale del calibro di George Soros, con cui si era già annusato in America, che lo ha indicato come “l'ultima occasione per la svolta italiana”. Soros è molte cose. 1400139927.jpg_1603922830Allievo di un altro deteriore individuo come Karl Popper, il filosofo della cosiddetta “società aperta”, il finanziere ungherese naturalizzato americano rappresenta una delle più velenose teste di ponte delle strategie mondialiste tendenti a creare un unico grande mercato globale sul quale possano circolare liberamente materie prime, merci, prodotti finiti e ovviamente lavoratori. Del resto perché stupirsi? Con il lavoro ridotto a merce, tutto è ormai possibile. Da questa impostazione mentale, non scordiamo che il padre di Soros è stato uno dei principali araldi di quella non lingua che è l'esperanto, nascono tutte le risorse finanziare che Soros ha impiegato per creare organismi che in Serbia, come in Georgia e in Egitto, hanno guidato le rispettive “rivoluzioni democratiche” all'interno di una strategia più generale funzionale agli interessi degli Stati Uniti e all'accerchiamento della Russia. Ma Soros è anche altro, è stato anche altro e la sua vicinanza a Matteo Renzi è quantomeno inquietante. Fu infatti il Quantum Fund di Soros a speculare massicciamente, insieme ad altri, contro la lira nell'autunno del 1992. Un attacco partito da Wall Street e dalla City con l'obiettivo di mettere in difficoltà l'Italia e fare capire al governo di allora, quello di Giuliano Amato, che era necessario e salutare che si procedesse con il processo di privatizzazione delle aziende pubbliche che ci era stato suggerito durante la famigerata Crociera del Britannia del 2 giugno precedente. 1400140153.JPGLa lira, dopo l'inutile difesa che ne aveva fatto la Banca d'Italia di Ciampi, venne svalutata del 30% rendendo più conveniente per la stessa percentuale l'acquisto di diverse società pubbliche da parte di operatori esteri. Ora Renzi ha già fatto filtrare la buona novella di essere pronto a completare l'opera mettendo sul mercato quel che resta di Eni, Enel e Finmeccanica e dintorni. Soros, come molti altri, è preoccupato della debolezza di Pittibimbo, come lo chiama Dagospia, all'interno del Partito Democratico dove sta montando l'insofferenza del vecchio apparato del PCI-PDS-DS nei confronti del principale esponente dell'anima popolare-democristiana del partito. Soros teme che alle prossime elezioni europee che i partiti euroscettici e populisti ottengano un risultato eclatante. Partiti guidati da figure carismatiche che seppure hanno in mente un sistema formalmente democratico nei fatti risultano autoritari e in grado di manipolare l’opinione pubblica”. Una bella faccia di bronzi quella di Soros se solo si pensa a tutto il battage pubblicitario che la stampa del sistema finanziario utilizza per lodare l'euro ed esaltare il Libero Mercato. E soros, che di queste logiche è parte integrante, pensa che Renzi rappresenti la nuova generazione ed è positivo, a suo dire che voglia cambiare la macchina dello Stato che è molto inefficiente e il mercato del lavoro ancora troppo poco flessibile. Ache per lo speculatore per eccellenza, l'obiettivo resta, ora e sempre, quello del precariato diffuso. E Renzi, evidentemente, è d'accordo con lui.

martedì 13 maggio 2014

"Dietro le linee”. Hiroo Onoda e l’eterna vittoria della volontà dell’ultimo samurai...

di Mario De Fazio (Barbadillo.it)
“Rimasi nascosto nella foresta, in attesa che il tempo passasse”. L’incipit di “Dietro le linee. Io, solo, per trent’anni in guerra”, il testo scritto da Hiroo Onoda per tramandare la sua battaglia andata avanti per ventinove anni dalla fine della seconda guerra mondiale, è già una promessa. Una lama, inattuale, che fende la contemporaneità. Il tempo è passato, la foresta è sempre intorno a noi. Ma l’ultimo discendente della casta dei samurai è uscito dal verde di Lubang per salire le impervie vette dell’eternità.
“Dietro le linee” è un libro scomodo. Non a caso è stato edito dalle edizioni di Ar: l’edizione, come sempre quando si tratta della casa editrice padovana, è curata nei minimi dettagli. Le venti righe sul risvolto di copertina siglate da Franco Freda, da sole, illuminano più di intere biblioteche, quando spiegano che il libro è “il racconto della passione virile della volontà, di un portamento ascetico “fuori linea”, di un dispositivo esistenziale eccentrico – perché eroico – rispetto al sistema dell’umanismo contemporaneo”.
Ventinove anni. Passati a combattere una guerra che il Giappone aveva già perso nel ferreo convincimento che la sconfitta non fosse possibile. Prima con pochi camerati, Akatsu, Shimada e Kozuka. Poi, con il passare degli anni, la diserzione del primo e l’uccisione degli altri due, da solo. A sfidare sorte e ragione, chiedendo aiuto alla natura e potendo contare solo sul proprio spirito, forgiato come la lama di una katana dallo sforzo quotidiano di essere fedeli a se stessi. Cesellando, con pazienza, il progetto di una volontà che vuole diventare forma.
“In qualità di ufficiale dell’esercito imperiale avevo ricevuto una consegna. Sarebbe stato vergognoso per me non essere all’altezza di rispettarla”, scrive Onoda. Quando entra nell’esercito, è un ragazzo normale. Beve, fuma, passa le notti dedicandole al gioco, gli piace ballare. Ma coltiva la passione per il kendo e, quando dovrà partire per le Filippine, porterà con sé una spada da samurai, eredità della famiglia della madre. “Si trovava in un fodero bianco e, nel porgermela, mia madre mi disse in tono grave: Se ti fanno prigioniero, usala per ucciderti”. Poi arriva l’addestramento nelle “squadre di pacificazione”, uomini pronti a infiltrarsi nelle linee nemiche e alla guerriglia. Impara che “nella guerra segreta c’è integrità”. “Con integrità – scrive il tenente – intendo anche sincerità, lealtà, dedizione al dovere, dirittura morale. Con l’integrità è possibile sopportare tutte le avversità e alla fine farne strumenti di vittoria”. Infine la guerra, come catarsi. E la decisione di dedicare la propria vita a un’idea, all’Impero del Sol Levante, elevando il dovere a disciplina quotidiana dello spirito e del corpo.
Onoda è un uomo, non solo un esempio. E il libro restituisce non solo la dimensione eroica della sua esistenza ma anche una purezza che, agli occhi moderni, può sembrare persino elegante ingenuità. Non crede mai ai messaggi diffusi sull’isola dagli altoparlanti, o a giornali e messaggi che le squadre di ricerca lasceranno nella giungla, nei ventinove anni di guerriglia, per convincerlo ad arrendersi. “Come potevamo pensare che le città del Giappone erano state rase al suolo, che quasi tutte le navi giapponesi erano state affondate, e che un Giappone ridotto in ginocchio si era veramente arreso?”. Non contempla la sconfitta perché ha giurato di dare la vita per la vittoria del Sol Levante.“Quando nel 1994 giunsi nelle Filippine, la guerra stava andando male per il Giappone e nella nostra patria la fraseichioku gyokusai, cento milioni di anime stanno morendo per l’onore, era sulle labbra di tutti. Questo significa letteralmente che la popolazione del Giappone avrebbe combattuto fino alla morte dell’ultimo uomo piuttosto di arrendersi. Io presi questa frase alla lettera, e sono certo che molti altri giapponesi della mia età fecero la stessa cosa”.
Curioso – ed emblematico – che il tenente, chiuso nella giungla di Lubang senza contatti con il mondo esterno, consideri possibile un’alleanza nippo-cinese contro americani e inglesi. “Presumevo che la lega asiatica, sotto la leadership nipponica, fosse ancora impegnata in un accanito conflitto economico e militare con l’America”. Sa che in Cina c’è la rivoluzione di Mao ma è convinto che i due Paesi lavorino con gli stessi obiettivi. Intuisce, con lungimiranza da monaco-guerriero, che il vero demone da combattere è il mercante a stelle e strisce. “Avevamo giurato che avremmo resistito ai demoni americani e inglesi fino alla morte dell’ultimo di noi”.
Lo stile è asciutto, netto. Ma anche capace di lirismi centellinati, in cui il paesaggio selvaggio della giungla filippina sa svelare squarci inediti dell’animo del tenente giapponese. Al chiaro di luna, sulla lapide del camerata Kozuka, si abbandona la canto di una antica canzone militare: “Fedele ai Cinque insegnamenti, sul campo di battaglia il prode muore. Una cosa soltanto trova certa: anche se neppure un capello di lui resta, nessuno può dolersi di essere morto per l’onore”. Il cameratismo emerge nel suo significato più profondo nel rapporto con Shimada e soprattutto Kozuka, con cui si instaura un legame etico che travalica avversità e individualità. Onore, fedeltà, sacrificio, volontà sono la calce che plasma questo legame. Quando torna a Tokyo, nel marzo del 1974, risponde così alla domanda di un giornalista che gli chiedeva delle difficoltà della vita nella giungla. “La cosa più dura è stata l’aver perso i miei camerati”.
Guerrigliero e ufficiale dell’esercito, rivoluzionario e conservatore, Onoda rappresenta la spiritualità che diviene carne in ogni gesto che conferma una scelta. È il carattere quotidiano di chi combatte la propria rivoluzione ogni giorno. Riconoscendo, nei legami che ci si dà e mai nelle costrizioni esterne della morale suggerita, l’unica, vera libertà del ribelle. Quando, il 9 marzo del 1974, il maggiore Taniguchi gli legge l’ordine di cessare le ostilità, il suo mondo crolla. “Improvvisamente vidi tutto nero. Una tempesta si scatenò nel mio animo (…) A poco a poco la tempesta si placò, e per la prima volta capii senz’ombra di dubbio: i miei trent’anni di guerrigliero dell’esercito giapponese si erano conclusi di colpo. Era la fine”.
La copertina del libro delle Edizioni di Ar
La copertina del libro delle Edizioni di Ar
La vicenda umana e spirituale del tenente Onoda svetta nel sole del mito. È eterna, perché racconta l’universale lotta dello spirito su ogni forma di utilitarismo, moralismo e ragionevolezza. È l’ultimo esempio, concreto e fattuale, della dottrina di lotta e di vittoria. È la “grande guerra santa”, che ciascuno di noi deve provare a vincere. O almeno tentare di combattere per diventare ciò che si è, investendo i propri sforzi nel progetto della forma da dare a se stessi. La giungla di Lubang è intorno a noi, ogni giorno. E la spada di Hiroo Onoda riflette il sole tra gli alberi, illuminando la strada verso la battaglia.
Hiroo Onoda, “Dietro le linee. Io, solo, per trent’anni in guerra”. Edizioni di Ar, 2014, Euro 25,00.

lunedì 12 maggio 2014

Mostre Arte. Ardengo Soffici dal caos del “Secolo spietato” alle immagini del paesaggio italiano...

soffici

di Renato de Robertis (Barbadillo.it)

Ardengo Soffici: le mostre, i paesaggi e la tradizione
Dopo Arturo Martini ecco Ardengo Soffici. Ecco un’altra mostra sull’arte italiana del Novecento. Un’altra storia artistica da rileggere. Ma, principalmente, ecco una vicenda artistica vissuta nel ciclone del secolo breve. C’è veramente in giro un’attenzione culturale molto frizzante. C’è chi scrive sull’ultimo Sironi, quello cupo e pessimista. Chi rilegge il Martini minimalista, quello della terracotta. E ora c’è chi propone i paesaggi di Soffici: quelli toscani, silenziosi, cézanniani. Ed è questa la proposta: Ardengo Soffici: giornate di paesaggio, nelle Scuderie Medicee, Poggio Caiano (Prato), sino al 27 luglio.
All’artista toscano la cultura italiana deve molto. Deve una grande attività di divulgazione culturale. L’uomo, che appoggiò il Fascismo, divulgò l’opera poetica di Arthur Rimbaud; e quanti oggi lo ricordano? L’uomo, che firmò il ‘Manifesto della Razza’, internazionalizzò l’arte italiana proponendo analisi su Cèzanne e il Cubismo. Un artista con grandi contraddizioni. Ma un vero artista. I suoi paesaggi italiani tentavano nuove sintesi artistica. Per rinnovare la pittura. Per ‘asciugare’ il paesaggio dopo la stagione impressionista. E per ritornare all’essenzialità della rappresentazione.
Tuttavia, qualcosa appare non detto. Una mostra su Soffici necessita di una più chiara storicizzazione; per questo si ha l’impressione di una mostra un po’ disattenta al relativo quadro storico-culturale; una mostra in cui viene ricordato più un pittore di paesaggi che l’artista del suo tempo; sembra, allora, che non ci sia traccia dell’intellettuale borghese elacerbiano, dello “spalancatore di porte e finestre” come lo considererà Giorgio Morandi.
Un pittore emozionante il Soffici. Il pittore delle valli toscane e profonde. Ma quei paesaggi furono un suo momento di tregua; una tregua dopo gli anni di “combattimento ideale” con Papini e con il Fascismo. Va scritto esplicitamente: la figurazione essenziale delle giornate di paesaggio è comprensibile solo dopo aver inquadrato la stagione del ritorno all’ordine. Cioè, non si scopre il lirismo pittorico di Soffici senza riferirsi ad una certa idea dell’arte che, dopo le infatuazioni futuriste, ritornò a Giotto, alla pittura sacra, al racconto della dignitas italica e medievale.
Di sicuro questa mostra conduce il critico a recuperare i nomi di Funi e Drudeville, cioè di quegli artisti che non accettavano l’idea della morte della civiltà occidentale. In questi, come in Soffici, era forte l’idea di un’arte indirizzata al cambiamento ma senza perdere il contatto con la tradizione. Quante verità ci sono nei contadini toscani di Soffici! Quanta poesia nelle sue donne stilizzate e laboriose! In lui si respira la modernità che si congiunge con la forma dell’arte toscana e con la pittura murale del Quattrocento.
Nella mostra, accanto ai paesaggi di Soffici, è positivamente rimarchevole la visione di tele di altri pittori. Quindici opere di italiani del Novecento invitano a considerare Soffici nel quadro di una generazione che esprime De Chirico e Carrà. Ed è questo un aspetto che andrebbe sviluppato maggiormente. Ed è questo un punto di partenza per evitare di de-storicizzare un altro artista. In tanti vorrebbero de-storicizzare la scomoda arte della prima metà del Novecento e farlo per appropriarsi di una carica storico-artistica unica.
Insomma, per conoscere Ardengo Soffici, per dialogare con la sua arte, per percepire lo spirito del paesaggio italiano da lui dipinto, diviene fondamentale rileggere la personalità di questo artista. Un artista che dall’avanguardia giunse alla restaurazione fascista; dal rifiuto del classicismo poi arrivò ad imitare Giotto; e dal caos delle vicende del secolo spietato raggiunse le immagini di un mondo ideale, le immagini del paesaggio italiano.

sabato 10 maggio 2014

Sorry. I must dead...


Di Mario M. Merlino

Dovrei approfittare della disponibilità di un mio ex alunno, che da anni si è trasferito in una città d’Irlanda, per visitare quel paese che ha esercitato su molti di noi un duplice fascino.

Terra magica e leggendaria dove i cimiteri si adornano di croci celtiche; terra di rivolte e di lotta fino ai giorni nostri in cui gli uomini e le donne dell’IRA ci sono apparsi il segno vivo, con il marchio del rosso sangue, di combattenti per la sovranità nazionale contro il colonialismo inglese e strenui difensori dell’identità violata. Mi sono, però, invigliacchito e, nonostante il mio disprezzo per l’anagrafe, fatico a battagliare con i segni del quotidiano. E così rimarrà fra i tanti sogni in cui l’onda del tempo s’infrange irrisolta sulle scogliere e l’oceano Atlantico… simile ad ‘una barca che anela al mare eppure lo teme’.
Alla fine degli anni ’90, credo su suggerimento di Sabina, ho letto Strade di Belfast, storie di vita quotidiana sullo sfondo della lotta di liberazione irlandese quale sottotitolo (‘Nel 1971 gli inglesi uccisero Mickey. Uccisero tantissimi cani a Ballymurphy. Infatti questi avvisavano della presenza dei soldati nell’area: li facevano inferocire e, con le frequenti perquisizioni che subiva la nostra casa, Mickey impazziva ogni volta che vedeva o sentiva l’odore di un inglese…’. E così avviene per l’altro loro cane, Shane, che, essendo di bella taglia, viene portato via dagli inglesi ad Henry Taggart, base dell’esercito, mentre l’autore di queste storie si trovava ‘a Long Kesh, allora, rinchiuso nella cella n. 6’ oppure il ricordo del ‘Bloody Sunday’, la domenica 20 gennaio 1972 quando l’esercito britannico uccise quattordici persone a Derry durante una manifestazione pacifica per i diritti civili, che s’insinua nella vita ordinata e pacifica di due anziani fratelli. Insomma nel quotidiano, nel minimalismo d’ogni singolo episodio gli uomini e la storia sembrano ignorarsi eppure si guatano si alitano si riconoscono in quanto la seconda è l’ombra onnivora brutale iniqua).

L’autore di questi racconti è Gerry Adams, che da anni ricopre la carica di presidente del Sinn Féin (il partito cattolico dell’Irlanda del Nord, braccio politico per decenni dell’IRA, anche se non sempre in rigida sintonia nella necessità di doversi destreggiare tra la legalità pubblica e la clandestinità armata. Del resto la stessa IRA conobbe una scissione interna e l’esistenza di micro-organizzazioni incontrollabili). Egli stesso ha sempre negato la sua affiliazione all’Esercito di rivoluzione irlandese, nonostante le accuse a lui rivolte dalla polizia di Belfast e dalle autorità britanniche. Ultime per il caso della vedova Jean McConville, di anni 37, che l’IRA sequestrò nel lontano 1972, in casa, davanti ai suoi dieci figli, accusandola d’essere una spia della polizia nord-irlandese. Nell’agosto del 2003 il mare ne restituì il corpo con le ossa spezzate e le mani amputate. Da testimonianze raccolte negli Stati Uniti Gerry Adams viene tratto in ballo come colui che aveva dato ordine di eseguire la condanna. Arrestato, rimesso in libertà dopo quattro giorni, vaghe e confuse le accuse. Legittimo il sospetto che non si vuole mettere in crisi il fragile equilibrio raggiunto…

I numerosi arresti, gli anni di detenzione hanno rilevato la presenza di una personalità forte e decisa, sebbene sul suo capo e sui suoi comportamenti si sono addensate le ombre di accuse ignominiose. Eletto al Parlamento di Londra, dove non volle mai sedere rifiutando di riconoscere l’autorità britannica sulle Contee del Nord, è stato fra i massimi esponenti delle trattative di pace. Nel 1984, il 13 marzo, transitando in auto nel centro di Belfast, venne ferito da un attentato messo a segno da un commando dell’UDA, l’organizzazione a carattere militare protestante. La sua fama si fece evidente, sebbene anche qui c’è chi ne adombra la limpidezza, quando dall’ottobre del 1980 all’ottobre dell’anno successivo si protrasse quello sciopero della fame nel quale ben dieci detenuti si lasciarono morire. Fra costoro, il primo e il più noto, Bobby Sands.

E’ il 5 maggio del 1981 (da pochi giorni, dunque, sono trascorsi trentatre anni), Bobby Sands è avvolto in uno spesso simulacro di bende affinchè le ossa non si spezzino e lacerino la pelle, sono ormai sessantasei giorni di digiuno, quando il suo cuore ardimentoso cessa di battere. Irremovibile. Al delegato del Papa che ha cercato di dissuaderlo, con voce ormai flebile ma decisa ha risposto: ‘Sorry. I must dead’… Le hanno tentate tutte, egli e i suoi compagni di detenzione, all’interno dei famigerati H-Blocks, nella prigione di Long Kesh contro il regime carcerario a cui vengono sottoposti i detenuti politici. Rifiutandosi d’indossare la medesima uniforme dei detenuti comuni; rifiutandosi di lavarsi e, vista l’ostinazione del governo presieduto da Margaret Thatcher, lo sciopero della fame ad oltranza. Tutto inutile se non nella memoria di chi ritiene che ‘la guerra-non-è finita’… Vano il suo, il loro sacrificio? (Il 5 maggio cade anche l’anniversario di quell’esecuzione, mascherata da conflitto a fuoco, in cui venne assassinato Giorgio Vale. Il suo, quello di altri camerati, fu anch’esso vano?). La storia li condanna al superamento – altra cosa è la dimenticanza di comodo –, alla distanza; ma lo spirito inquieto, quell’essere contro no, non può…

Quando è uscito nelle sale cinematografiche il film Romanzo di una strage, mio figlio Emanuele mi ha chiesto se potevamo andare a vederlo insieme. Egli sa bene che vado raramente, quasi mai, al cinema ma capisco che, pur essendo ricostruzione arbitraria e faziosa della vicenda di piazza Fontana, diveniva l’occasione per chiedermi indirettamente cosa ne pensassi o gli dessi spiegazioni, magari del mio tanto discusso(?) ruolo. Poi si è finiti con comuni amici davanti a una pizza e si è parlato di altro dando fondo ad un boccale di birra. Per coincidenza temporale, negli stessi giorni, è uscito il film Hunger sulla vicenda di Bobby Sands. Dopo la proiezione ho risposto alla richiesta di Emanuele, la tacita richiesta di qualche giorno prima. Beh, Romanzo di una strage che pur ha segnato la mia vita da quel 12 dicembre 1969 – vi sono due spezzoni che mi ritraggono e in uno mi si fa dire parole da me mai dette – mi ha profondamente annoiato, non mi ha dato nulla… non così Hunger che mi ha coinvolto, amaro in bocca, simile a un pugno ricevuto nello stomaco perché mi sono chiesto – è venuta su la domanda come un rigurgito di acido – cosa avrei fatto, se lucidamente sarei stato in grado di negarmi, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, al richiamo del corpo, al suo grido silenzioso e tenace in nome della viva carne, delle ossa, del sangue. La mente al servizio dell’Idea; il corpo al servizio della Vita. Un contrasto, un conflitto, tutto giocato nella solitudine interiore, nella solitudine della cella, una scelta in cui è d’obbligo che si diventi nemico implacabile di una parte di se stessi… ‘Ricordati, Critone, di offrire un gallo ad Asclepiade’…

venerdì 9 maggio 2014

La leggenda del capitano pilota Carlo Miani e la 360° Squadriglia...



di Marco Petrelli (Barbadillo)

«Valorosissimo comandante di caccia, pilota di non comune abilità». Così scriveva Duilio Fanali, comandante del 155° Gruppo caccia, motivando una delle Medaglie d’Argento al Valor Militare per il capitano pilota Carlo Miani, comandante la 360° Squadriglia a Gela.

Triestino, classe 1914, Carlo si era avvicinato al volo a vent’anni. Guerra di Spagna, un abbattimento, decorato al valore; poi, la Seconda Guerra Mondiale con missioni svolte nei Balcani, in Russia e in Sicilia. Qui, nell’estate del 1942, al comando della 360ª Squadriglia diventa il terrore della RAF britannica.

METÀ GIUGNO 1942. Le truppe italo tedesche e quelle alleate combattono un’aspra campagna in Nord Africa, un conflitto difficile reso ancor più tosto dalla necessità di rifornire reparti molto lontani dalla madrepatria. La Sicilia è uno snodo cruciale per i piroscafi inglesi e italiani che fanno rotta verso Egitto e Tunisia. I convogli, scortati da cacciatorpediniere ed incrociatori leggeri, sono intercettati dal nemico nei pressi di Malta e di Pantelleria. E’ in questo scacchiere che la 360ª Squadriglia di Carlo Miani diventa una piccola leggenda.

UN COMANDANTE D’ESPERIENZA. Sul finire di maggio, da poco operativo sul teatro siciliano, il capitano Carlo Miani dà subito prova di forza e determinazione. E’ Fanali a raccontarlo in un rapporto ricordando che, in continue e provanti azioni su Malta, l’ufficiale «ha mantenuto in piena efficienza la Squadriglia, proteggendo i bombardieri italiani e germanici in volo sull’isola». Il comando della

Regia Aeronautica di Gela sottolinea le capacità militari del pilota che respinge, in più occasioni, i «cacciatori» della RAF.

SOPRA LA FORCE X. Ma è il 14 e 15 giugno 1942 che il capitano triestino dà il meglio di

sé: in una sola giornata tira giù cinque Spitfire lanciati all’assalto dei trimotori italiani diretti

a Malta. Siamo a largo di Pantelleria; sotto le pance dei Macchi della 360ª Regia Nave

Da Zara intercetta la Force X di Campbel Hardy. Inizia la battaglia di Pantelleria.

UN LUNGO MAYDAY. Il 10 luglio il comandante della 360ª è protagonista di un’azione da pellicola hollywoodiana. Un guasto tecnico manda in tilt la strumentazione di bordo del

suo Macchi. Miani sa che ammarare in acque nemiche significherebbe dare la sua persona e l’aereo al nemico. Si lancia a tutta manettaverso le coste siciliane: cento chilometri, poi il lancio in extremis. Il paracadute si apre e l’apparecchio finisce in territorio italiano.

CONTRO PATTON. Un anno dopo gli eventi narrati nei rapporti del comando di Gela, il fronte africano è crollato. La Sicilia diventa teatro di scontro il 10 luglio 1943 quando, nel corso di Husky, gli anglo americani mettono piede a Gela e Licata. Mentre il Generale George S. Patton, comandante la VII Armata, raggiunge la costa su una lancia, un Macchi «Folgore» spunta dalle nubi. Non è Miani, il nome del pilota non si saprà mai, ma pare che il “cacciatore” abbia raccolto l’eredità del capitano triestino: mani sulle armi tira una raffica contro la barca. Patton finisce in acqua. Un’azione poco documentata e poco nota, rispolverata però dal pittore toscano Alberto Parducci che fotografa la vicenda su una delle sue celebri tavole.

giovedì 8 maggio 2014

Una Fiat amerikana...



di Giuliano Augusto (Rinascita)

Il gruppo Fiat-Chrysler ha la sede legale in Olanda e quella fiscale a Londra. Perché stupirsi? Sergio Marchionne ha la cittadinanza canadese, lavora in Italia ma ha la residenza fiscale in Svizzera. Tutta questione di meno tasse da pagare per l'azienda e per il manager in pullover. Ieri a Detroit l'uomo che è stato scelto dagli Agnelli per realizzare il loro addio all'auto, ha presentato il piano industriale del gruppo 2014-2018. Un piano che non ha convinto gli investitori e il Mercato, tanto che a Piazza Affari a Milano il crollo del titolo si è sommato a quello della Exor, la società che raggruppa gli investimenti della famiglia Agnelli. Un significativo giudizio negativo sulle prospettive del gruppo che non può che scontare i colossali errori di strategia che hanno portato la Fiat ad arrancare al sesto posto in Europa per vendite dopo aver conteso alla Volkswagen il primo posto nei primi anni ottanta. Ma era l'epoca di Ghidella che, purtroppo per lui, si scontrò con la visione più finanziaria di Romiti e che alla fine risultò vincente, anche per gli stretti legami del manager romano con Enrico Cuccia, il grande capo di Mediobanca, allora la più stretta alleata degli Agnelli. Il gruppo punta a produrre e vendere nel 2018 ben 7,5 milioni di vetture in tutto il mondo, di cui 3,1 milioni di auto in Nord America, 1,8 milioni in America Latina 1,5 milioni in Europa, Africa e Medio Oriente e 1,1 in Asia. Verranno investiti 55 miliardi di euro in cinque anni. Promessa che ricorda tanto quella poi disattesa in Italia che parlava di 22 miliardi in quattro anni che poi si sono volatilizzati di fronte alle prime difficoltà del mercato, entrato in crisi dopo il crollo dei mercati finanziari nel 2007-2008. Rinnoveremo la gamma delle vetture offerte alla clientela, ha assicurato Marchionne. Con quali soldi è tutto da vedere. Il primo trimestre del 2014 ha registrato già una perdita di 300 milioni di euro che non promette niente di buono. Non ci sarà un aumento di capitale. E infatti gli Agnelli non hanno alcuna intenzione di mettere mano al portafoglio. Dopo che lo Stato ha cancellato i contributi pubblici alla Fiat, per gli Agnelli-Elkann la vita si è fatta più complicata. Ciò che era bene per la Fiat non è più bene per l'Italia. Mantenere gli Agnelli non è più un compito della collettività. Oltretutto il debito del gruppo è salito oltre 13 miliardi di euro. Per fare casa e per ridurrei debiti, ha insistito Marchionne, non verranno venduti i gioielli di famiglia, Ferrari, Maserati e Alfa Romeo, i quali al contrario saranno il perno delle strategie di immagine del gruppo nello storico mercato nord americano e in quello asiatico dove il sogno dei milionari locali è quello di guidare un'auto italiana di prestigio. In Italia, la capacità produttiva degli impianti verrà portata al 100% contro il 50% attuale. Ma escluse Ferrari, Maserati e Alfa Romeo, dietro le quali vi sono strategie particolari, in Italia di italiano resterà ben poco. Giusto la Panda prodotta a Pomigliano. A Mirafiori già si produce la Freemont (ora marchiata Fiat) destinata agli Usa. A Melfi si produrrà la Jeep, sempre della Chrysler. La nuova Punto verrà prodotta in Polonia, a Tychy. La stessa Punto attualmente realizzata a Melfi. La 500 continuerà ad essere realizzata in Polonia e la monovolume 500L in Serbia. Per non parlare del Brasile, dobve sono operative due fabbriche. Una deriva che conferma come le chiacchiere di Elkann e Marchionne, tutte le loro promesse su nuovi investimenti in Italia e nuovi modelli, fossero in realtà chiacchiere. Ma chiacchiere che i sindacati collaborazionisti e i politici hanno ingoiato senza obiezioni facendo finta di crederci, anche se era evidente che erano soltanto parole. Così è passata la cancellazione del contratto nazionale di categoria e la sua sostituzione con uno aziendale, dove le buste paga sono fatte perlopiù di straordinari e di premi di produzione.