domenica 29 giugno 2014

UNA SPLENDIDA GIORNATA, DI LOTTA, MUSICA E VITTORIA!

 

Un'altra piccola ma significativa pagina di storia è stata scritta, ieri, a Casaggì. Le emozioni di una giornata magnifica, scandita da un triplice appuntamento, hanno accompagnato le tante persone intervenute all'evento. 

Siamo partiti, come da programma, con la presentazione di "Patria o Muerte", il nuovo libro di Federico Goglio (Skoll) sulle radici nazionaliste della rivoluzione cubana: un magnifico spaccato di america latina, che Andrea Virga ha approfondito con competenza e precisione. Una prospettiva di analisi diversa e più ricca, capace di aprire nuovi spazi di interpretazione storica e politica. Magistrale, tra gli altri, l'intervento di Maurizio Rossi, la cui presenza  - che ci onora - ha un valore simbolico importante per la nostra Comunità militante: vedere riuniti i protagonisti di un percorso generazionale è sempre un traguardo non indifferente.

Dopo la cena, organizzata al meglio dalla nostra cucina e servita a pochi euro, siamo passati al concerto. La presentazione di "Zero", il nuovo album di Skoll, cantato assieme ai vecchi brani, da tutti conosciuti, è stata di livello. Federico ha la capacità, unica, di saper unire qualità e quantità, offrendo al panorama identitario la possibilità di trovare con cadenza ormai annuale nuovi spunti: un punto di riferimento artistico per tanti, dopo anni di sacrifici e di progressi continui; la perfetta sintesi tra musicalità e contenuti, sobrietà e tensione ideale, innovazione e continuità. Il numero di persone accorse all'evento dimostra che il buon lavoro, sia esso militante o artistico, paga sempre: Casaggì era stracolma, e lo stata dalle 18 fino a notte inoltrata. 

E poi quel clima, quell'aria pura e limpida, è sempre un atto rivoluzionario.
Lunga vita a tutti noi!

lunedì 23 giugno 2014

Quei delitti orribili nella società "per bene" delle villette a schiera...



di Massimo Fini

Si può cercare di analizzare l'apparentemente incomprensibile, l'inconcepibile? Ci proviamo. Siamo di fronte a due efferati delitti, quelli di Brembate e di Motta Visconti, grosso modo hinterland milanese, civilizzato se non civile. A Brembate è stata uccisa una ragazzina di 13 anni, Jara, a Motta Visconti una donna di 38 anni con i suoi due piccoli figli. Si conoscono entrambi gli assassini. Per la verità quello di Jara, un muratore, M.G.B., è solo presunto, perché non basta il Dna per fornire una prova definitiva, e ha fatto bene il Procuratore capo di Bergamo a lamentare la fuga di notizie perché creare 'mostri' anzitempo da dare in pasto alla folla inferocita, una folla che, a volte, fa più paura e orrore dello stesso assassino perché capisci benissimo che, protetta dall'anonimato, com'è in questi casi, potrebbe compiere gli stessi delitti, e forse anche peggiori, dell'assassino (si confronti il comportamento di questa folla indecente, l'eterna folla di piazzale Loreto, con quello dei genitori di Jara, le vere vittime, insieme ovviamente alla ragazzina, di quel delitto).

L'assassino di Motta Visconti è invece certo perché ha reso ampia confessione. E' Carlo Lissi, marito della donna e padre dei due bambini uccisi, fino all'altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello. E' questo delitto che ci sgomenta perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità. E manca qualsiasi movente plausibile. Si tratta di uno di quei 'delitti delle villette a schiera' come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti, altrimenti definiti in criminologia 'crimini espressivi', omicidi senza un perché. In Italia gli omicidi compiuti dalla criminalità comune sono in netta diminuzione, quelli delle 'villette a schiera' sono invece in aumento. Quale la ragione? Io credo che risieda nella pretesa della società contemporanea di abolire nel modo più assoluto ogni forma di aggressività, sia fisica che verbale. E l'aggressività, che è una componente fondamentale e vitale dell'essere umano, compressa come una molla risalta poi fuori nelle forme più mostruose. Io credo che se Lissi non fosse stato costretto dal contesto sociale a condurre una vita così perfettina, se avesse potuto dare un paio di ceffoni a una moglie che evidentemente non sopportava più senza rischiare la galera per maltrattamenti, se avesse potuto insultare il capoufficio o dare un cazzotto a un collega senza essere immediatamente licenziato, se avesse potuto andare allo stadio senza recitare la parte del tifoso perbene ma quella di «Genny a carogna», forse, sfogatosi in altro modo, non avrebbe ucciso. Lo psicologo e psichiatra austriaco Bruno Bettelheim ricorda come nel suo villaggio natale l'uccisione collettiva del maiale, che è una cosa molto cruenta, cui partecipavano anche i bambini come lui, fosse uno sfogo naturale dell'aggressività dei componenti della comunità che evitava guai peggiori. Tutte le culture che hanno preceduto la nostra conoscevano queste verità psicologiche elementari. E quindi non cercavano di abolire del tutto l'aggressività ma di canalizzarla in modo che fosse controllabile e restasse entro limiti accettabili (i neri africani con la 'guerra finta' o i Greci con la figura del 'capro espiatorio' non a caso chiamato 'pharmakos', medicina). Se si vuole evitare il Grande Male bisogna accettare i piccoli mali e, sul lato opposto, bisogna accontentarsi dei piccoli beni invece di pretendere il Bene Assoluto. Perché Bene e Male sono due facce della stessa medaglia e concrescono insieme. E quanto più si vorrà grande il Bene, tanto più si creerà, inevitabilmente, un Male equivalente. Come dimostrano anche alcune recenti esperienze internazionali.

giovedì 19 giugno 2014

Italiani e giapponesi, il racconto di una passione...



Mario Vattani presenta il romanzo "Il Fiume di Fuoco e di Profumo"(tratto da Il Velino.it)


Per rafforzare la sua posizione in Asia e dare un carattere speciale alle sue relazioni con paesi come il Giappone, l'Italia dovrebbe “ricordare” quanto ha saputo fare nel passato. È anche questo il messaggio de “Il Fiume di Fuoco e di Profumo”, il romanzo di Mario Vattani che verrà pubblicato per ora solo in Giappone. Nel libro l’avventura personale del protagonista si proietta sullo sfondo dei rapporti tra l’Italia e il paese del Sol Levante, in un periodo – dal 1866 al 1945 - molto particolare per le due nazioni e per il mondo intero.
Qual è il tema centrale del libro e il suo messaggio? 
"Ho voluto sviluppare il romanzo su due livelli. C’è quello personale, un viaggio che è quasi un percorso iniziatico attraverso il Giappone, le sue divinità e la sua storia. Il cammino di liberazione attraverso lo sforzo e la disciplina è un tema che nella mia vita ho tentato di sviluppare in varie forme. Solo che stavolta l’avventura umana si svolge sullo schermo magico dei rapporti tra Italia e Giappone. Quindi come nel teatro 'Noh', esiste un secondo livello in cui i protagonisti non sono solo le persone, ma anche le cose, che assumono una loro vitalità ed esprimono i loro ricordi".
Perché fermarsi al 1945? 
"Ho scelto come sfondo il periodo su cui si concentra la mia ricerca presso l’Università di Tokyo. Ho constatato che tra il 1866 e il 1945 si è sviluppata tra i due paesi una vera e propria passione, di cui la parte finale, quella dell’alleanza e poi del conflitto mondiale, è solamente una tragica conclusione, non il logico risultato. Un’alleanza è politica e militare, quindi limitata. Invece la passione per l’arte e per la cultura è infinita. Penso che quella passione dei primi anni vada raccontata, ai giapponesi e agli italiani".
Ma dopo il 1945, il nuovo sistema di alleanze ha portato a un lungo periodo caratterizzato da una visione a blocchi. Oggi dove si sta andando? 
"Gli equilibri e i rapporti di forza cambiano sempre, ed è auspicabile che un paese sappia muoversi in quel contesto fluido senza dogmi o pregiudizi. Sempre con una chiara percezione di quali siano gli interessi nazionali, e quindi gli 'alleati naturali'. Oggi l’Occidente si trova a fare i conti con il forte protagonismo delle grandi potenze economiche dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina, e poi con le migrazioni, i problemi dell’ambiente. Ma in fondo non c’è nulla di nuovo".
Come arriva a questa conclusione? 
"Il tema su cui mi sto concentrando in questi mesi, anche se storico, è anche molto attuale. Gli effetti che la schiacciante vittoria nipponica sui russi nel 1905 ha avuto sui movimenti anti-colonialisti di tutto il mondo, sono stati dirompenti. E’ da allora che la tipica visione “a stella” dei rapporti internazionali, per la quale l’Europa intratteneva una serie di relazioni bilaterali 'ineguali' con i singoli paesi non-occidentali, ha iniziato a fare acqua. Da quel momento si sono moltiplicati i contatti diretti tra i paesi dell’Oriente, in funzione anti-coloniale. Si è sognata una visione non occidentale della modernità. Da questo punto di vista, il conflitto conclusosi nel 1945, quello che i giapponesi chiamano la guerra del pacifico, è solo una fase del più ampio processo di decolonizzazione. In fondo, vista da Oriente, la situazione attuale è una fase ancora successiva. Per questo bisogna guardare a come nel passato l’Italia, pur essendo un paese europeo, ha saputo giocare le sue carte".
Saprebbe farlo anche adesso? 
"L’Italia unita ha fatto il suo ingresso sulla scena internazionale quasi esattamente nello stesso momento del Giappone, negli anni ’60 dell’Ottocento, e da lì in poi ha saputo sviluppare verso il Giappone una posizione diversa, in un certo senso più evoluta di quella degli altri grandi paesi Europei. La nostra diplomazia ha saputo seguire una sua linea autonoma, mostrando una profonda capacità di analisi, apertura mentale, e un approccio moderno e “paritario” con una cultura così diversa come quella giapponese, sfuggendo alla presunzione e al complesso di superiorità che caratterizzava la linea delle potenze coloniali".
Perché questo libro e perché in giapponese?
"Trovo che questa nostra storia comune vada valorizzata, anche per rafforzare il rapporto di rispetto e di fiducia con un popolo che sempre mostra nei confronti dell’Italia una curiosità ed una fascinazione senza pari. E’ con questo spirito, con questa intelligenza e questo coraggio che arrivarono in Giappone a metà Ottocento i primi mercanti di seta piemontesi, oppure i commercianti di corallo e di perle di Torre del Greco. Ma spero di riuscire a pubblicare il libro anche in Italia, perché credo siano molti gli italiani appassionati dell’Oriente che si riconoscerebbero in questa avventura giapponese".
Che cosa rappresenta il viaggio in motocicletta e cosa è cambiato nella sua vita con la ricerca e il libro? 
"A Tokyo, mentre preparavo la documentazione per l’Università, ho ritrovato un diario che avevo scritto nel 2003, durante un lungo giro del Giappone in motocicletta. Mi sono reso conto, dopo dieci anni, che quel mio viaggio solitario alla ricerca di una libertà interiore, si è concluso solo adesso".

martedì 17 giugno 2014

Gli antifà, dunque...

Di Mario M. Merlino

Sabato 14 giugno l’ass. Ronin (in giapponese ‘l’onda’, equivalente a quel samurai che è privo di signori a cui prestare la propria opera) di Pisa aveva programmato la sua prima iniziativa culturale nel comune di Castelfranco di Sotto richiedendo una sala per la presentazione del romanzo di Roberto Mancini e Mario Michele Merlino dal titolo La guerra è finita. Sarebbero arrivati giovani e meno giovani da diverse località della Toscana e, va da sè, gli autori da Roma. I’incontro programmato da tempo con locandina riproducente copertina del libro luogo e ora dell’evento. Due giorni prima il sindaco, novello e reiterato don Abbondio minacciato dai bravi di don Rodrigo (‘questo matrimonio non s’ha da fare!’… che palle a scuola quel Manzoni che, se letto fuori dai banchi registro riassunto e interrogazione orale, forse avrebbe trovato giusta accoglienza), con linguaggio tipico da burocratico pause sottintesi giri di parole sguardi al cielo sguardi in basso mai direttamente negli occhi di chi si ha di fronte ha revocato, dispiaciuto e offeso, l’autorizzazione… ma i comitati antifascisti, parodia ormai tra lo stanco e il ridicolo venir fuori come le lumache – corna comprese – ogni qualvolta che nel cielo burrascoso della ‘resistenza’ s’è addensata pioggia, hanno annunciato con volantino disinformato e sgrammaticato, un presidio in risposta all’oltraggio che si stava per perpetrare…

Sono, dunque, restato a casa evitando il treno il caldo copie del libro da vendere. E, a sera, fino a Maccarese, alla festa di Comunitaria dove, anno dopo anno, le varie realtà romane – e non solo – si ritrovano in tre giorni per ascoltarsi riconoscersi fare musica bere birra e scoprire come l’identità è più tenace di tante effimere diversità (quella ‘cultura e territorio’ di cui mi piace parlare da tempo e sovente). Poi, tornato a casa, a mezzanotte, a vedere la Nazionale battere quella inglese – lo so che questa Italia poco o nulla mi appartiene e che avrei preferito trasformare ‘la perfida Albione’ in una colonia per ‘i figli della lupa’ e non dover applaudire Balotelli mettere in rete il pallone –. Lo so, ma il filosofo Hegel riteneva che a nessuno è concesso sottrarsi al principio di gravità (leggasi tempo e circostanze), pur se ci rimane il diritto di preservare i sogni mantenere gli ideali e metterci in cammino per travalicare l’ultimo orizzonte (questo l’aggiungo io che ho sempre privilegiato il vagabondo – ‘il viandante di Nietzsche e la canzone dei Nomadi –).

Gli antifà, dunque… Vale la pena parlarne? Beh, a volte, mi duole che non si abbia più l’ardire, forse incauto e goliardico, forse elementare e sciocco, forse debole in analisi ed eccessivo nella sintesi, di sentire l’adrenalina che ti attraversa il corpo equilibrare il peso della spranga in mano umettarti le labbra lanciare il grido di battaglia e lanciarsi avanti, pochi poco conta e nulla conta quanti ne hai davanti… Impietosa l’anagrafe, evidente nel fisico, fuori dal presente probabilmente, altro il nemico reale… Eppure la mente e il cuore, folli e disperati, ti sussurrano antiche canzoni…

Gli antifà, dunque… Vale la pena parlarne? In fondo sono i nipoti dello scempio di piazzale Loreto, i figli del ‘sangue sparso’ degli anni ’70. In formato e modello ‘corte dei miracoli’, un campionario di ebeti sciancati ciechi monchi sdentati lerci e male odoranti di borghesi dalla puzza sotto il naso e la sigaretta d’erba cosce e natiche incrostate di sperma e di sangue mestruale. (Mi raccontava Alberto Franceschini che, quando decisero con Curcio e Mara Cagol di sequestrare un dirigente Cisnal della FIAT – la prima azione di lotta armata –, si rifecero a modalità e numero esatto di componenti del commando basandosi fedelmente su quanto narravano loro i ‘vecchi’ partigiani che frequentavano le sezioni del PCI e si facevano vanto a Reggio Emilia… Ieri mattina, in poltrona e con Frodo che mi leccava appassionatamente il collo, Giacinto Reale mi ricordava di aver assistito ad una ‘compagna’ che, toltasi le scarpe, picchiava in testa un camerata caduto a terra e già sanguinante, in quella maledetta mattina del 16 marzo ’68, università di Roma. Ed era solo l’inizio, una sorta di timido annuncio dell’orrore brutalità ferocia che gli anni successivi, per oltre un decennio, avrebbero caratterizzato lo scontro).

Gli antifà, dunque… Vale la pena parlarne? Sono al supermercato, in fila alla cassa. Mi si mettono dietro in tre – zecche o sbirri travestiti da zecche. Uno, quello che ha l’aspetto di chi dirige il gioco (o almeno ha la pretesa), mi indica agli altri. Per farli incazzare chiedo loro se sono ‘guardie’. Pago esco sta piovendo corro verso la fermata del tram. Mi vengono dietro e si fanno forti perché pensano che stia scappando. Mi fermo e torno indietro. Sia mai che dia loro l’idea che me la batta. Stronzi – e stronzo io che mi becco tutta l’acqua… Il demente di turno mi da del ‘nazista’ come se fosse un insulto. Il ‘capo’ lo trattiene e si illude di mettermi confusione in testa, distinguendomi, secondo lui da stragisti tipo Roberto Fiore o Stefano delle Chiaie. Inchiodati ad un patibolo di luoghi comuni suggestioni menzogne archeologie città sommerse dal deserto polvere dei secoli geroglifici…

Gli antifà, dunque… Eppure, il prossimo sabato, il pomeriggio del 21, sarò a parlare di quel primo marzo 1968, davanti alla facoltà di Architettura, a Valle Giulia. Immortalati in quel poster, divenuto icona della stagione  della contestazione, realizzato dalla rivista Quindici con il titolo enfatico di La battaglia di Valle Giulia, dove siamo in prima fila con i nostri coetanei di sinistra, magari un po’ arretrati. Senza nascondimenti provocazioni o altro, convinti che quella rivolta generazionale potesse essere ‘soltanto l’inizio’ e che bisognasse accelerare i venti del cambiamento. Un sogno infranto, certo e nostro malgrado, ma i sogni, quel tipo di sogni, non si dissolvono con le luci del giorno non si rinnegano se, poi, qualcuno volle renderli incubo, non perdono d’intensità se… gli imbecilli, come i comitati antifascisti di Pisa e dintorni, vogliono tranciare il mondo in due e tenere distinti il rosso dal nero (distinzione che, nel cielo delle idee, è meritevole d’essere, ma non nella prassi necessariamente). Ignari, non potrebbe essere altrimenti, che insieme al bianco rappresentano qualcosa di ben più alto ed altro di ideologie movimenti uomini contro…

sabato 14 giugno 2014

Vi chiederete: "Come mai?"....




Se il buongiorno si vede dal mattino, c'è molto di cui preoccuparsi.
Gabriele Toti (sindaco di Castelfranco di Sotto) con la sua giunta, fresca di nomina, non concede la sala dell'Orto di San Matteo a Ronin Pisa e Fratelli d'Italia per la presentazione del libro "La Guerra è finita" di Mario Michele Merlino e Roberto Mancini.

Una scelta annunciata verbalmente, a distanza di una settimana dalla conferma, anche questa verbale, della concessione della sala.
Oggi ne apprendiamo la motivazione ufficiale: "considerato il programma della manifestazione reso pubblico, come già anticipato per le vie brevi l'Amministrazione ha deciso di non concedere l'utilizzo della sala." E tanti 
saluti.

Il programma della manifestazione è, si pensi bene, la presentazione di un libro del Prof. Merlino, insegnante di storia e filosofia, evidentemente ritenuto idoneo dallo Stato a plasmare le menti di giovani studenti, ma non dall'amministrazione castelfranchese a presentare un romanzo che tratta delle vicende di due volontari della Repubblica Sociale Italiana.

Questa è la garanzia, costituzionalmente sancita, della libertà di parola e di espressione che Gabriele Toti e la sinistra del nostro comune offre; è bene che tutti sappiano che, da qui in avanti, gli spazi pubblici castelfranchesi saranno concessi solo alle iniziative conformi ed allineate con il programma del PD, evidentemente divenuto una sorta di Tavola delle Leggi che si pone, nella scala gerarchica delle fonti normative, in posizione addirittura superiore alla tanto celebrata costituzione repubblicana.

Sì, abbiamo amaramente scoperto che la correttezza ed il fairplay che il Sindaco Toti ha tentato di mantenere in campagna elettorale, erano esclusivamente di facciata; si informa una associazione del diniego della concessione della sala a poco più di 24 ore dall'iniziativa.

Ne prendiamo atto; a Castelfranco non si possono svolgere, nelle sale pubbliche, iniziative culturali non conformi e allineate con i benpensanti della giunta comunale di sinistra. Sì, perchè di sinistra è;  la linea che emerge da questa vicenda ha una provenienza chiara, dettata da personaggi che, evidentemente, a distanza di 70 anni ancora hanno paura di parlare di argomenti scomodi.

Ovviamente la nostra attività proseguirà con più entusiasmo ed energia; lo spazio a Castelfranco c'è, anche senza bisogno delle Sale Pubbliche e delle autorizzazioni dei perbenisti di turno.

Corre l'obbligo di dedicare un ultimo passaggio, se non un ringraziamento, ai gruppi dei servi del capitale, i sinistrorsi dell'ultima ora che, già da venerdì, hanno scatenato inutili polemiche sui quotidiani, minacciando le loro rivoluzioni di pastafrolla e la mobilitazione in paese, per scongiurare che nel rosso comune anche soltanto si nominasse  la Repubblica Sociale Italiana. A questi personaggi, che in un paese "normale" dovrebbero essere arginati da un'amministrazione comunale non vigliacca, vanno i nostri più sentiti ringraziamenti perchè ancora una volta, in ogni caso, si parla di noi.

Quanto a noi, avanti, senza paura, e a breve aggiornamenti sulla prossima iniziativa.

mercoledì 11 giugno 2014

Indicazioni per una nuova cultura di Destra...


di Adriano Romualdi

Quali problemi si pongono a coloro che vogliono affrontare il problema della cultura di Destra? Innanzitutto, si rende necessaria una corretta impostazione del problema. E il primo contributo a questa impostazione è la definizione dei rapporti che corrono tra Destra e cultura. Bisogna mettere in chiaro che, per l’uomo di destra, i valori culturali non occupano quel rango eccelso cui li innalzano gli scrittori di formazione razionalistica. Per il vero uomo di destra, prima della cultura vengono i genuini valori dello spirito che trovano espressione nello stile di vita delle vere aristocrazie, nelle organizzazioni militari, nelle tradizioni religiose ancora vive e operanti. Prima sta un certo modo di essere, una certa tensione verso alcune realtà, poi l’eco di questa tensione sotto forma di filosofia, arte,letteratura.

In una civiltà tradizionale, in un mondo di destra, prima viene lo spirito vivente e poi la parola scritta. Solo la civilizzazione borghese, scaturita dallo scetticismo illuministico, poteva pensare di sostituire allo spirito eroico ed ascetico il mito della cultura, la dittatura dei philosophes. Il democratico ha il culto della problematica, della dialettica, della discussione e trasformerebbe volentieri la vita in un caffé o in un parlamento. Per l’uomo di destra, al contrario, la ricerca intellettuale e l’espressione artistica acquistano un senso soltanto come comunicazione con la sfera dell’essere, con un qualcosa che — comunque concepito — non appartiene più al regno della discussione ma a quello della verità. Il vero uomo di destra è istintivamente homo religiosusnon nel senso meramente fideistico-devozionale del termine, ma perché misura i suoi valori non col metro del progresso ma con quello della verità.
«Essere conservatori — ha scritto Moeller van den Bruck — non significa dipender dall’immediato passato, ma vivere dei valori eterni».
La cultura e l’arte di destra non possono pretendere di essere loro stesse il tempio, ma solo il vestibolo del tempio. La verità vivente è oltre. Di qui una certa diffidenza del genuino uomo di destra nei confronti della cultura moderna, un disprezzo impersonale per il volgo dei letterati, degli esteti, dei giornalisti. Si ricordino le parole di Nietzsche: «Una volta il pensiero era Dio, poi divenne uomo, ora si è fatto plebe. Ancora un secolo di lettori e lo spirito imputridirà, puzzerà».
Di qui l’ostilità del Fascismo e del Nazismo al tipo dell’intellettuale deraciné. In essa non c’è solo la rozza diffidenza dello squadrista e del lanzichinecco per le raffinatezze della cultura ma anche l’aspirazione ad una spiritualità fatta di eroismo, fedeltà, disciplina, sacrificio. José Antonio raccomandava ai suoi falangisti il «sentimento ascetico e militare della vita».

Fatta questa premessa, consideriamo più da vicino il compito di animare una cultura di destra. Il fine, lo abbiamo detto, è la costruzione di una visione del mondo che si ispiri a valori diversi da quelli oggi dominanti. Non teoria o filosofia, ma « visione del mondo ». Questo lascia un largo margine di libertà alle impostazioni particolari. Si può lavorare a creare una visione del mondo di destra sia da parte cattolica che da parte «neo-pagana», sia proiettando il mito novalisiano dell’Europa-Cristianità che sostenendo l’identità Europa-Arianità.

Un esempio modesto, ma interessante, di questa concordia discors ci è offerto dalle riviste giovanili del primo neofascismo. Cantieree Carattere da parte cattolica, Imperium eOrdine Nuovo da parte evoliana hanno contribuito non poco a un processo di revisione di certi miti borghesi e patriottardi caratteristici della vecchia Destra. Queste riviste, ed altre che non abbiamo nominato (Il Ghibellino, Barbarossa, Tradizione etc.) contribuirono — pur con dei grossi limiti — ad avviare un certo discorso. Esse dovettero tutto o quasi tutto a colui che si può ben definire il maestro della gioventù neofascista: Julius Evola.

Senza libri come "Gli uomini e le rovine" e "Cavalcare la Tigre" non sarebbe stato possibile mantenere libero a destra uno spazio culturale. Ma Evola è un grande isolato, e la sua opera giace ormai alle sue spalle. Occorrono nuove forze creatrici, o almeno un’opera di diffusione intelligente. Vanno coltivati i domimi particolari della storia, della filosofia, della saggistica. Va tentato qualcosa sul piano dell’arte. Non per nulla Evola ha paragonato la tradizione ad una vena che ha bisogno di innumerevoli capillari per portare il sangue in tutto il corpo.

martedì 10 giugno 2014

Nicolino Bombacci...

di Mario M. Merlino

Lunedì 2 giugno, piazza del Popolo. All’ombra della torre del municipio, simbolo di Latina, della Littoria della bonifica.. I gazebo con i libri fanno come una sorta di corona al salottino dove si svolgono gli incontri letterari. Pomeriggio di sole, aria di mare. Presentiamo, Roberto ed io, La guerra è finita. Mezz’ora in tutto, lasciando maggior spazio a Carla che s’è prestata ad introdurci. Mi aggiro, poi, a curiosare in attesa della sera, una pizza, e il rientro a Roma. Trovo un tascabile della Historica edizioni, dalla copertina intrigante, il tricolore svettante e con al centro il fascio e la falce, dal titolo Nicola Bombacci, tra Lenin e Mussolini. L’autore è un giovane ricercatore Daniele Dell’orco, laureando all’università di Tor Vergata. L’acquisto. Il merito di questo libricino, centosessanta pagine in formato ridotto e con i caratteri robusti (ottimo per i miei occhi!), lo si trova in poche righe alla pagina 8: ‘La coltre di silenzio calata sul nome di Bombacci è forse ancora più infamante dell’appellativo di super traditore’…

Già. Eppure era stato appeso a testa in giù alla pompa di benzina in quello scempio che fu piazzale Loreto, volendo restare vicino all’amico Benito, prima compagno di battaglie socialiste e Duce poi del fascismo. Fra i fondatori del partito comunista, al teatro San Marco di Livorno, gennaio 1921, stimato dallo stesso Lenin con cui ebbe colloqui privati. Ebbene, in quei giorni di tragedia dell’aprile ’45, egli volle seguirne la sorte là, lungo la spalletta del lago di Como, accanto ai fedelissimi dell’ultima ora con il pugno chiuso levato e il grido strozzato verso la fede nel socialismo e in nome dell’amicizia per Mussolini. Avverso in vita e in morte, negata la memoria, sia da parte dei suoi compagni, che ne spurgarono il nome nelle rievocazioni apologetiche della nascita del partito, sia nell’ambito della destra che aveva sposato, nel dopoguerra, tutto il ciarpame borghese e messo in soffitta quanto di ‘rivoluzionario’ il fascismo aveva proposto e tentato di realizzare…

Io stesso – e mi duole ammetterlo – in questi interventi ne ho trascurato di ricordarne la vicenda umana politica di idee… E nell’esperienza giovanile prima nella Giovane Italia, brevemente nel MSI e, infine, all’università il nome di Nicolino, come lo chiamava affettuosamente Mussolini, appariva assai raramente. Troppo pervasi, noi, di anticomunismo, di scontri davanti le scuole in strada a piazza della Minerva de La Sapienza, lenti a intendere come il nemico vero era un altro – quello che oggi, spudoratamente, fa bella mostra di sè, avendo fagocitato sia la sinistra sia la destra, comprando le loro avversioni reticenze radici con la camicia intonata alla cravatta, il salotto della Roma-bene, gli appalti le finanziarie le poltrone e spalmando su tutto e tutto il grigio putrido della corruzione…

E, forse, sta anche qui il silenzio, la pietra tombale, che ricopre la figura di Bombacci. Il disagio di confrontarsi non tanto con un uomo che fu amico di Lenin e andò consapevole a morire a fianco di Mussolini quanto con un ‘galantuomo’ (la definizione appartiene a Dell’orco e noi la condividiamo volentieri), un uomo che non volle e non ebbe incarichi, vivendo sempre al limite dell’indigenza, fedele di fatto all’ideale di riscatto del proletariato e dei suoi bisogni e della sua dignità, figlio di quel socialismo che animò il nostro paese già dalla metà dell’Ottocento e a cui lo stesso Mussolini, pur con i troppi compromessi con la monarchia la chiesa gli industriali, rimase legato e che tentò di rinverdire nel momento più cupo della nostra storia (cupo tragico ma anche esaltante e degno d’ogni nostro sentire…). Essere coerenti, anteporre l’ideale agli interessi pratici, vivere nel disprezzo dei beni ed essere pago di servire la mente ed il cuore è moneta svalutata, di pessimo conio agli occhi dei servi degli usurai…

‘Voi vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista, amico di Lenin, di vent’anni fa. Sissignori, sono sempre lo stesso, perché io non ho mai rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica Sociale Italiana, è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è veramente decisi di rivendicare i diritti degli operai…’ (primi giorni di marzo del ’45, discorso pronunciato davanti agli operai dell’Ansaldo).

Cresciuto nella Romagna, ove forti sono le passioni i legami l’amicizia e i contrasti, egli si avvia sulla strada di quella lotta politica che lo metterà in contatto con Mussolini, entrambi maestri, entrambi fautori di quella linea radicale che male sopportava e digeriva l’ala riformista di cui si faranno fautori dell’espulsione al congresso di Reggio Emilia del 1912. Entrambi si rifanno all’altro romagnolo che fu Alfredo Oriani, che ne forgiò con i suoi scritti l’animo ardente e la profezia di una ‘aristocrazia dello spirito’, che nel futuro Duce divennero i giovani in camicia nera e che in Bombacci rappresentavano l’avanguardia di popolo in armi. Lo stesso Pietro Nenni, storica figura del socialismo nel dopoguerra, anch’egli romagnolo e di cui, si dice, che in esilio in Francia ricevesse denaro dal suo vecchio compagno tramite l’OVRA. E l’elenco potrebbe continuare. Io stesso, trascorsa gran parte della mia infanzia e giovinezza sulla costa romagnola, confermo la presenza di una sorta di ‘romagnolità’ tacita e tenace…

Mentre Mussolini si muove, prima da direttore della redazione milanese de L’Avanti e poi, dopo la sua espulsione, attraverso le pagine de Il Popolo d’Italia, verso l’intervento e la consapevolezza della Grande Guerra come fenomeno rivoluzionario, Nicolino tende al contrario a radicalizzare le sue posizioni convinto che sarà, sempre e comunque, il proletariato a pagare in sangue e lavoro. Ed ecco apparire in Russia Lenin, artefice principale della rivoluzione bolscevica, aprire il sogno – sovente una illusione – di poter realizzare qualcosa di analogo in tante parti d’Europa. Italia compresa. E la conclusione del conflitto sembra dare ragione al socialismo – soli contro tutti –. Già nel 1913 Bombacci si era rivolto ai suoi compagni, ammonendo come fosse di certo ‘Meglio la solitudine ideale che fortifica, piuttosto che i connubi degenerati che sfibrano’ (e quanti ne abbiamo subiti di ‘connubi’ con la giustificazione che poi, poi si sarebbero realizzati ‘dal di dentro’ i nostri sogni i nostri ideali… di questa destra simile ad assetati nel deserto in cerca di un’oasi ove scoppiare per il troppo bere!).

La coerenza, dunque, e prima di tutto e in ogni caso. E, ancora una volta, la consapevolezza che, essendo il fascismo complessità – e non, come dà da intendere Renzo De Felice che lo trasforma in un contenitore vuoto ad uso personale e di comodo del Duce –, sta a noi riconoscere le componenti con cui confrontarci e da cui continuare il cammino. ‘Immenso e rosso’, di quel fascismo proletario quale ricerca di una via nazionale al socialismo e capace di incarnare il suo anticonformismo, l’essere antiborghese, avere in privilegio l’irriverenza al confine dell’eresia… Ecco: quando il Duce si prepara a lasciare Milano e sale in automobile, a fianco gli siede il vecchio amico e compagno, sereno e consapevole d’essere parte di quell’immensa tragedia che si consumerà lungo il lago di Como. Così, mentre la destra si manifesta immergendo fino ai gomiti l’avidità l’incuria l’inconsistenza, c’è chi sa riconoscere coloro che gli sono maestri e gli camminano a fianco…

lunedì 9 giugno 2014

“Sangue sparso”, il film su Acca Larentia che svergogna una generazione di magistrati...



da IL SECOLO D'ITALIA

Quando li ammazzarono a sangue freddo lei aveva sette anni. Caddero sul selciato di via Acca Larentia Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta quel tardo pomeriggio del 7 gennaio 1978 mentre cercavano, disperatamente, di sfuggire a quella pioggia di proiettili che gli arrivava addosso. Poche ore dopo toccò a Stefano Recchioni. 

Trentasei anni dopo quella strage che segnò un punto di non ritorno nella lotta politica divenuta mattanza, Emma Moriconi, quel giorno una bambina di sette anni e oggi regista quarantatreenne, cerca di ricostruire attraverso l’atto coraggioso di un film – la sua opera prima – sui morti di destra qualcosa che nessuno ha mai fatto finora, quello che accadde prima, durante e dopo quegli omicidi. La chiave per aprire il forziere che custodisce la memoria collettiva di episodi che molti, troppi, ad iniziare dal sindaco Marino, si rifiutano ostinatamente di leggere con lo sguardo teso alla verità, è, appunto, un film. Romanzato. Ma terribilmente aderente alla realtà di quegli anni, alla cronaca di quello che accadde quel giorno tremendo fra la porta in ferro della sezione di via Acca Larentia e le scale che Francesco Ciavatta cercò, disperato, di guadagnare per uscire sulla strada. E sperare così di salvarsi dalla morte certa. Sangue sparso si chiama il film. Lo proietteranno in anteprima il 12 giugno prossimo al cinema Lux di via Massaciuccoli, a Roma. E poi via via in altre sale in Italia.

Racconta la storia della strage con un flashback. Un uomo passeggia pensieroso per il quartiere romano del Tuscolano, i suoi ricordi corrono a trent’anni prima. E prendono forma via via. Le contrapposizioni, gli scontri, i volantinaggi con il rischio quotidiano di essere ammazzati. I camerati morti, quel sangue sparso sul selciato. Una, due, tre, decine e decine di volte. Ma, d’altra parte, lo slogan più urlato era “Uccidere un fascista non è reato”. Finì così che troppi morti non ebbero mai giustizia. Sarebbe stato persino facile trovare e prendere i colpevoli di quegli omicidi. Ma non fu fatto. E fatalmente, di fronte all’ingiustizia, ideologica, palese, vigliacca, testardamente a senso unico, sangue chiamò sangue. «Volevo raccontare queste storie viste dall’altra parte anche se per me – dice la regista Emma Moriconi che è anche sceneggiatrice e autrice del soggetto – quando muore un giovane, di destra o di sinistra, è sempre una tragedia. In questi casi sono tutte vittime innocenti, vittime per caso. Militanti che volevano combattere per un’idea». «Di quegli anni – aggiunge Emma Moriconi – si ricordano solo fatti come il caso Moro, la strage di Bologna. E di tante vittime invece non si parla mai. La cosa che mi inorgoglisce davvero è il riconoscimento del mio film come opera di interesse culturale da parte dei Beni Culturali, sono davvero grata al ministero. Vuol dire che non è mai troppo tardi riappropiarsi di una parte trascurata della storia».

«Ho vissuto quegli anni – gli fa eco Francesco Storace – e mai avrei immaginato che ci sarebbe stata la possibilità di tradurli in un’opera riconosciuta di interesse culturale persino dal ministero competente». Chissà se, nelle ultime file, nascosto dal buio del cinema, a vedere Sangue sparso si siederà qualcuno di quei magistrati che, vergognosamente, negarono giustizia a quei tanti morti, a quel sangue comunque sparso non invano.

mercoledì 4 giugno 2014

La bellezza di una bandiera...


Di Mario M. Merlino

Il mio amico con lo pseudonimo di  Max Stirner – e collega con il suo vero nome di Johann Kaspar Schmidt – amava dire come, se la memoria non mi fa difetto, egli avrebbe trovato sempre dei compagni senza aver bisogno di sottostare ad una bandiera, tessera distintivo divisa li aggiungo io. Prima che l’altro mio amico, più caro, Friedrich Nietzsche, compisse un anno (1844), questa affermazione era apparsa su l’Unico (Der Einzige und sein Eigentum, in tedesco suona decisamente più maestoso, rullo di tamburi scintillio di coltelli nella notte, e poi, diciamola tutta, mi rende meno accattone per via e più professore in pensione). Fra una birra e l’altra da Hippel nella Friedrichstrasse, Berlino, in astiosa compagnia di Marx ed Engels che lo dispregiavano, lo derisero e ne scrissero contro, al limite dell’insulto. (Su questa avversione forse sarà il caso di tornarvi in altra occasione perché un motivo vi sarà se i profeti del comunismo tanto vi si accanirono – e per lunga data solo le loro critiche ossessive ci parlavano dello Stirner –, mentre la censura prussiana nulla ebbe da obiettare alla pubblicazione del libro, ritenendolo innocua farneticazione).

E già… Max e il successivo padre di Zarathustra ci hanno educato a non prenderli – e prenderci, ahimè! – troppo sul serio, ma sapere che, senza di loro, saremmo stati tutti noi, ai confini dell’eresia, di certo più poveri e meno audaci e liberi. Quel ‘prendere la distanza’, efficace metodo per un risguardo complessivo e completo dello spazio percorso…  per, poi,  magari tornare indietro e darci una collocazione là dove quella visione ci lasci traccia estrema e indelebile. Anche questo motivo da rammemorare e affrontare in qualche altro momento di queste notti insonni e arruffate. E, anche qui, prima de Il viandante e la sua ombra, Stirner s’era accomunato ‘alla tribù degli individui pericolosi’, a coloro che non offrono di sè alcuna garanzia, non hanno niente da perdere e tutto vanno rischiando, perché – sono sue parole – ‘esistono dei vagabondi dello spirito che, soffocati sotto il tetto che abitavano i loro padri, vanno a cercare lontano più aria e più spazio. Invece di restare in un angolo del focolare domestico a rinnovare le ceneri di una opinione moderata, invece di ritenere per delle verità indiscutibili ciò che ha consolato e placato tante generazioni prima di loro, essi frangono la barriera che chiude il campo paterno e se ne vanno, per i cammini della critica, ove li mena la loro indomabile curiosità di dubitare’…

Torniamo, però, a quell’essere una comunità d’intenti senza abbisognare di adesioni formali simboli e quant’altro. La storia s’è mostrata difforme e ha richiesto almeno una bandiera, magari soltanto un frammento uno straccio di seta, ideale o di stoffa e, per essa, milioni di uomini hanno marciato e lottato e sofferto e gioito vinto o perso, più generazioni, popoli interi. Le bandiere nazionali, d’ogni singola Patria, quelle rosse poetate da Vladimir Majakovskij, ad esempio, o quelle a noi più care ove ricorrono il rosso il bianco e il nero. Una bandiera che sappia raccontare di eroi e di martiri, di canzoni e poesie e danze e costumi, cielo terso o nuvoloso, vaste pianure e boschi e monti e fiumi e coste bagnate dal mare.

(Enrico di Borbone chiese, quale condizione per tornare a sedere sul trono di Francia che si ripristinasse il vessillo della sua dinastia, tutto bianco con i gigli d’oro in alto. Ciò apparve così intollerabile, anche ai suoi sostenitori che, oramai, avevano accettato si riconoscevano avevano giurato fedeltà al tricolore della Rivoluzione, ove s’accorpavano al bianco della Casa Reale il rosso e il blu della municipalità parigina, che non se ne fece nulla). (A pagina 39 dell’edizione italiana, Longanesi 1954, del Der Fragebogen, il questionario letteralmente, tradotto con il titolo Io resto prussiano, Ernst von Salomon scrive: ‘Io sono prussiano. I colori della mia bandiera sono il nero e il bianco. Essi annunciano che i miei maggiori morirono per la libertà ed esigono da me che, non soltanto quando splende il sole, ma anche nei giorni scuri, io sia un prussiano’. Quella bandiera, tutta bianca con la croce allungata originaria dei cavalieri teutonici si trova appesa a capo del mio letto. E aggiungo quella della Confederazione sudista, della Repubblica sociale e quella da combattimento del Giappone fino al 1945, ed altre ancora…).

C’è oggi una bandiera brutta inutile priva di pathos conosciuta ai pochi e pur d’obbligo negli edifici pubblici. E’ la bandiera dell’Unione Europea (questo mio contributo va a commento delle recenti elezioni). E, qui, va da sè, non ci poniamo sul terreno dell’estetica, sebbene ‘gli eroi sono tutti giovani e belli’, come canta Francesco Guccini ne La locomotiva. Brutta e inutile perché retta da principi finanziari da interessi commerciali da una visione esclusiva dell’economia liberista da un parlamento la cui funzione appare subordinata a scelte che avvengono all’interno di esclusivi ristretti consigli d’amministrazione di circoli decisionali affaristici. Il denaro non ha patria, si dice, ma fino alla metà del ‘900 era uno degli elementi che caratterizzavano l’indipendenza di uno Stato (mi viene a mente che, nella Italia della guerra civile, a Nord circolava la lira, quella coniata prima del 1943, a Sud la am-lira, la moneta cioè d’occupazione…).

Le bandiere… Affermava l’imperatore Carlo V che, se in battaglia dovesse cadere la bandiera e, contemporaneamente, il proprio cavallo, egli avrebbe raccolto prima la bandiera e poi il cavallo. I giovani sabotatori della RSI si annodavano la camicia nera alla vita, sotto gli indumenti civili, per poterla indossare qualora catturati, ad esempio, in località Sant’Angelo in Formis, nel comune di Santa Maria Capua Vetere. Ed io possiedo, gelosa reliquia, un frammento di una di quelle camicie quando vennero riesumati i corpi di quei sfortunati eroici combattenti. (Forse qualcuno ricorda l’episodio del tenente di vascello Christian Sluetter ne Una ballata del mare salato di Hugo Pratt, il disegnatore di Corto Maltese – e, credo, non sia casuale che egli, a Venezia, avesse tentato di arruolarsi nella Decima MAS dopo l’8 di settembre 1943).

Ecco perché mi sento, protetto da tanti episodi vicende esaltanti, di poter affermare di trovare brutta ed inutile la bandiera della UE (antiestetica e non mi si accusi di contraddizione perché un’Idea per cui vale la pena di riconoscersi e sacrificarsi è come quelle descritte da Platone e giuste e vere e belle… Ed ecco perché gli ‘amici’ Max e Friedrich mi confortano con il loro nichilismo nel cammino di vita e di battaglie anche senza l’ombra di una bandiera, se non mai ammainata quella riposta nella mente e nel cuore.

martedì 3 giugno 2014

2 giugno. L’appello dei marò Latorre e Girone dall’India: “Soffriamo con dignità. Da italiani”...


di Francesco Filippazzi e Fma (Barbadillo)

Decisi e fermi al loro posto, due soldati italiani di cui andare orgogliosi. Questi sono Salvatore Girone e Massimiliano Latorre nel video messaggio inviato agli italiani in occasione del 2 giugno, festa della Repubblica. Parlano di onore, mantenimento della parola data, dignità dei militari che operano del mondo e della nostra bandiera. ”Abbiamo ubbidito a un ordine, abbiamo mantenuto una parola e oggi siamo ancora qui”, ha spiegato Salvatore Girone ricordando come ”quello che noi possiamo fare è comportarci da militari e italiani: soffrire con dignità nell’attesa che questa storia abbia termine”. Dopo due anni di prigionia in India, i due marò non hanno perso la speranza di tornare nel paese natio, non si arrendono e ribadiscono la propria innocenza. Massimiliano Latorre: “”Chiedo scusa per l’emozione ma non sono solito avere questo onore e voglio approfittare per estendere gli auguri al comandante delle Forze Armate, al Presidente e a tutti i nostri colleghi attualmente impegnati all’estero e a quelli che operano in Italia. E a tutti gli italiani”.


Ma anche durante le celebrazioni per la festa della Repubblica, i riferimenti alla detenzione indiana dei due soldati italiani non sono mancati. A Roma, durante la sfilata delle Forze Armate, alcuni manifestanti hanno indossato delle magliette con la scritta “Marò Liberi” e l’applauso più sentito e scrosciante è stato dedicato dal pubblico al passaggio della Brigata San Marco, mentre i militanti di Fratelli d’Italia hanno esposto uno striscione. Gesti simbolici, che fanno capire come il popolo italiano abbia fatto propria la vicenda, tanto che le iniziative di sostegno ai marò si sono susseguite in varie città per tutta la giornata.

Dal canto loro le istituzioni cercano di lanciare messaggi rassicuranti e il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha spiegato che ormai la crisi è stata internazionalizzata e che, se i rapporti con il nuovo governo indiano non saranno positivi, l’Italia ricorrerà all’arbitrato internazionale. Polemici i toni di Fratelli d’Italia, che non hanno partecipato all’audizione parlamentare durante la quale hanno parlato Girone e Latorre in streaming, mentre il Movimento 5 Stelle in una nota ha dichiarato che il governo è “indegno” e che i due soldati sono vittime di un “disastro diplomatico”.