lunedì 11 agosto 2014

11 AGOSTO: IN CENTO A TRESPIANO PER I CADUTI DELLA RSI...




Firenze, 11 agosto. Una lunga fila di gente, quasi un centinaio di persone, il silenzio, una lapide di marmo con tanti nomi scritti sopra. Il sacrificio, l'onore, la dignità di una lotta vera, eroica, mistica. Alcuni reduci, molti ragazzi. Parole toccanti, letture, testimonianze e ricordo. Nessuna "celebrazione ufficiale", nessun gonfalone, nessuna passerella politica: sulla tomba del "torto" ci va solo chi crede.

Nonostante le tante persone in vacanza la commemorazione in ricordo dei caduti della Rsi, organizzata da Casaggì nel giorno della cosiddetta "liberazione" di Firenze, è stata un successo assoluto. La sinistra fiorentina, che aveva invocato addirittura i manganelli della polizia per impedire l'evento, deve ancora una volta rassegnarsi dinanzi ai fatti.

Ci siamo e ci saremo sempre. Porteremo avanti questo testimone di padre in figlio. Fatevene una ragione.

venerdì 8 agosto 2014

Knut Hamsun il Nobel che sognava una confederazione europea...


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di Amerigo Griffini (Barbadillo.it)

Il 4 agosto 1859 nasce a Lòm, in Norvegia, Knut Hamsun. Di famiglia contadina, trascorrerà l’infanzia nel Nordland, la contea norvegese che con le sue bellezze naturali, le foreste, i fiordi e le aurore boreali, determinerà il suo immaginario; ambiente che trasferirà nei suoi lavori letterari. Condurrà una vita errabonda, facendo i mestieri più disparati: carbonaio, calzolaio, spaccapietre, maestro di scuola, operaio, commesso, venditore ambulante, giornalista. Dopo un iniziale successo con la pubblicazione di “Misteri”, precipiterà nuovamente nell’anonimato. Nel 1882 si imbarcherà su un battello, diretto negli Stati Uniti, dove conoscerà la miseria più nera e la fame e dove proseguirà la serie dei lavori della sopravvivenza: muratore, guardiano di maiali, agricoltore nel Dakota, tranviere a Chicago….. Tornato in Scandinavia, si stabilirà a Copenaghen dove vivrà in una mansarda e continuerà il suo rapporto con la fame. La pubblicazione di alcuni suoi scritti (anonimamente) su un giornale locale, grazie ad un amico di Nietzsche, gli consentirà finalmente di cambiare il corso della sua vita. Nel 1890 uscirà “Fame” e il grande pubblico dei lettori conoscerà la grandezza di Hamsun. In “Fame” evocherà il raffronto tra la dimensione cosmica della società contadina e la frantumazione dell’uomo nella società industriale. Nel pamphlet “La vita culturale dell’America moderna” traccerà chiaramente (anche se ironicamente) il suo giudizio negativo sugli USA e la sua avversione per il mondo anglosassone; antiamericanismo che sarà anche la base delle sue idee politiche. Durante la Prima guerra mondiale si schiererà dalla parte degli Imperi Centrali. Nel 1920 otterrà il Premio Nobel per il romanzo “Markens Grode” (Il risveglio della terra). Negli anni ‘30 sarà vicino al Nasjonal Samling, il maggiore dei partiti nazionalsocialisti norvegesi. (controversa resterà la sua adesione o meno al partito). La visione “geopolitica” hamsuniana sarà incentrata sull’idea di una Norvegia indipendente in una comunità nordica alleata del Grande Reich germanico e della Russia in una confederazione europea. Durante la Seconda guerra mondiale sosterrà la campagna di arruolamento di volontari nella Legion Norske. Suo figlio Arhild, si arruolerà volontario nelle Waffen-SS norvegesi e combatterà sul Fronte dell’Est. Nel 1943 parteciperà al congresso degli scrittori europei (dei fascismi) a Vienna. Incontrerà anche Adolf Hitler al quale chiederà di ritirare dalla Norvegia il Reichskcommissar Josef Terboven. Dopo la guerra subirà un processo per il suo impegno intellettuale a favore degli sconfitti nel suo Paese. Dopo due anni di detenzione gli sarà consentito di ritirarsi nella casa di campagna dove proseguirà la sua attività letteraria. Anche la moglie sarà condannata ai lavori forzati. L’ultima sua opera sarà “Sui sentieri dove ricresce l’erba”. Il vagabondo e ribelle Hamsun morirà nel 1952.

giovedì 7 agosto 2014

Un democristiano con i piedi nel secolo scorso...


di Fabrizio Maggi (L'intellettuale Dissidente)

Avere meno di 40 anni, sfornare tweet in quantità industriale, organizzare conferenze stampa con slides prese in prestito ai cartelloni pubblicitari: la retorica del cambiamento viaggia sulle ali dell’immagine. Se ci si addentra nei gangli dei provvedimenti governativi e ministeriali si trova una coltre di muffa vecchia di decenni.


Nel piano sblocca Italia c’è un progetto molto serio sullo sblocco minerario. E’ impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale di petrolio e del gas in Italia a dare lavoro a 40mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini”.
Se non fosse per i riferimenti a Gazprom e South Stream la dichiarazione precedente potrebbe figurare a buon diritto come un reperto storico del ventesimo secolo, pronunciata da qualche politico ancora inconsapevole degli sviluppi che il mondo dell’energia avrebbe assunto in futuro. Invece queste parole provengono da un’intervista rilasciata da Matteo Renzi al Corriere della Sera qualche giorno fa. Alla risibile motivazione che l’Unione Europea non possa in considerazione proposte italiane se prima non abbiamo prosciugato i nostri pozzi minerari, si affiancano una serie di dati campati per aria. Spulciando le pagine del World economic and energetic Atlas 2013, rassegna statistica annuale sul mercato di petrolio e gas mondiale e sul sistema della raffinazione curata dall’Eni, si scopre che se estraessimo gli 11 milioni di tonnellate di riserve petrolifere stimate nei fondali marini del nostro Paese, ai consumi attuali, li esauriremmo in soli 55 giorni. Quanto ai posti di lavoro, predetti sulla base di dati forniti da Assomineraria (il vecchio detto “non chiedere all’oste com’è il vino” vale ancora), vanno confrontati con il rapporto della direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero per lo Sviluppo Economico, che disegna uno futuro diverso: “Il rapporto fra le sole riserve certe e la produzione annuale media degli ultimi cinque anni, indica uno scenario di sviluppo articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio”. Si discute in realtà di poche centinaia di occupati a livello diretto e indiretto per azienda.
A guadagnarci ed anche molto sarebbero i petrolieri, visto che in Italia le royalties sono tra le più basse del mondo: oltre alle tasse governative, le società che estraggono cedono solo il 4% dei loro ricavi per le estrazioni in mare e il 10% per quelle su terraferma. In Norvegia quasi l’80% del ricavato dell’industria petrolifera viene riscosso dallo Stato. In Gran Bretagna c’è una tassa aggiuntiva del 32%. La 63esima edizione della Statistical Review of World Energy realizzata dalla British Petroleum poi ci informa che le riserve mondiali di petrolio, comprendenti anche gpl e ‘condensati’, sono sufficienti al tasso attuale di consumo fino al 2067. Le soglie sugli attuali tassi di consumo non tengono conto dei 2 miliardi in più di esseri umani che popoleranno il pianeta da qui al 2050. Non sarà il caso di cambiare veramente rotta, per utilizzare un termine tanto caro al nostro premier? Sarebbe sufficiente tagliare gli extra-profitti dei venditori di energia che comprano l’energia in borsa a prezzo basso (45 euro per ogni megawatt/ora) e la rivendono ai clienti finali ad un prezzo di oltre 80 euro per ogni megawatt/ora, tagliando le bollette agli utenti finali di ben 8 miliardi di euro. Una parte dei proventi potrebbero essere reinvestiti nello sviluppo di fonti rinnovabili di energia.
Avere meno di 40 anni, sfornare tweet in quantità industriale, organizzare conferenze stampa con slides prese in PRESTITO ai cartelloni pubblicitari: la retorica del cambiamento viaggia sulle ali dell’immagine. Se ci si addentra nei gangli dei provvedimenti governativi e ministeriali si trova una coltre di muffa vecchia di decenni. L’operazione di rinnovamento tanto sbandierata dai vertici del Partito Democratico riguarda, nella migliore delle ipotesi, solo l’età anagrafica dei protagonisti. Un capo di governo che ignora le criticità ambientali dell’estrazione delle risorse petrolifere, minimizza gli impatti sanitari (un’occhiata ai dati del Registro dei tumori in Basilicata apre uno spaccato sulla notevole incidenza delle patologie tumorali nella maggior parte delle aree della regione), affossa con ogni mezzo lo sviluppo delle energie rinnovabili (vedi il decreto spalma-incentivi, bocciato anche dal New York Times), non è il nuovo che avanza, è Lazzaro che resuscita. Un Lazzaro che ha rubato a Fonzie la giacca di pelle.

mercoledì 6 agosto 2014

Hiroshima: sotto la cenere il profumo di onore e coraggio...

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di Mario Vattani (tratto da Barbadillo.it)

Sotto la cenere, onore e coraggio sono i valori che fanno la differenza

 Il piatto tipico di Hiroshima è l’okonomiyaki. Significa più o meno: “cuocila come ti pare”, ed è una specie di frittata a base di pastella, spaghetti, cavolo tagliato a strisce finissime, e pochi altri ingredienti.
E’ un piatto povero, che si cucina su una grande piastra, quasi un tavolo di acciaio attorno al quale si accomodano gli avventori. Chi si siede riceve due strumenti: una specie di cucchiaio – fatto come una piccola paletta – e un grande boccale di birra che si appanna subito per la condensa.
Funziona così: il cuoco, che è in piedi dall’altra parte della piastra, prepara prima la base del tortino, poi sposta l’okonomiyaki di fronte ad ogni cliente, che lo cucina da sé. Non ci sono piatti, si mangia direttamente dalla piastra, usando la paletta di metallo.
Si capisce che l’atmosfera in questi piccoli locali è allegra, semplice, e fumosa. Anche se si è soli, in un attimo ecco che ci si trova a chiacchierare con la cuoca, poi con il vicino, e si finisce per passare una bella serata nel quartiere di Nagarekawa. E’ li che si trovano le più vecchie trattorie di questo genere, che hanno tutte un nome di donna.
okonomiyakiOgni volta che si apre la porta scorrevole da “Machiko”, “Tomoko”, “Asuka”, “Rie”, esce nella strada l’odore della pastella che frigge sulla piastra, il fumo delle sigarette, il vapore che insieme alle voci e alle risate si arrampica su per le insegne illuminate di tutti quei bar, di tutti quei locali, su per i tetti silenziosi fino al cielo di Hiroshima, senza una nuvola.
* * *
Ad agosto, anche di prima mattina, il cielo di Hiroshima è quasi bianco, per quanto fa caldo.Quindi quel giorno, verso le 7.30 il primo aereo fu avvistato con largo anticipo, anche se volava ad altissima quota, e subito scattarono le sirene. Tutti corsero ai rifugi, ma dopo mezz’ora ancora non era successo nulla. Il B29 era scomparso da un pezzo, allora l’antiaerea suonò il cessato allarme, e si tornò di nuovo nelle strade.
Ai ragazzi delle scuole adesso rimaneva poco tempo per finire i turni obbligatori di demolizione, quelli per la prevenzione anti-incendio, prima di correre a lezione.
Ma proprio in quel momento, alle 8.15, troppo tardi per dare di nuovo l’allarme, si materializzò il secondo B29. Sull’ala verticale aveva una grande R cerchiata, e sulla fusoliera portava il nome Enola Gay. L’apparecchio che lo aveva preceduto era ormai a diverse miglia di distanza, ma si preparava comunque a ripassare: la sua missione infatti era di scattare una serie di fotografie della città.
Prima, e dopo che un occhio di luce accecante si spalancasse nel cielo cinquecento metri sopra il centro di Hiroshima, cancellasse in un secondo la vita di quasi ottantamila persone, facesse bruciare l’aria, bollire l’acqua del fiume, polverizzare il cemento, piegare l’acciaio, fondere il vetro e il granito, per poi richiudersi nascondendo il mondo in una nebbia incandescente di cenere e fumo. Subito dopo, una pioggia nera che nulla ha mai lavato, promise l’inferno ad altri quarantamila abitanti di Hiroshima, morti nei giorni e nelle settimane successivi, tra sofferenze inenarrabili. Per tutti coloro che furono esposti a quella luce, anche negli anni a venire restò il marchio della paura, l’attesa che un male incomprensibile si potesse manifestare nel proprio grembo, nel volto, nelle ossa dei propri figli.
 * * *
“E’ andata benissimo. Sembra che abbia fatto un gran botto. A tremendous bang”.
Questo il commento a caldo del Generale Groves, direttore del Manhattan Project, in una telefonata al professor Oppenheimer, per complimentarsi del successo.
E pensare che invece da un punto di vista tecnico il “Little Boy” fece praticamente cilecca, per i membri del “Scientific Committee” – Compton, Lawrence, lo stesso Oppenheimer ed Enrico Fermi – i quali avevano insistito, mettendo in minoranza il professor Szilard che si era fatto qualche scrupolo, per sganciare la bomba su un obiettivo civile, “una applicazione militare molto più adatta ad indurre alla resa”.
Nell’esplosione infatti, raggiunse la fusione meno del 2% dell’uranio fissile di cui era caricato l’ordigno.
Come lo sapevano? Perché tutti i dati dell’esperimento furono registrati dalla strumentazione imbarcata sul terzo ed ultimo aereo che volò quel giorno nel cielo di Hiroshima.
Anche lui aveva un nome: The Great Artiste.
Il grande artista. Immaginiamo le esclamazioni, le grida e gli applausi quella mattina, quando si è alzato in cielo l’altissimo mostro di fumo e di fiamme.
Il grande artista lavora all’effetto visivo delle sue opere. Le crea, le presenta e poi dà loro un nome. Così il “fungo atomico” sembra un fenomeno meteorologico, non dissimile da una grande nuvola. Come quelle che guardiamo, sdraiati su un prato a pancia in su, facendole somigliare a piante o animali.
Si chieda a chiunque di raffigurare un’esplosione atomica, e comparirà un fungo.
Il grande artista deve fare i conti con un difficile equilibrio. Occorre raffigurare una situazione reale, su cui si ha scarso controllo, contenendola però in un quadro limitato, le cui misure sono definite. Per questo si noterà che più è grande l’esplosione, più bisogna allontanarsi per allargare il riquadro, più il centro della fotografia si allontana dalla terra, e sale verso il cielo. Quindi paradossalmente, più potente è l’esplosione, più edifici si riescono a distruggere, più persone si riescono ad eliminare, meno sono visibili la distruzione, il dolore e la morte. Alla fine la terra, con i suoi palazzi, le strade, le case, diventa una piccola striscia indefinita, in basso.
Mi è capitato di vedere, via internet, alcune foto di grandi esplosioni causate in questi giorni da bombardamenti aerei. Rappresentavano una vasta nube grigia e nera, con al centro il rossore delle fiamme. Sotto, molto più piccoli, i palazzi, le case, le finestre degli appartamenti. Il primo commento pubblicato da un utente sotto l’immagine era: “wow!”.
Proprio allora è uscita la notizia della morte dell’ultimo membro dell’equipaggio dell’Enola Gay. Non so come si chiamasse, e francamente non mi interessa. Anzi, a dir la verità non sapevo nemmeno che uno di loro fosse ancora vivo. Così sulle stesse pagine ho trovato delle notizie su Hiroshima, insieme a quelle riferite a conflitti contemporanei.
Allora mi sono chiesto se l’adrenalina che corre nelle vene di chi usando missili, bombe oppure lanciando razzi riesce a far alzare il fumo e le fiamme su una città appartenga all’idea di combattimento – quindi alla guerra – oppure a qualcosa di diverso, che si chiama terrore.
Sembra banale scriverlo in questo modo, ma questi avversari pretendono di combattersi a vicenda lanciando potentissimi esplosivi in aree cittadine, abitate da famiglie. E’ naturale che vengano colpiti di volta in volta case, negozi, rifugi, scuole, ospedali. Sarebbe sorprendente il contrario.
Il punto, pur nella sua ovvietà, non è privo di significato, perché normalmente al combattimento si associano non soltanto l’idea di vittoria e di sconfitta, ma anche i valori dell’onore e del coraggio.
Eppure questi valori di onore e di coraggio non si vedono in queste terrificanti fotografie di esplosioni e bombardamenti. Forse perché sono valori che invece appartengono a quanto si svolge in quel sottile spazio più in basso, sotto quelle nuvole di cenere e di fiamme che riempiono il cielo.
Il 6 agosto, in un attimo Hiroshima aveva perso quasi un terzo della sua popolazione, e oltre la metà degli edifici erano stati rasi al suolo dalla bomba.
hiroshimaMa sotto il grande fungo delle fotografie, la reazione a terra fu immediata. Dopo poche ore, senza sosta, si diresse dalle campagne circostanti verso la città distrutta un flusso di migliaia di persone, per organizzare i soccorsi e prestare le cure necessarie a quella triste massa di feriti e ustionati.
Già dal pomeriggio dello stesso giorno, la marina imperiale iniziava via camion il trasporto dei feriti nelle regioni limitrofe di Saeki, Asa e Aki. Nella notte venne trasformato in crematorio l’intero liceo di Danbara, per evitare che la presenza di così tanti cadaveri potesse causare epidemie. Poi dal 7 agosto, i villaggi tutto intorno alla città iniziarono a spedire ogni giorno a Hiroshima quantità sufficienti di onigiri – le tipiche palle di riso giapponesi – per sfamare i sopravvissuti al bombardamento. Dalle isole arrivavano vestiti, lenzuola, gli scarsi medicinali. Il caldo dei mesi estivi non aiutava, e molti morivano a causa delle infezioni e della cancrena. Difficile immaginare le condizioni impossibili in cui lavorava chi si adoperava per i soccorsi alle vittime, per spostare le macerie e far circolare i mezzi, per ripulire i canali e i corsi d’acqua, ma basti pensare che a poche settimane dal disastro, gli studenti di Hiroshima avevano ripreso i corsi, naturalmente all’aperto.
Ogni giorno, un esercito di sopravvissuti vestiti di stracci, i fantasmi di donne, ragazzi, bambini, vagavano per chilometri nelle macerie alla ricerca dei loro familiari. Come centri di accoglienza vennero utilizzate le scuole, al cui esterno venivano posti dei grandi cartelli con un elenco dei nomi di chi vi si era sistemato.
Per molte mogli, madri, figlie dei soldati che erano andati a combattere nelle isole del Pacifico, la maggiore preoccupazione era come avrebbero fatto quei soldati a ritrovarle, quand’anche fossero ritornati dalla guerra.
Nella grande bidonville che era diventata Hiroshima, per le donne che non potevano allontanarsi perché accudivano a un bimbo piccolo, oppure a un anziano malato, una soluzione era quella di trasformare l’ingresso del loro rifugio temporaneo, e cucinare l’okonomiyaki. Bastava sistemare su mezzo bidone una lastra di metallo, accendervi sotto il fuoco, mescolare con la pastella quei pochi ingredienti che si riuscivano a trovare, e aspettare i clienti.
Sull’entrata si appendeva un cartello con il proprio nome, “Machiko”, “Tomoko”, “Asuka”, “Rie” e si raccomandava agli avventori di spargere la voce, di raccontare in giro che loro erano lì, che erano vive, che il bambino stava bene.
Non c’era bisogno di piatti o di posate, né di sedie, perché ci si sedeva a terra, su una stuoia. Bastavano una piccola paletta, e un vicino disposto a dividere un po’ della sua acquavite. E se per caso gli occhi si fissavano troppo sull’acciaio grigio della piastra, e risaliva d’un tratto gelido come un conato tutto l’orrore, allora ci si faceva canzonare gentilmente dalla padrona di casa, nel suo kimono consunto, con gli occhi stanchi e le maniche legate con il laccio tradizionale, in modo da liberare le braccia. Tanto il piccolo dormiva sul tatami, pochi passi più in là.
Quante volte, nel fumo della pastella che frigge sulla piastra, quella donna avrà sobbalzato sentendo scorrere la porta dell’ingresso. E ogni volta che si affacciava un berretto militare sporco e spiegazzato, avrà sperato di riconoscere il volto che pensava di non rivedere mai più. Forse è anche questo il profumo dell’onore e del coraggio, che si arrampica su per i tetti silenziosi, fino al cielo di Hiroshima.

sabato 2 agosto 2014

Strage di Bologna: chi ha paura della verità?


Riportiamo un articolo uscito su Area il 14 ottobre del 2010. Lo riteniamo un ottimo spunto per comprendere alcuni dei particolari che avvolgono il contesto relativo alla strage di Bologna del 2 agosto 1980. Dal canto nostro, come facciamo da sempre, non abbiamo alcuna intenzione di cedere un metro, dal momento che siamo convinti, come altre migliaia di persone anche politicamente distanti da noi, che la strage di Bologna non abbia niente a che fare col neofascismo. 

Chi ha paura della verità sulla strage di Bologna? Chi vuole ancora insabbiare e depistare, a venticinque anni di distanza dal più grave attentato che la storia italiana ricordi? Chi tira i fili di questa ennesima manipolazione della verità? Quali sono gli interessi ancora attivi che qualcuno sente minacciati? Interrogativi, questi, sui quali converrebbe riflettere perché - dai minuti successivi alla presentazione della nostra inchiesta - si è alzato un fuoco di sbarramento, all’interno di una spaventosa rissa mediatica, scandita da prese di posizione, illazioni, insinuazioni, accuse e minacce di calibro pesantissimo, sparate per nascondere fatti e circostanze con un’impenetrabile cortina fumogena. Tanti commenti, parole, insulti.

Ma mai alcun elemento, non una circostanza è stata contrapposta per confutare il quadro dei fatti da noi presentato. Sono intervenuti un po’ tutti, i professionisti della parola, e con un solo obiettivo: demolire, sul nascere, ogni tentativo di chiarimento, serio, documentato e coerente sull’attentato del 2 agosto 1980.

I Guardiani della Verità

Il tempo è passato, ma il furore bianco dell’ideologia e l’odio politico sono ancora lì, intatti, a guardia dei tanti (falsi) misteri d’Italia. Misteri che, per un ristretto circolo di irriducibili che credono di essere i Guardiani della Verità, devono restare tali, altrimenti perderebbero il loro potenziale ricattatorio e il loro valore di merce di scambio per i soliti equilibri di potere. Rileggendo con un po’ di distacco gli interventi delle scorse settimane sulla strage di Bologna emerge, con limpida evidenza, un dato: gran parte di coloro che hanno sparato a zero su questa ricostruzione lo hanno fatto sul sentito dire, senza conoscere con esattezza e correttezza i termini della questione, evitando - di buon grado - di entrare nel merito. Il risultato finale è stato un chiassoso e irritante guazzabuglio, alimentato per intorbidare il più possibile le acque, proprio per evitare che qualcuno potesse, finalmente, vederci chiaro in questa tragica pagina di storia. Un gran polverone d’inizi agosto, con un roboante dispendio di paroloni, urla e schiamazzi, proprio quando la comunità nazionale si apprestava a commemorare i 25 anni da quella carneficina. Una carneficina che ha avuto, come risposta in termini di verità processuale, una serie di condanne fondate sul nulla, frutto di un teorema politico che rappresenta un insulto alla logica e all’intelligenza.

La lettera di Cossiga

Ma, come dicono gli anglosassoni, one bridge at the time, un ponte (cioè, un problema) alla volta. Il lavoro che abbiamo presentato ha, in primo luogo, ottenuto un risultato straordinario nell’ottica di una puntuale, accurata e attendibile ricostruzione della vicenda. Il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio dei ministri, informato in anticipo degli esiti dell’inchiesta sulla strage di Bologna, ha scritto una lettera di tre pagine all’on. Enzo Fragalà, quale promotore dell’iniziativa e membro della Commissione d’inchiesta sul dossier Mitrokhin. La missiva è stata letta il 20 luglio, nel corso della conferenza stampa a Montecitorio. Ecco alcuni dei passaggi più significativi della lettera di Cossiga, il quale si rammaricava di non poter partecipare all’importante conferenza stampa, per motivi di salute: “Ho letto le carte da te inviatemi e le ho integrate con i miei ricordi, che vengo ad esporre, rinviando per le date alle carte stesse. Premetto che non ho mai ritenuto la Francesca Mambro e Giusva Fioravanti responsabili dell’eccidio di Bologna. L’ultima, assai debole sentenza di condanna è da ascriversi - scrive il senatore Cossiga - alle condizioni ambientali, politiche ed emotive della città in cui è stata pronunziata, nonché alle teorie allora largamente imperanti nella sinistra e nella collegata “magistratura militante”: essere funzione della giustizia quella di partecipare “alla lotta” e che quello che per le finalità politiche della lotta “avrebbe dovuto essere”, “era” o “era stato”, perché è l’ideale che invera il fatto, ed il fatto che contraddice l’ideale semplicemente non “è” o “non è stato”, perché la “rivoluzione”, politica, ideologica o solo culturale è la “verità” aldifuori della “rivoluzione”. Tutte teorie affascinanti anche se fuorvianti, che con le loro origini giacobine e leniniste sono largamente filtrate nella “ideologia di lotta” della “magistratura militante”. Passiamo ai ricordi”.

Quel burrascoso incontro notturno a Palazzo Chigi

E qui viene il bello: “Ero presidente del Consiglio dei ministri quando la polizia intercettò un camion con due missili, scortato dal “pacifista non violento” Pifano, dominus di quel circolo culturale della cosiddetta Autonomia - così lo definì il giudice che annullò una ordinanza da me emanata in base alle leggi speciali quali ministro dell’Interno - e cioè il cosiddetto covo di via dei Volsci. Il Sismi mi passò un’informativa che si affermava originata dalla “stazione” di Beirut, alias dal colonnello dei carabinieri Giovannone, l’“uomo” di Aldo Moro, secondo la quale una determinata organizzazione della resistenza palestinese, l’Fplp, rivendicava la proprietà dei due missili, non destinati all’Italia. In realtà non fu difficile a me e al sottosegretario alle informazioni e alla sicurezza, on. Mazzola, comprendere che i dirigenti del Sismi ci nascondevano qualcosa”.

Ecco il perno di tutta la questione: “Vi fu un burrascoso incontro notturno a Palazzo Chigi, ed alla fine mi fu detta la verità e mi fu esibito un documento trasmesso dalla nostra “stazione”: un telegramma del capo dell’Fplp a me indirizzato in cui, con il tono di chi si sente offeso per l’atto che ritiene compiuto in violazione di precedenti accordi, mi contestava il sequestro dei due missili e ne richiedeva la restituzione, insieme alla liberazione del “compagno” Pifano! Si trattava, evidentemente, di uno dei fatti legati all’accordo, mai dimostrato per tabulas, ma notorio, stipulato sulla parola tra la resistenza e il terrorismo palestinese da una parte e dal governo italiano dall’altra, quando era per la prima volta presidente del Consiglio dei ministri l’on. Aldo Moro, al fine di tenere l’Italia al riparo dagli atti terroristici di quelle organizzazioni”.

La fedeltà dei servizi agli “accordi Moro”

E ancora: “La totale fedeltà e conseguente riservatezza che i collaboratori sia del ministro degli Esteri sia del Sifar (poi Sismi) di Aldo Moro nutrivano per lui, impedì sempre a me, benché “autoritariamente curioso”, di sapere alcunché di più preciso sia da ministro dell’Interno che da presidente del Consiglio dei ministri e da presidente della Repubblica.

“Un altro degli episodi legati all’accordo è la distruzione da parte dei servizi segreti israeliani dell’aereo militare Argo 16 [nome in codice del bimotore Dakota Dc3 del servizio segreto militare precipitato nei pressi di Marghera il 23 novembre 1973, provocando la morte dei quattro membri dell’equipaggio: il colonnello dell'Aeronautica, Anano Borreo, il tenente colonnello Mario Grande, i marescialli Francesco Bernardini e Aldo Schiavone, ndr] in dotazione al Sid, come ritorsione alla “esfiltrazione” di cinque terroristi palestinesi arrestati in quanto avevano tentato di abbattere con missili terra-aria un aereo civile israeliano in partenza da Fiumicino. “Esfiltrazione” o “fuga agevolata” operata da agenti del nostro servizio, naturalmente d’accordo con la magistratura che, giustamente, talvolta fa eccezioni al principio dell’esercizio dell’azione penale e della obbligatorietà teorica dei provvedimenti limitativi che dovrebbero discenderne”.
“… esplosivo dai palestinesi”

“Rimane il dubbio grave” prosegue Cossiga, “e fu la prima ipotesi investigativa presa inizialmente in seria considerazione anche dalla Procura della Repubblica di Bologna, che si sia trattato di un atto di terrorismo arabo o della fortuita deflagrazione di una o più valigie di esplosivo trasportato da palestinesi, che si credevano garantiti dall’“accordo Moro”. Questo spiega perché ufficiali del Sismi, ente sempre fedele all’accordo e leale verso perfino la memoria di Aldo Moro, tentarono il depistaggio verso esponenti, credo, neonazisti del terrorismo tedesco, e per questo furono condannati.

“Le carte raccolte dalla Commissione Mitrokhin a mio avviso potrebbero costituire valida base per la revisione del processo che portò alla condanna della Mambro e del Fioravanti, difesi presso di me da esponenti della Brigate rosse che teorizzarono il perché i due non potessero essere che innocenti”.

“Panzane” che danno fastidio

L’intervento di Cossiga, combinato con i tanti elementi messi a disposizione per ricomporre in modo corretto il mosaico sull’attentato del 2 agosto 1980, ha provocato - come dicevamo in apertura - una serie di interventi tanto violenti quanto inquietanti. Paolo Bolognesi, presidente da anni dell’Associazione di familiari delle vittime della strage, si è scagliato contro “ogni tentativo di manipolazione”, di “occultamento della verità”, bollando i fatti da noi illustrati come “panzane”. Questo signore, con toni così rabbiosi da risultare imbarazzanti, se l’è presa un po’ con tutti, sparando nel mucchio: “Le nuove piste non sono altro che l’insieme di vecchi depistaggi tirati fuori dal presidente Cossiga e dalla Commissione Mitrokhin, una commissione parlamentare che mesta nel torbido per confondere le acque”.

E, rivolgendosi a Cossiga come fosse un avanzo di galera, ha detto che “sarebbe ora che spiegasse come mai si è circondato, nei momenti più delicati della vita politica italiana, di piduisti. Sarebbe ora che rendesse pubblico il motivo della grande attenzione che lo porta, sempre, a sponsorizzare i pluriomicidi Mambro e Fioravanti”. Altre inaudite parole al vetriolo sono state indirizzate al ministro della Giustizia Roberto Castelli per i benefici premiali di cui godono gli esecutori materiali della strage (libertà condizionale, ndr), ma anche all’ex ministro Maurizio Gasparri, reo di “essersi impegnato personalmente per bloccare l’emissione di un francobollo celebrativo del 25° anniversario” e “non a caso ha utilizzato un’intervista per difendere i vecchi camerati Mambro e Fioravanti e perorare atti di clemenza, seguito dal collega di partito Gianni Alemanno”.

Libero Mancuso, oggi presidente della Corte d’Assise di Bologna e collaboratore della Commissione Mitrokhin, ha dichiarato: “Vedendo come oggi ci siano ancora vecchi fantasmi del passato che tentano di creare polveroni per ingannare il Paese” e come si tratti di iniziative fatte “da parte di chi ha avuto responsabilità massime, capiamo che c’è qualcosa di irrisolto che merita di essere conosciuto”. Mancuso, intervenendo ad una conferenza stampa di presentazione di “Politicamente scorretto”, in programma a Casalecchio di Reno dal 21 al 23 ottobre, ha aggiunto che “l’ipotesi della pista libica, rispolverata in questi giorni, era già emersa durante una intervista rilasciata da Cossiga a Paolo Guzzanti (allora giornalista, oggi parlamentare e presidente della Commissione Mitrokhin, ndr). Subito dopo abbiamo sentito Guzzanti ed un altro teste e fu da loro stessi detto che si trattava solo di un pensiero. Non c’era nulla che potesse avvalorare la tesi”. Bene, ma che c’entra la pista libica? Chi ne ha parlato? Che nesso avrebbe con le minacce di ritorsione da parte dell’Fplp e della conseguente operazione compiuta a Bologna dal gruppo Carlos? Un altro cristallino esempio di correttezza nell’esporre fatti e circostanze… “Stupisce” ha replicato Fragalà, “che l’ex pm Mancuso oggi si spinga a parlare di “fantasmi che emergono dal passato” e di “intreccio perverso e oscuro”, rispetto alle nuove circostanze sulla base dei documenti di recente acquisiti dall’organismo parlamentare. Visto che Libero Mancuso è un consulente della Commissione Mitrokhin, dobbiamo ritenere che egli non legga la documentazione che è anche a sua disposizione”.

La prova che non furono i fascisti

Ma la replica più eloquente alle parole di Mancuso è sempre quella di Francesco Cossiga: “In uno stato costituzionale delle libertà e in un vero Stato di diritto in cui esistesse una magistratura decente a 360 gradi, il veterocomunista Libero Mancuso da quel dì non ne avrebbe più fatto parte. Su Libero Mancuso il giudizio definitivo è stato dato da Giovanni Falcone nella sentenza in cui, da giudice istruttore, ha prosciolto Giulio Andreotti dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Certo è che Libero Mancuso è la causa oggettiva e forse, anche involontariamente, volontaria del linciaggio morale fatto da magistrati democratici e dai giuristi democratici contro Giovanni Falcone. Mancuso è uno di quei giuristi democratici allievi del più valoroso Luciano Violante, su cui ha scritto parole definitive l’ex senatore comunista e presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino. Giuristi i quali sono della tesi che la giustizia ha fini etici e storici, e che non è vera giustizia se non ha il fine metapolitico che si identifica con la verità della propria parte politica. E per cui, ciò che è utile al partito sia o sia stato, deve essere stato e deve essere, e per ciò semplicemente è stato ed è”.

“La prova definitiva del fatto che non furono i fascisti (e perché mai avrebbero dovuto esserlo) a effettuare la strage di Bologna” prosegue l’ex capo dello Stato, “è il giudizio di colui che per il povero popolo bolognese è presidente di della Corte d’Assise di quella città. Anche queste cose accadono in Italia: che Libero Mancuso possa diventare presidente di una Corte d’Assise. Per me, democratico e antifascista garantista e per lo Stato di diritto, vale un altro principio: ciò che Libero Mancuso dice non deve essere e non può esser vero e quindi è falso”. Libero Mancuso è stato, dal 1980 al 1994, il pubblico ministero dell’inchiesta sulla strage alla stazione di Bologna… “Mancuso sappia comunque” conclude Cossiga, “che egli dai tempi dell’imbroglio che fu la causa dell’inizio dell’aggressione morale a Giovanni Falcone gode della mia piena e completa disistima: come uomo e ancor più come magistrato. Quello che spero è che l’ex socialista e oggi forzitaliota leghista vice presidente del Consiglio, Giulio Tremonti, abbia domani [l’intervento del presidente emerito della Repubblica è del 1° agosto scorso, vigilia della manifestazione organizzata a Bologna per commemorare i venticinque anni dalla strage, ndr] il coraggio e l’abilità di lasciare il palco della triste manifestazione per la dolorosa strage di Bologna, resa ancor più triste per le speculazioni politiche che su di essa sono state fatte, allontanando la verità, quando i “professionisti del dolore” inveiranno come sempre contro i mandanti d’assassinio che si chiamano Giulio Andreotti e Francesco Cossiga”.

In effetti, Tremonti, in qualità di rappresentante del governo, è salito sul palco per le commemorazioni di rito ed è stato fatto oggetto, come sempre, dei fischi e delle pernacchie della piazza. Ma, da gentleman qual è, non ha lasciato il palco, limitandosi a dire “che bella piazza…”.

L’alibi del segreto di Stato

Come ogni anno, poi, è stato il momento del tormentone sul segreto di Stato e di tutte le bizzarre teorie per abolirlo, nella speranza di aprire, finalmente, quella fantomatica cassaforte che contiene tutte le verità sui misteri d’Italia. Uno dei primi a rievocare lo spettro del segreto di Stato è stato Giorgio Bocca sulle colonne de La Repubblica. Anche qui, parole in libertà condite al vetriolo “il segreto di Stato di cui da tempo si chiede l’abolizione non consente che si faccia piena luce, censure, depistaggi, deviazioni fatti da apparati dello Stato, muri di gomma ieri come oggi continuano. In più si sono aggiunte le false verità, le confusioni non casuali e le voglie di protagonismo di personaggi come un ex presidente della Repubblica, le ambiguità di commissioni d’inchiesta come la Mitrokhin”. False verità e confusioni non casuali, scrive Bocca, il quale finalmente svela qual è il suo metodo di lavoro: scrivere prima di documentarsi. Uno dei padri del giornalismo italiano… Poi, sempre nello stesso articolo, cita gli elementi di prova che inchioderebbero i fascisti nella strage di Bologna: “Le letture di questi terroristi sono le opere razziste di Evola e del prenazismo di von Salomon, le cronache dei Frei Korps, i volontari che alla fine della Prima guerra mondiale continuano a difendere i confini orientali del Reich. I proscritti di von Salomon e la Rivolta contro il mondo moderno di Evola sono i libri che il filosofo Paolo Signoretti, uno degli indagati per la strage di Bologna, porta nel suo zaino”… peccato che il nome del “filosofo” citato da Bocca sia Paolo Signorelli, e non Signoretti.
Cia, neofascisti, massoni e servizi deviati

Ma il vero paradosso lo ha rappresentato e messo in scena da leader dell’Unione, Romano Prodi, il quale ha rilanciato l’idea di eliminare il segreto di Stato per far luce sulle stragi e sui misteri d’Italia. Anche qui, l’intervento di Cossiga, ancora una volta chiamato indirettamente in causa durante la manifestazione di Bologna del 2 agosto, è stato eloquente: “Dopo aver sentito che egli ritiene, insieme ai professionisti del dolore, che i governi precedenti al suo abbiano posto il segreto di Stato a notizie relative alla strage di Bologna, e che se opposto fosse stato, egli che per disgrazia del Paese è stato presidente del Consiglio avrebbe potuto toglierlo, debbo qualificarlo come un perfetto cialtrone”. La questione, d’altra parte, era stata già definita nell’agosto del 1998 dallo stesso senatore Giovanni Pellegrino, all’epoca presidente della Commissione stragi, il quale spiegò che sia su Ustica sia sulla strage di Bologna la Commissione da lui presieduta non si è mai trovata di fronte all’imposizione del segreto di Stato.

Per Valter Bielli, capo gruppo Ds in Commissione Mitrokhin, “la Commissione vuol far passare l’idea che la destra non ha mai avuto nulla a che fare con le stragi, e che i neofascisti come Mambro e Fioravanti non c’entrano con Bologna”. In una intervista sull’argomento pubblicata dal settimanale Avvenimenti e raccolta dal giornalista Giulietto Chiesa, anche lui con un passato da collaboratore della Commissione Mitrokhin, Bielli afferma che sarebbe in atto “un tentativo di accreditare una pista, quella palestinese, già battuta da chi indagò sulla strage di Bologna e poi abbandonata perché priva di ogni riscontro, per scagionare neofascisti, massoni e servizi deviati”. Sempre secondo il deputato diessino, “dalle loro ricostruzioni è scomparsa la Cia e il suo ruolo nella storia del nostro Paese. Ma, soprattutto, è stata cancellata la P2”. È il 20 luglio quando le agenzie battono le anticipazioni dell’intervista di Bielli su Avvenimenti: lo stesso giorno della conferenza stampa di Area a Montecitorio. Timing perfetto. Bielli ha, infine, annunciato “una relazione documentata sulla questione” che sarà presentata a settembre “al fine di fare chiarezza e smentire insinuazioni e false piste”.

Bene, passiamo ai fatti.
Quei due tedeschi a Bologna il 2 agosto

Il 1° agosto 1980, Thomas Kram, militante di spicco della Cellule rivoluzionarie e inserito nel quadro di vertice del gruppo Carlos prende alloggio poco dopo la mezzanotte nell’Albergo Centrale di Bologna, per poi sparire dalla circolazione la mattina del 2 agosto: il giorno dell’attentato. La segnalazione della presenza di Kram a Bologna alla vigilia dell’attentato venne fatta nel marzo del 2001 dal capo della Polizia Gianni De Gennaro alla Questura di Bologna la quale, attraverso una puntuale investigazione da parte della locale Digos, riuscì a ritrovare anche il registro delle presenze dell’Albergo Centrale con la registrazione del nome e dei dati anagrafici del terrorista tedesco.

L’iniziativa del capo della Polizia faceva seguito ad una richiesta di collaborazione giudiziaria internazionale avanzata dalla Procura generale di Germania la quale - nel dicembre del 2000 - aveva spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Thomas Kram, qualificato negli atti giudiziari come grande esperto di esplosivi. Secondo le autorità tedesche, infatti, il militante delle Cellule rivoluzionarie si nascondeva nel nostro Paese ed era in contatto con altri elementi di primo piano del terrorismo internazionale. Da informazioni della polizia tedesca, Kram era in stretto contatto soprattutto con Christa-Margot Fröhlich, l’altra esponente delle Cellule rivoluzionarie legata a doppio filo al gruppo Carlos.

Come ha rivelato Enzo Raisi, deputato di An di Bologna in un’intervista al Secolo d’Italia del 3 agosto scorso, un dipendente dell’Hotel Jolly di Bologna, situato proprio di fronte alla stazione, riconobbe nelle fotografie della terrorista tedesca, arrestata il 18 giugno del 1982 all’aeroporto di Fiumicino con una valigia carica di esplosivo, poi risultato compatibile con quello utilizzato per l’attentato alla stazione centrale di Bologna, la giovane donna che conobbe nel pomeriggio del 1° agosto proprio all’Hotel Jolly e che rivide la mattina del giorno seguente. La donna, a detta di questo testimone che fece mettere a verbale i suoi ricordi dalla polizia, poco dopo l’esplosione la sentì parlare al telefono in tedesco con toni euforici. E in un secondo momento, rivolgendosi a lui in un italiano stentato, voleva sapere che danni aveva subito il treno colpito dall’onda d’urto. La tedesca avrebbe fatto riferimento anche ad una valigia lasciata al deposito bagagli della stazione. Se fosse confermata questa circostanza, soprattutto se fosse confermata la versione fornita agli inquirenti da questo signore dell’Hotel Jolly, si potrebbe dire risolta la meccanica dell’attentato.

Prove inconfutabili

“A distanza di tanti anni, l’unica cosa di cui l’Italia ha bisogno è la verità e se sarà confermato che quel giorno alla stazione c’erano due terroristi tedeschi legati al gruppo sanguinario e violento di Carlos” ha commentato l’avvocato Alessandro Pellegrini del Foro di Bologna, difensore di Luigi Ciavardini (vedi box in alto), Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, “allora questa è la prima, vera e inconfutabile prova che dimostra la presenza di terroristi a Bologna quel 2 agosto di 25 anni fa e che finalmente dimostra che Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini non erano lì”. E aggiunge: “Non ho ancora avuto modo di leggere ed esaminare la documentazione in questione che ora è stata acquisita dalla Commissione Mitrokhin e in cui sarebbe dimostrata la presenza dei due terroristi a Bologna, attraverso la scheda di registrazione in un albergo della città, ma se questa cosa fosse vera allora si può parlare di conseguenze veramente rilevanti dal punto di vista probatorio. Se ciò che è contenuto in quella documentazione sarà confermato” ribadisce Pellegrini, “non si potrà certo parlare di pura casualità riguardo la presenza dei terroristi quel giorno, in quelle ore, e allora la magistratura italiana dovrà prendere atto degli errori commessi e comportarsi di conseguenza”.

Sul punto è intervenuto anche il senatore Lucio Malan, vice presidente del gruppo di Forza Italia al Senato e membro della Commissione Mitrokhin, il quale ha affermato che “alla ripresa dei lavori parlamentari, la Commissione dovrà decidere cosa fare dei documenti in nostro possesso che riguardano la strage di Bologna del 2 agosto 1980”. A fronte della “scarsa consistenza dell’impianto accusatorio che ha portato alla condanna dei presunti colpevoli, emerge un insieme di fatti e indizi che vanno in tutt’altra direzione, dai servizi segreti della Germania comunista, dal palestinese filosovietico George Habbash, al terrorista Carlos. Qui non si tratta di difendere la reputazione di Mambro e Fioravanti, che di altri crimini hanno ammesso la responsabilità, ma di sapere la verità e perché in così tanti hanno lavorato per nasconderla. In sede di commemorazioni, la verità dovrebbe essere più interessante di ogni altra cosa. Purtroppo quanto sta emergendo è scomodo a troppi, specialmente di questi tempi”.

Le menzogne di Saleh al Manifesto

E in effetti, quello che sta emergendo è scomodo a molti. Tanto che Abu Anzeh Saleh, il rappresentante dell’Fplp arrestato nel novembre del 1979 per la vicenda del traffico dei lanciamissili Strela di fabbricazione sovietica di Ortona e che portò in galera anche i tre autonomi romani legati alla resistenza palestinese, Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Giuseppe Nieri, dopo un quarto di secolo è uscito allo scoperto e ha rilasciato una curiosa intervista al Manifesto e pubblicata giovedì 4 agosto. Altra curiosità, il cittadino giordano di origini palestinesi (che da anni vive a Damasco, in Siria) è riapparso insieme a Pifano, anche lui da anni protetto da un’impenetrabile coltre di silenzio, per smentire ogni coinvolgimento nelle vicende collegate alla strage di Bologna. L’intervista congiunta ha svelato ben poco, se non vaghi accenni ad una visita dei nostri agenti segreti a Saleh in carcere i quali gli avrebbero offerto la “liberazione anticipata”, con l’idea di allontanarlo il prima possibile dall’epicentro di quel pasticcio internazionale. Ma un dato ci ha colpiti: nell’articolo si dice che Saleh sarebbe uscito dal carcere nel 1983, “con i tre autonomi italiani” e che il giordano, nonostante le promesse della nostra intelligence, rifiutò, dicendo che sarebbe uscito dal carcere “solo insieme ai compagni italiani”. Tutto falso.

Condannato in primo grado a sette anni di reclusione per detenzione e porto di armi da guerra, Saleh ottenne effettivamente la liberazione anticipata che, mentendo, ha detto di aver rifiutato. Venne scarcerato dal penitenziario di Rebibbia, infatti, il 14 agosto 1981 per scadenza dei termini di custodia preventiva, mentre gli altri imputati (Pifano, Baumgartner e Nieri) rimasero dietro le sbarre fino al 1983, proprio l’anno in cui il giordano dell’Fplp legato al gruppo Carlos fece perdere le proprie tracce, rendendosi irreperibile alle forze di polizia. Ancora una volta, un maldestro tentativo di occultare la verità. Perché tutte queste menzogne? Ironia della sorte, il titolo dell’intervista a Saleh e Pifano è “La pista palestinese? È frutto solo di invenzioni e bugie”…

Elementi per riaprire il caso

Per Daniele Capezzone, segretario dei Radicali italiani, “in troppi e troppe volte si è scelto di adeguarsi sui teoremi, sulle verità precostituite, sulle presunte “certezze” (per nulla “certe”, peraltro). Mi auguro che tutto questo, prima o poi, finisca. È ora, insomma, che la pietà per le vittime di un crudele attentato e il giusto desiderio di verità si facciano largo. Spero che finisca il linciaggio contro Mambro e Fioravanti: hanno riconosciuto molte colpe, ma non questa. Quel che importa è che tanti fatti (vecchi e nuovi), oltre che tante opinioni autorevoli (una per tutte, quella di Giovanni Pellegrino), suggerirebbero di ricominciare con la ricerca della verità, senza adagiarsi sui teoremi. Quindi non c’è alcun motivo per alimentare una campagna di ostilità e, lo ripeto, di non verità, di cui nessuna persona con la testa sulle spalle avverte l’esigenza. E ci sono invece” conclude Capezzone, “molte ragioni per prendere in esame gli ulteriori elementi di fatto che chiedono (e in un Paese normale imporrebbero) di riaprire il caso”. Come ha accennato Capezzone, Giovanni Pellegrino, oggi presidente della Provincia di Lecce, ha ricordato i dubbi che all’epoca, come presidente della Commissione stragi, provò a sollevare proprio sulla pista nera per la strage di Bologna. Dubbi ai quali “l’Associazione dei familiari delle vittime si oppose. Per loro, così come per molti politici, la necessità di far luce sull’attentato non può e non deve metterne in discussione la matrice neofascista”.

Anche i deputati bolognesi Enzo Raisi di An e Fabio Garagnani di Forza Italia hanno rilanciato, sulla base degli elementi messi a disposizione da Area, la riapertura dell’inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980. “I palestinesi” ha sottolineato Raisi, “avevano a Bologna un deposito di armi e su Bologna, secondo alcune testimonianze, gravitava lo stesso Carlos”. A decidere sull’eventuale revisione del processo deve essere la magistratura - hanno dichiarato i due parlamentari - ma ci sono elementi per riaprire le indagini”.

Da parte sua, Garagnani ha aggiunto che “invece di definire questo il periodo più difficile perché è stata approvata la nuova legge sull’ordinamento giudiziario, come ha fatto nei giorni scorsi, il procuratore di Bologna Enrico Di Nicola farebbe meglio a motivare la propria volontà di riapertura o di non riapertura dell’inchiesta”. Garagnani si è detto personalmente convinto anche di un “ruolo oscuro” del Kgb: “Il modo migliore per onorare le vittime è cercare la verità sulla strage, una verità sulla quale la cultura preponderante di sinistra ha impedito di far luce”.

venerdì 1 agosto 2014

Strage di Bologna. “Nessuno ha pagato per l’ignobile depistaggio su Nanni”: De Angelis su Il Tempo...


Caro direttore,
oggi che i magistrati chiedono l’archiviazione della cosiddetta «pista Carlos» sulla strage di Bologna, le racconto una storia. Mio fratello Nanni aveva 22 anni quando venne trovato impiccato in una cella di Rebibbia, il 5 ottobre del 1980. Dopo l’arresto l’avevano ripetutamente picchiato e in cella lo trovarono impiccato. La stampa non si interrogò troppo su quell’estremista nero il cui unico appeal mediatico era riferito a un sospetto infondato per il suo coinvolgimento nell’omicidio di Valerio Verbano quando poi, a scagionarlo, fu lo stesso padre del ragazzo di sinistra ucciso. Sei anni dopo la morte di Nanni un giudice si trovò tra le mani una ragazza il cui giovanissimo fidanzato era stato ucciso dalla polizia a un posto di blocco. Torchiata a dovere la giovane si rese disponibile a dichiarare qualunque cosa, persino che il fidanzatino, troppo giovane per aver mai conosciuto personaggi degli anni Settanta, aveva raccolto confidenze sul «vero» esecutore della strage di Bologna e gliele aveva trasmesse.
Il colpevole sarebbe stato un altro ragazzino: Luigi Ciavardini. A questa rivelazione si aggiunse un contributo del massacratore del Circeo, Angelo Izzo, che faceva di tutto per accreditarsi come collaboratore per ottenere benefici, che assicurò ai giudici che se c’era Ciavardini non poteva non esserci mio fratello, che era suo amico ed era stato arrestato con lui. In quei sei anni la magistratura aveva già sbattuto in prima pagina almeno tre sicuri colpevoli risultati assolutamente estranei dopo appena poche settimane. Colsero la palla al balzo e una nuova soluzione del mistero della strage venne così costruita sulla testimonianza attribuita a un morto, che non poteva smentirla, e con un capro espiatorio anche lui comodamente morto e quindi nell’impossibilità di difendersi.
Solo il caso volle che il 2 agosto mio fratello avesse un alibi, perché protagonista della finale del primo campionato di football americano in Italia, con tanto di riprese televisive che lo scagionavano. Ecco. Alla strage di Bologna si è voluta imporre una matrice politica prima ancora che si fosse svolta alcuna indagine. Per decenni le ricerche sono state indirizzate in una sola direzione e si è impedito agli inquirenti di rivolgersi dove altri elementi, più chiari e più razionali, potevano condurre. Mio fratello doveva essere lo strumento per chiudere l’inchiesta con un colpevole di comodo e occultare per sempre la verità. Nessuno ha mai pagato per quell’ignobile depistaggio. (da Il Tempo)