mercoledì 26 febbraio 2014

Futurismo e fascismo: riparte la sagra dei luoghi comuni...

Dinamo-Marinetti
di Giorgio Nigra (Il Primato Nazionale)
Roma, 26 feb – Un servizio di piatti in 12 pezzi, di cui uno decorato con una grossa “F” e la scritta “Fascismo Futurismo” mentre su un altro compare il motto: “Duce Duce Duce”. Chi, fino al 1 settembre, si recherà presso il Guggenheim Museum di New York a visitare la mostra “Italian Futurism, 1909–1944: Reconstructing the Universe” potrà imbattersi anche in queste opere realizzate dal pittore futurista Giovanni Acquaviva nel 1939. Un piccolo omaggio a una grande alleanza culturale e politica – quella fra fascismo e futurismo – che pure in questi giorni, presentando l’evento, più d’uno ha cercato di sminuire.
Repubblica, per esempio, ha intervistato lo storico dell’arte Enrico Crispolti per farsi dire un po’ di banalità assortite, come la elementare constatazione per cui “il Futurismo, nato nel 1909, precede il fascismo di dieci anni esatti”. Per Crispolti, quella fra fascismo e futurismo “fu una relazione altalenante, che nacque nel 1919, si ruppe nel ’21 per poi riprendere nel ’24. Ma quello dei futuristi verso il fascismo fu soprattutto un rapporto nostalgico” in quanto “i futuristi avevano nostalgia del fascismo ‘rivoluzionario’ del 1919, il ‘diciannovismo’, che, almeno in parte, sembrava voler realizzare il loro programma politico, ma non erano interessati a quello di regime. Anzi, il Futurismo venne emarginato dalle mostre ufficiali del tempo”. Bontà sua, lo studioso ammette che “i futuristi non erano certo dei partigiani, ma rappresentavano, in qualche modo, un’alternativa extraparlamentare”.
Siamo ancora al dogma di Bobbio per cui non è mai esistita cultura fascista: se fu cultura non fu fascista e se fu fascista non fu cultura.
C’è ovviamente del vero in alcune affermazioni: il futurismo non fu “arte di regime” ma proprio perché, a differenza del nazionalsocialismo, il fascismo non volle imporre uno stile ufficiale all’arte, favorendo anzi il dibattito e la concorrenza fra le varie scuole, come esplicitamente chiarito nel famoso dibattito sull’arte lanciato nel 1926 da Critica Fascista. Quanto, in generale, il futurismo abbia influenzato lo stile dell’epoca è comunque noto, tanto nelle espressioni ufficiali che in quelle magari pubblicitarie, per esempio, senza bisogno di doverci tornare sopra.
La biografia di Marinetti, del resto, parla chiara. Nel suo Squadristi, Mimmo Franzinelli colloca il fondatore del futurismo tout court fra i membri delle squadre d’azione, ricordando la contestazione a Bissolati organizzata assieme a Mussolini, la sua presenza a piazza San Sepolcro e nel comitato centrale dei fasci, la sua partecipazione all’assalto fascista al corteo socialista di Milano, alla distruzione de L’Avanti!, all’attacco insieme a Vecchi di un corteo di cattolici, i cui stendardi vengono gettati nel Naviglio. Candidato nella lista fascista alle elezioni del 1919, fu secondo solo a Mussolini per numero di preferenze. Dopo la rottura del 1920, si riavvicinò al fascismo nel 1924. Nel 1929 venne nominato Accademico d’Italia. Partecipò inoltre come volontario alla guerra di Etiopia (1936) e, a sessantasei anni, alla spedizione dell’Armir in Russia. Il suo ultimo testo, scritto poco prima di morire, fu Quarto d’ora di poesia della X Mas. Volle essere sepolto in camicia nera.
In generale resta l’impressione che l’essenza del problema sfugga completamente, a differenza di quanto non accadeva, ancora sotto il fascismo, a un Benedetto Croce, che sulle pagine de La Critica spiegò: “Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza a scendere in piazza, a imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia, in quella sete del nuovo, in quell’ardore a rompere ogni tradizione, in quella esaltazione della giovinezza, che fu propria del futurismo”.
Ecco: il “senso delle connessioni storiche”. È questo che manca. Perché non serve sapere quante volte Mussolini e Marinetti hanno litigato (poche, comunque) né quanti futuristi italiani sono diventati antifascisti (quasi nessuno, comunque). Esiste una parentela storica, politica e culturale che è innegabile e che passa al di sopra delle contingenze e che anzi può addirittura essere la causa stessa delle eventuali rotture (si litiga più fra amanti che fra amici e più fra amici che fra conoscenti).
Anche quando Marinetti e Mussolini sono più lontani, la tensione nasce dal rimprovero ai fascisti di essere troppo poco radicali, troppo poco spregiudicati, troppo poco aggressivi. Marinetti sognava un fascismo perennemente immerso nell’effervescenza squadrista, che bastonasse, metaforicamente e non solo, tutti i residui dell’italietta giolittiana. Indipendentemente dal fatto che queste aspirazioni fossero davvero traducibili in politica o meno, di sicuro quello che voleva Marinetti era un fascismo più, e non meno, fascista. In questo fascismo futurista, la sede di un giornale comeRepubblica sarebbe stata vista come un semplice avamposto nemico da profanare con goliardica spietatezza, in una pioggia di ritagli inceneriti e canti di guerra…

martedì 25 febbraio 2014

Il Fronte della Gioventù di eresia e d’avanguardia. La storia “mai raccontata” in un libro di Amorese...

di Romana Fabiani (Secolo d'Italia)

«La gioventù sa vincere, ma non sa conservare la vittoria», firmato Lawrence d’Arabia. È il distico che apre il libro di Alessandro Amorese (edizione Eclettica) dal titolo Fronte della Gioventù. La destra che sognava la rivoluzione: la storia mai raccontata. Il giovane autore, giornalista e scrittore toscano, la prima tessera del Fdg solo nel ’90, è il primo nel panorama editoriale a ricomporre le mille tessere del mosaico di una delle più grandi organizzazioni giovanili del dopoguerra. Il volume denso di testimonianze inedite, presentato in anteprima ad Atreju 2013, è il frutto di un anno e mezzo di lavoro, un racconto «non di muscoli ma di cervelli» che intreccia l’evoluzione politica dell’organizzazione giovanile missina, troppo stretta nei recinti del partito, alle vicende umane in un percorso generazionale che parte dai primi anni ’80 (reduce dall’esperienza dei Campi Hobbit e della repressione del post-Bologna) e si ferma al 1995 con un occhio speciale al periodo 1990-95 che rappresenta la più grande novità espressa dalla destra politica italiana. Fu la stagione che vide in tutta Italia (da Roma a Verona, Bologna, Firenze, Siracusa, Reggio Calabria, Bari) un proliferare di sperimentazioni in campo politico e culturale e un mutamento antropologico dell’ideal tipo di destra. E la nascita di un nuovo movimento che fu l’avanguadia del partito, laboratorio permanente di progetti ereditati dalla successiva destra di governo. «Un dirigente periferico dell’Emilia Romagna mi ha detto di scrivere che fu come il Guf per il fascismo – racconta Amorese – non lo credo, ma l’ho scritto perché probabilmente a Modena fu davvero così». È un Fdg raccontato senza intenti autocelebrativi né fastidiosi tic autoreferenziali, parlano invece i fatti che ne fanno uno degli interpreti della fine del 900 italiano. Si parte dal congresso provinciale romano del 1982 che segnò il nuovo inizio con l’elezione di Gianni Alemanno nel nome dell’Autonomia giovanile, titolo del documento congressuale, con l’apporto decisivo della sezione Colle Oppio che “sponsorizzò” il futuro ministro e sindaco di Roma per superare la logica delle rissose e rigide correnti interne al Msi, viste come un bubbone e un freno a mano per i giovani. Sul fronte opposto Andrea Augello, rautiano doc che sfidava l’organizzazione ufficiale rappresentata da Fini.

«Era troppo importante per noi trovare una sintesi, non essendo né rautiani né almirantiani – spiega Rampelli – avevamo a cuore la ricostruzione del Fronte ed eravamo consapevoli che le condizioni storiche che si profilavano erano una irripetibili». «Alemanno – conferma Augello – si configura allora come l’uomo possibile della mediazione perché non spaventa le controparti ed è un ragionevole compromesso». Da quel “compromesso” nasce una giunta romana “fantastica” con Rampelli, Augello e i fratelli Buffo. Ma non finiscono le spaccature di un movimento diviso tra due correnti, due “mondi” che si tiravano le sedie ma che poi cantavano insieme il Domani appartiene a Noi. Oltre ai romani la nuova generazione Effedigì vide protagonisti Marco Valle e Paola Frassinetti a Milano, Raffaele Zanon a Padova, Fabio Granata a Siracusa, Enzo Raisi a Bolgona, Nicola Pasetto a Verona, Carlo Ciccioli nelle Marche, Roberto Menia e Almerigo Grilz a Trieste. E molti altri.

Paolo Di Nella è il ritratto del nuovo militate frontino, certo nazional-rivoluzionario ma lontano mille miglia dall’identikit del neofascista. «Di Nella è un ragazzo del futuro», scrive Franz Maria D’Asaro sul Secolo d’Italia. Nel suo nome si gioca la scommessa del futuro, a partire dalla scelta sofferta di non rispondere con la violenza alla violenza, di lasciarsi alle spalle il buio degli anni di piombo appena trascorsi. L’uccisione del militante ecologista ante-litteram, impegnato per il recupero del parco romano di Villa Chigi, è uno spartiacque per il Fdg. Da allora nulla è più come prima: si comincia con il superamento degli opposti estremismi e si finisce a occuparsi di ambiente, anti-mafia, politica estera, di un patriottismo “differente” che non è nostalgia post-risorgimentale, di comunità, si legge il sociologo Toennies, si guarda alle analisi di Pino Rauti, alFascismo immenso e rosso di Accame, all’eresia di Beppe Niccolai. Si torna nelle scuole e nelle università nel nome di un movimentismo capace di uscire dal ghetto e dalla mera testimonianza. E i fatti danno ragione ai pionieri del nuovo Fronte, che determinano un cambiamento di clima testimoniato dalle prime tiepide espressioni di solidarietà degli “altri” agli studenti di destra aggrediti, si sperimenta il dialogo con l’avversario (memorabile l’assemblea contro alla violenza alla Sapienza con ospite il compagno Duccio Trombadori). Nell’84 il successo della lista Fare Fronte per il contropotere studentesco (che adotta come simbolo la Croce Bretone) inaugura la stagione delle sigle parallele che fanno breccia nella società, un nome tra i tanti “Fare Verde” di Paolo Colli, anti-nuclearista doc.


Anche il linguaggio, persino i caratteri tipografici e la grafica, si trasformano: nell’84 appare il primo manifesto con l’immagine del gabbiano Jonathan Livingston con la scritta “per uscire dalla palude”, un anno dopo si entra a pieno titolo nel movimento dell’85 che vide in prima linea Marco Marsilio. E ancora, in un crescendo di “esperimenti” che cominciano a interessare i media, che scoprono per la prima volta “una destra normale”, il sindacalismo goliardico (“inventato” dagli universitari guidati prima da Fabrizio Crivellari e poi da Marco Scurria), l’avanguardia “paninara” che fa tendenza a Milano, la straordinaria esperienza della Comunità giovanile di Busto Arsizio, ideata da Giovanni Blini morto in un incidente stradale al ritorno dalla Festa di Siracusa, ed ereditata da Luca Pesenti e Checco Lattuada. Il successo editoriale del mensile Morbillo prurito avventura (diretto da un “inconsapevole Adolfo Urso) con le sue provocazioni culturali, l’ingresso del Che (magari accanto a Nietzsche) nella nuova narrazione underground perché «tutti gli uomini di valore sono fratelli». Un viaggio lungo vent’anni che arriva alla generazione Meloni con i nuovi dirigenti nati negli anni ’80. «Non sono riuscito a trovare nessuno che si sia pentito degli anni di militanza, certo i delusi sono tanti», scrive Amorese nelle conclusioni. Anche le occasioni sprecate: ma questa è un’altra storia.

lunedì 24 febbraio 2014

UCRAINA: IL COMMENTO DI GABRIELE ADINOLFI AI FATTI DI KIEV...

Riportiamo il commento di Gabriele Adinolfi alla situazione ucraina. Un commento certamente diverso dai soliti, lontano dal manicheismo da tifoseria, consapevole della complessità dello scenario e della difficoltà di una lettura facile e diretta. 


Roma, 23 feb – Aldo Moro venne ucciso per le scelte politiche estere ed energetiche che aveva intrapreso e in particolare per l’accordo strategico passato con i palestinesi.

La sua pelle la volevano Kissinger, gli israeliani, i francesi e gli inglesi.

Ergo, per un osservatore lontano nello spazio e nel tempo, Moro è un martire e le persone per bene dovevano stare con lui.

Osservando più da vicino si scopre però che il leader democristiano era il principale alfiere del Compromesso storico e promuoveva quella coalizione di governo e di sottogoverno che i fascisti e perfino gli anticomunisti li perseguitava, li massacrava e che volentieri li avrebbe impiccati. Il suo padrino era papa Montini, regista del Concilio Vaticano II, che aveva avuto un ruolo di rilievo nelle congiure contro l’Asse. Ergo: nessun fascista avrebbe potuto sostenere Aldo Moro a meno di essere masochista e insano di mente.

Perché parlo di Aldo Moro oggi? Solo per fare un parallelo che ci aiuti a comprendere quel che accade in Ucraina e come sia assurdo prendere una posizione manichea per esclusivo ragionamento energetico o geopolitico.

In Ucraina i sovietici fecero carne da porco massacrando sette milioni e mezzo di persone e determinando una migrazione russa e russofona nell’est del Paese, oggi etnicamente e linguisticamente diviso.

L’Urss ha ereditato dalla Russia Zarista l’idea che l’Ucraina sia una sua provincia, gli ucraìni invece si considerano Nazione.

Dopo l’implosione dell’Urss e della successiva Csi, le due concezioni permangono e si oppongono.

La minoranza russofona che oggi – o forse è opportuno dire fino a ieri – ha le mani sul governo, è particolarmente arrogante, si riconosce nella continuità della nomenklatura comunista, si nutre di retorica bolscevica, è prepotente. Le statue degli eroi nazionali ucraìni sono state divelte e plasticate.

Gli ucraìni si sentono minacciati dalle ingerenze russe (o quantomeno da quelle dei partigiani russofoni) e cercano sponda in Occidente. Sicché Soros finanziò la “rivoluzione arancione” che era così poco consona allo spirito profondo degli ucraìni che riuscì a fallire miseramente fino a far scegliere, anche da una parte dell’elettorato nazionalista, alle elezioni successive un governo russofono che si presentava come moderato ma che presto tradì le promesse.

Oggi siamo in piena guerra mondiale scatenata sulle arterie energetiche.

In questa guerra mondiale si vuole paralizzare la pipeline naturale che l’Ucraina rappresenta come congiunzione tra Russia ed Europa.


Alle prepotenze stupide di una minoranza filo-moscovita, probabilmente molto più intransigente di quanto lo sia lo stesso Cremlino, hanno fatto seguito i cerini sulla benzina accesi dal pianeta Soros, con tanto di fondazioni democratiche e di contractors angloamericani e isrealiani.

Lo scopo: la guerra civile e la divisone dell’Ucraina in due Stati.

Si può evitare?
Solo se si dà vita ad una lunga e corretta trattativa, che poi è quello che sembra aver deciso Putin, stanco dell’esuberanza infantilistica dei suoi ultrà locali. Una trattativa alla quale dovrebbero partecipare Francia, Germania e Polonia. Ovverosia i partners principali della politica e dell’economia eurorussa che Putin non ha ancora accantonato, per nostra fortuna.

Trattative difficilissime ma non impossibili.
Ora, il ruolo dei nazionalisti ucraìni, ai quali non può non andare la nostra simpatia, la nostra solidarietà e la nostra partecipazione, diventa delicato e decisivo.

Si tratta di denunciare la manovre di Soros e dei suoi fratellastri e di scalzarne le ingerenze con opera assidua di sorveglianza e d’inchiesta.

Si tratta di rivendicare il nazionalismo ucraìno e la non negoziabile indipendenza nazionale ma, al tempo stesso, di accogliere la necessità di un rapporto privilegiato con la Russia, sia per ragioni economiche ed energetiche, sia per prospettiva di divenire storico, sia perché, dal punto di vista dello scontro di civiltà e di cultura che oggi contrappone Mosca e l’Occidente, l’Ucraina è nello stesso campo di Putin e non può cambiarlo in nessun modo senza mutar pelle e anima.

Un compito delicato ma essenziale, il loro. Il nostro invece è quello di abbandonare le categorie del tifo e anche quelle dell’astrazione teorica per raggiungere un’empatia reale con chi ci è idealmente ed antropologicamente affine e per dare il nostro piccolo contributo nella giusta direzione. Per paradossale che sia (ma ogni scelta essenziale nasce nel paradosso) questa è per l’indipendenza ucraìna nella collaborazione ferma con la Russia di Putin.

Et et, non aut aut.

Ce la si può fare.

venerdì 21 febbraio 2014

La stampa indiana contro New Delhi: «Sul caso dei marò il governo ha sbagliato tutto»...


di Valeria Gelsi (Secolo d'Italia)

Qualcosa si muove nell’opinione pubblica indiana, in attesa che lunedì la Corte suprema si riunisca nuovamente – e, si spera, si pronunci – sul caso dei due marò. Nell’edizione di oggi, l’Hindunistan Times, terzo giornale per diffusione tra quelli in lingua inglese, critica fortemente la condotta del governo indiano, definendo ciò che è successonei due anni dall’incidente della Enrica Lexie «un esempio accademico di come non si deve gestire un caso simile». In un commento dal significativo titolo «Completamente in alto mare su questo», e con un altrettanto esplicito sottotitolo, «Il governo centrale ha titubato e annaspato sul caso e lo ha prolungato a detrimento dell’India», il quotidiano ribadisce che «vi sono pochi dubbi che l’India abbia gestito la vicenda in modo maldestro». Un esempio, è spiegato nell’articolo, «è stato quello di aver dato all’Italia l’assicurazione che la pena di morte non sarebbe stata applicata, senza tenere conto che se poi si cerca di formulare i capi di accusa in base a una legge anti-pirateria, spetterà al Tribunale decidere se applicare o meno la pena massima». 

L’indecisione del governo, conclude l’HT, «ha portato a una impasse diplomatica che ha spinto anche l’Unione europea a manifestare preoccupazione». «Nulla di più di un processo rapido è quello che desiderano le parti coinvolte in questo caso. Ma per il momento l’India sembra essere completamente in alto mare». Secondo gran parte degli osservatori a pesare è anche la situazione politica, diventata più delicata in vista delle elezioni legislative di maggio. Per lunedì la Corte suprema attende una risposta scritta del governo sull’applicabilità o meno del famigerato Sua Act, la legge anti-pirateria che contempla la pena di morte come unica condanna in caso di uccisione di indiani. L’esecutivo, su cui già grava la colpa degli infiniti rinvii, però, a questo punto potrebbe decidere di posticipare ulteriormente le decisioni, passando la pratica al prossimo governo. Uno scenario plausibile, alla luce di come sono andate le cose finora, ma che ormai rischia di avere dei contraccolpi diplomatici molto forti. 


La controffensiva italiana, infatti, inizia a dare i primi risultati e oggi la sorte di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre è stata anche tra gli argomenti affrontati ad Atene, nel corso di una riunione preparatoria della Conferenza interparlamentare sulla politica estera e di difesa dell’Ue. «Una tempestiva soluzione nel pieno rispetto del diritto internazionale e dei diritti fondamentali dei due militari italiani, affinché essi siano al più presto restituiti alle loro famiglie», è stato l’auspicio espresso dagli eurodeputati di diversi Paesi, fra i quali l’Italia è rappresentata dal presidente della commissione Difesa della Camera, Elio Vito. I parlamentari hanno sottolineato come sia «inaccettabile che militari in servizio possano essere accusati ai sensi della normativa anti-terrorismo e anti-pirateria» e, dunque, hanno espresso «viva indignazione» per quanto sta accadendo.

giovedì 20 febbraio 2014

Se un seme saprà germogliare …


di Mario M. Merlino


In uno degli ultimi viaggi d’istruzione, a Berlino, la mia collega d’inglese portò con sé il figlio, un ragazzetto curioso e ciarliero. Dopo alcuni anni Thomas (questo il suo nome e ormai fattosi giovanotto) mi ha contattato per invitarmi ad un convegno, tenutosi sabato 15 febbraio, in una ampia sala di un hotel di fronte alla stazione della metropolitana, via Laurentina. E mi ha chiesto di aggiungere qualcosa al già nutrito numero di oratori. Il tema: le foibe e l’esodo. Organizzatori: i giovani di Forza Italia. Gli amici Rodolfo e Roberto, anch’essi docenti di storia e filosofia e coautori di alcune pubblicazioni (l’ultima il romanzo La guerra è finita, appena edito), storcono la bocca sia perché hanno una visione pessimistica, a mio parere riduttiva, dell’impegno interesse capacità delle nuove generazioni e sia perché avvertono come, con le sue scelte liberiste, il partito di Berlusconi rappresenti quanto di più distante possa esserci con quell’Italia ‘proletaria e fascista’ a cui abbiamo affidato mente e cuore (in primis Roberto con il fascismo di sinistra, mediato dall’aver studiato alla scuola di De Felice, ed io con il mio anarcofascismo, mentre Rodolfo è più prossimo alle posizioni espresse da Julius Evola e Adriano Romualdi).

Non posso dar loro torto perché, sebbene alla fisiognomica non sia dato il riconoscimento di scienza, la gran parte dei dirigenti, tutti rigorosamente in giacca scura cravatta azzurra camicia bianca sembrano rappresentanti di commercio porta a porta. E i loro interventi un compitino un po’ sciatto e di contenuto modello vecchio Bignami. Ricordo, al contrario, la piccola modesta umile battaglia di un Merlino sedicenne al liceo per evitare di portare la cravatta, sempre con il maglione a girocollo, e ringrazio il ’68 e dintorni, fra molte altre cose, di aver potuto fare l’insegnante con i capelli lunghi la camicia fuori dei pantaloni e aperta sul collo. E ricordo quando la preside mi chiese con garbata ironia ‘quando avremo il piacere di vederla, professore, con i capelli corti?’ e la pronta mia risposta: ‘solo se lo vorrà la natura’…

Seguono gli interventi più direttamente specifici l’argomento sulla tragedia delle genti istriano dalmate e di Fiume, genti italianissime fin dal tempo di Roma, e ascolto parole sul dovere di possedere una memoria condivisa di instaurare civile dibattito di auspicare il superamento di destra e di sinistra in nome del dramma che ha offeso e lacerato la Patria tutta. Quel bla-bla-bla di buoni sentimenti, un minestrone insipido dove galleggiano le parole del politicamente corretto. Si chiude qui, anzi no, perché mi tocca, mi si chiede d’intervenire, presentandomi come un pezzo di storia (?), forse confondendomi con un cimelio d’archeologia… E preciso subito che non credo ad alcuna memoria condivisa, ognuno si tenga stretta la propria con i sogni gli ideali errori e orrori compresi (ciò vale per uno degli intervenuti che s’è fatto puntiglioso accusatore del fascismo, dando così il pretesto a coloro che giustificano ‘la pulizia etnica’ quale reazione, magari eccessiva, dello slavo assassino); che non può esservi alcuna civile dialettica e che la Patria (quella, appunto, che un tempo avvertivamo obbligatorio scrivere con la maiuscola in quanto, in primo luogo, te la portavi dentro, tua nella mente e nel cuore) l’è morta da lunga data.

E rinnovo quanto già scritto qui, su Ereticamente, del corteo di Trieste, con le sue atmosfere e suggestioni, il lungo lento silenzioso sfilare dalla chiesa di Sant’Antonio fin su a San Giusto e al monumento ai caduti. Di Trieste, città di confine, anch’essa preda delle bramosie titine in quei 55 giorni di occupazione e con la foiba di Basovizza a muta eloquente testimonianza di cosa rappresentò la cappa mefitica di quei lunghi oscuri giorni. E il rientro a Roma e, la notte stessa, la città deturpata da scritte infami e da manifesti in cui si inneggiava a Tito il boia e ai suoi sgherri. Cosa con costoro avere da condividere, quale memoria e civile convivenza? E, se va riconosciuto alla destra il merito d’aver approvato il giorno del ricordo, quanto poi s’è adoperata per renderlo patrimonio comune? Uno sceneggiato in televisione Il cuore nel pozzo dove, accanto a numerose ambiguità, non una volta è stata pronunciata la parola ‘comunismo’… E’ Lenin ad affermare che la conquista del territorio passa attraverso la conquista delle coscienze…

E cosa aver da spartire con quel consigliere comunale di Milano, lista del sindaco Pisapia, che ha scritto sul suo profilo come ci sia ancora posto nelle foibe? Io appartengo a quella generazione che, negli anni ’70, fu coinvolta dal terrorismo e accusata di terrorismo, beh, questa volta non ci troveranno impreparati e nelle foibe ci buttiamo loro… Immediata scatta l’apoteosi, una prolungata ovazione d’applausi… (Ognuno di quelli che conoscono ormai l’innata mia ‘modestia’ può immaginare il rossore sul volto, la testa e lo sguardo basso, la vergogna… ahahah…).

Carissimi Rodolfo e Roberto, ho sempre difeso quanto annotava Mishima Yukio e cioè come le emozioni antecedono il ragionare (non per altro mi definisco felicemente orfano dell’illuminismo e del marxismo). Amo la tragedia greca, soprattutto quella di Eschilo e Sofocle; condivido essere la filosofia uno dei tanti vani simulacri come pensava Céline; mi annoia da tempo leggere – e scrivere – saggi, mentre credo – e scrivo – dell’uomo che dà testimonianza in carne ossa e sangue (lo testimoniano Atmosfere in nero, Ai confini del nero e l’ultimissimo La guerra è finita). Non mi faccio, però, strane illusioni, non mi aggrappo a future premesse o promesse. Non mi sento deputato ad essere una sorta di chioccia sotto le cui ali protettive e sagge accorrono pulcini… Quei ragazzi, in quel momento, esprimevano quanto era in loro non quanto io dicessi; si spogliavano di giacca cravatta e incarichi per ritrovare, in qualche sperduto angolino di se stessi l’ardore e l’ardire della giovinezza di cui ci siamo nutriti (‘primavera di bellezza’). Poi, domani, torneranno ad essere figli di questo tempo in cui noi, oramai, ci sentiamo spaesati, ma pure abbiamo compiuto il dovere d’essere parola e azione e, se un seme saprà germogliare, vorrà dire che siamo stati degni e partecipi alla ‘bella battaglia’…

martedì 18 febbraio 2014

Tarchi: “Renzi? Gli manca la legittimazione popolare”...


Professor Marco Tarchi, riuscirà Renzi a reggere con il suo governo fino al 2018 senza aver ricevuto un mandato popolare attraverso le elezioni?

Lo ritengo improbabile. Al di là dell’impressione di incoerenza che questa sua improvvisa accelerazione può suscitare, credo che gli verrà spesso rimproverata, dagli avversari esterni ma anche da quelli interni, la mancanza di un crisma elettivo. Come molti hanno fatto rilevare, dopo Monti e Letta siamo a tre presidenze del Consiglio di origine extraparlamentare. È un’anomalia eccessiva. Inoltre non capisco a chi gioverebbe, se non a lui stesso, consentire a Renzi di completare la legislatura senza intoppi, avallandone qualunque scelta. Significherebbe, per tutti gli altri soggetti politici, consegnarsi senza combattere a una sconfitta elettorale certa.

Riuscirà Renzi a guidare due maggioranze diverse ma parallele: una maggioranza politica di governo senza Forza Italia e una maggioranza sulle riforme con Forza Italia?

Sarebbe uno straordinario esercizio di equilibrismo. A meno che, dentro Forza Italia, qualcuno – magari un qualcuno che sta molto in alto – non voglia di fatto favorire l’azione governativa di Renzi pur dichiarandogli formalmente un’opposizione, sperando di incassare dividendi su altri piani, a partire da un ridimensionamento dei margini di manovra della magistratura. Ma su questi maneggi da retroscena non si può andare oltre le illazioni. Se il centrodestra vuol davvero battere Renzi, non potrà stendergli il tappeto rosso sotto i piedi sulla via delle riforme di cui mena già tanto vanto(e rivendica la sostanziale titolarità.

L’accordo Renzi-Berlusconi sulle riforme (legge elettorale, titolo V, Senato) sembrava prefigurare un anno di tempo per la loro approvazione. L’impegno sarà mantenuto o adesso che si sta per formare un governo che vuole durare fino al 2018 le riforme, soprattutto quella elettorale, torneranno nell’album delle buone intenzioni?

Dipenderà da come Renzi, notorio uomo di marketing, interpreterà l’andamento dei sondaggi. Non può non essersi accorto, malgrado le quotidiane esternazioni, che quel modello Frankenstein o legge rubamazzo che ha proposto, cannibalizzando brandelli di normative esistenti e rimettendole assieme alla rinfusa con il solo scopo di raddoppiare il peso parlamentare di un partito che giungesse anche solo al 25% dei voti, potrebbe scavargli una buca sotto i piedi. Tuttavia, per invertire la rotta si deve aggrappare ad un pretesto. Vedremo se ne troverà uno convincente. Altrimenti, attribuirà a qualcuno degli alleati la responsabilità di aver depauperato l’agenda e si limiterà ai provvedimenti meno contrastati.

Ma Berlusconi continuerà a sostenere l’approvazione delle riforme istituzionali con un governo Renzi che vuole rinviare il voto fino al 2018?

Politicamente non è nel suo interesse. Non posso però non notare l’ambiguità di molti degli atteggiamenti recenti di Berlusconi, in materia di giudizio su Renzi, prospettive di elezioni, scelte sulla guida del partito, rapporti con i possibili futuri partners di coalizione. Mi dà l’impressione di essere quasi soggiogato da un leader del Pd che per la prima volta non lo demonizza, gli riconosce un ruolo paritario nella definizione di un piano di riforme e in materia economica fa affermazioni che certo non gli suonano sgradite. Non bisogna dimenticarsi che la dimensione psicologica delle idiosincrasie e delle simpatie ha sempre avuto un peso cruciale nelle scelte del Berlusconi attore politico. Portandolo a commettere già vari gravi errori.

Non è che Renzi parla di elezioni nel 2018 per rassicurare i partiti minori e i propri parlamentari, ma sotto sotto è già d’accordo con Berlusconi per varare le riforme istituzionali entro un anno e poi andare alle elezioni anticipate?

Non escludo che nel vasto quadro delle sue ambizioni, Renzi possa avere anche quella di far figura di nuovo Machiavelli, ma non esagererei. E poi, insisto, che interesse avrebbe Berlusconi a fargli fare delle riforme – cosa che in molti italiani susciterebbe molto probabilmente, speranze e simpatie – e poi, senza aspettarne gli effetti (che potrebbero essere ben diversi da quelli promessi, e quindi far nascere delusioni) –, mettergli elezioni anticipate sul piatto d’argento?

Con il varo del governo Renzi, Napolitano potrebbe ritenere conclusa la sua permanenza al Quirinale?


A giudicare dal suo comportamento di tutti questi anni, direi proprio di no. Perché dovrebbe rinunciare proprio oggi ad esercitare quella funzione pedagogica, molto più che di controllo, che gli è stata tanto a cuore fin qui? Già ha dovuto digerire la caduta di un presidente del Consiglio da lui inventato e sorretto quasi ad oltranza; se mollasse adesso, firmerebbe un atto di resa. Poco in linea con il carattere del personaggio. (da Diorama Letterario)

venerdì 14 febbraio 2014

Il tabù della memoria collettiva, dalle foibe italiane al bombardamento di Dresda...

Dresden, zerstörtes Stadtzentrum
di Luca Steinmann (Barbadillo.it)
Dresda (Germania) – Italiani contro Italiani. Tedeschi contro Tedeschi. Spagnoli contro Spagnoli. Francesi contro Francesi. Inglesi contro Inglesi.  Se nell’ottocento i nazionalismi portavano alla contrapposizione sciovinista tra i diversi popoli europei, oggi i conflitti sono interni agli stessi popoli. Un tempo in gioco c’erano gli interessi nazionali delle singole nazioni, la supremazia di un’etnia su un’altra, l’indipendenza dal dominio di un oppressore straniero.
Oggi i motivi dei conflitti intranazionali sono molto più astratti: per lo più si tratta di disaccordi ideologici su ciò che debba o meno essere considerato patrimonio comune. Per esempio le ricorrenze e le commemorazioni che per alcuni sono patrimonio comune, per altri sono solo un pretesto per accusare chi commemora di cercare di tirare acqua al proprio mulino.
I danneggiamenti ai monumenti in memoria dell’esodo istriano-dalmata avvenuti a Roma e Venezia di cui abbiamo assistito recentemente disegnano bene questo scontro: Italiani che se la prendono con monumenti dedicati ad Italiani per attaccare indirettamente altri Italiani. Un circolo vizioso che si chiude e si esaurisce in sé stesso che ha come fine quello di evitare che il ricordo dei massacri delle foibe diventi un’icona che superi la destra e la sinistra per rientrare nell’insieme di valori che formano un senso di stato e di patria universalmente condiviso. No. A ciò si preferisce l’odio tra connazionali. Tutto ciò, purtroppo, non è solo made in Italy.
A Dresda, in Germania, il 13 febbraio di ogni anno si commemorano le 130000 vittime civili causate dalle bombe angloamericane del 1945. Tale carneficina è un argomento a cui i cittadini di Dresda sono ancora molto sensibili, per cui tutti gli anni si recano numerosi al Heidefriedhof, il cimitero alle porte della città in cui sono sepolte migliaia di vittime di quell’attentato. Al suo interno vi sono statue, lapidi ed un’enorme lastra marmorea sulla quale vi è incisa una grande scritta commemorativa. Proprio questa, alla vigilia del 13 febbraio di quest’anno è stata presa di mira da alcuni individui incappucciati che nella notte l’hanno imbrattata di vernice rossa. Tedeschi che se la prendono con un monumento dedicato a Tedeschi per colpire altri Tedeschi.
Prendersela con i morti è un modo per attaccare altri Tedeschi che vorrebbero che il ricordo dell’apocalisse di Dresda diventasse un valore comune, per far sì che un tale evento non si ripeta mai più. Questi cittadini, per ricordare, marciano ogni anno per il centro cittadino in fila da cinque persone con striscioni, bandiere, fiaccole e corone di fiori. Durante il percorso vengono ricoperti di insulti dai contromanifestanti che, dai lati della strada e separati da un cordone di poliziotti, imprecano contro chi manifesta: “Tedeschi di merda, cosa pensate di riprodurvi solo tra di voi? I morti non sono vittime ma assassini, voi tedeschi siete responsabili della Seconda Guerra Mondiale”. Peccato che chi urla è più tedesco che mai. Biondi e dai lineamenti teutonici, i contromanifestanti nell’aspetto sono esattamente uguali a chi marcia. Tedeschi che insultano Tedeschi di essere Tedeschi. Un copione già visto a casa nostra che in Germania assume un sapore ancora più amaro, perché in questo caso non si tratta di impedire che una ricorrenza diventi un valore collettivo, ma di far si che un valore collettivo già esistente venga a meno. Molti cittadini di Dresda che fino a qualche anno fa partecipavano in massa alle commemorazioni pubbliche, infatti, negli ultimi dieci anno stanno smettendo di farlo per evitare di essere tacciati di estremismo.
Commemorare e ricordare vittime innocenti è da estremisti e pertanto da contestare. Da Dresda, dove si cerca di boicottare i cortei commemorativi, a Milano, dove si cerca di occupare la piazza da dove storicamente parte la fiaccolata in memoria di un’altra vittima innocente, Sergio Ramelli.
Come si può fare perché la sincera volontà di ricordare non venga criminalizzata? Come ci spiega Felix Menzel, direttore del quotidiano tedesco BlaueNarzisse, “quando le commemorazioni pubbliche diventano un pretesto per fare la guerra, allora è più dignitoso che ognuno di noi si prenda l’impegno di commemorare privatamente, da solo o con pochi intimi. Per non scordare e per onorare chi non c’è più ricordando silenziosamente. In stillem Gedenken”.

giovedì 13 febbraio 2014

FIAT E BANKITALIA: LA NAZIONE TRADITA DALL'USURA...




Ronin Pisa, questa notte, ha esposto due striscioni contro la privatizzazione della Banca d'Italia e lo spostamento del "quartier generale" della Fiat fuori dai nostri confini. Sono stati appesi in Largo della Degazia a Pisa e davanti all'ex magazzino Nelli a Castelfranco di Sotto. Ci dichiariamo profondamente ostili a questa becera svendita della sovranità del nostro Stato, della nostra economia e della nostra storia. Consideriamo la privatizzazione di Banca Italia come un atto di alto tradimento: in maniera vile e pericolosa chi ci governa ha regalato la Banca degli italiani alle banche private, a quell'elite illuminata e finanziaria che ci ha condotti (scientemente, aggiungiamo) alla crisi che stiamo vivendo oggi. E cosa dire del caso Fiat? Pardon, per gli sciacalli dell'alta finanza quella sigla deve essere suonata troppo "retrò", e ne hanno scelta una nuova, FCA: sigla più "americana" e, per questo, preferita da Marchionne e co, a tal punto da non aver fatto caso che, leggendola in italiano, viene fuori una parolaccia! Fca: come "fica", ma sarebbe meglio dire "sfiga" per descrivere questa situazione! Peccato, però, che non si tratta di sfortuna, ma di scelte infami prese alle spalle degli italiani. E poi, chissenefrega dell'Italia e dell'italiano.. Chissenefrega se milioni di operai subiranno un peggioramento delle condizioni di lavoro o un licenziamento. Chiessenfrega dei soldi che la Fiat versava in Italia e che ora non verserà più. È lo stesso "San" Befera a dire che "nessuno può impedire alla Fiat di fare le scelte necessarie per la sopravvivenza e lo sviluppo dell'azienda". E Befera non è il solo. Leggendo i giornali, fior fiori di "saggi" economisti e "seri" membri delle istituzioni ci hanno tranquillizzati: "sono le leggi del mercato che lo chiedono", "sono misure leggi doverose" e così, scimmiottanti, accompagnano l'Italia verso la perdita di qualsiasi tipo di sovranità. E i sindacati? Loro non sono mai stati così "prudenti" come in questi ultimi mesi e non ci stupiremmo se avessero sostituito la loro stella rossa con una più "elegante e chic" dal color rosa tenue (le mode cambiano, si sa!). La protesta di Ronin Pisa non si fermerà all'esposizione di due striscioni, ma continuerà ad urlare lo sdegno nei confronti di quei parassiti che si sono insinuati nei ruoli di potere italiani. Non staremo a guardare, fermi. Lanciamo, perciò, un appello a tutti i ragazzi come noi, perchè non aspettino troppo a ribellarsi: alzate anche voi la voce, facciamoci sentire. Non abbiamo più tanto tempo.

mercoledì 12 febbraio 2014

La “colpa” di essere italiani: quei giorni dell’esodo e delle foibe…




di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

In questi dieci anni le pagine di storia strappate dal libro dell’Italia stanno lentamente cominciando a essere reinserite. Piano, piano, ma sempre più italiani stanno venendo a conoscenza di due delle maggiori tragedie nazionali: l’esodo giuliano-dalmata e le foibe. Dal 1945 al 2004, infatti, nelle scuole nessun professore ha mai raccontato agli studenti cosa accadde ai nostri confini orientali in quegli anni. E il cittadino della strada non sapeva neanche cosa volesse dire il termine “foiba” né era a conoscenza del fatto che centinaia di migliaia di suoi compatrioti furono costretti ad abbandonare le loro vite in fretta e furia. perché minacciati dalle truppe jugoslave. 

Né, soprattutto, si fece mai luce sull’atteggiamento supino dei governi italiani nei confronti della tracotanza di Tito, allora dittatore della Jugoslavia e a capo dei partigiani rossi, grazie al quale atteggiamento molte terre italiane sono oggi straniere. E il perché di questa sordina imposta ai masse media, agli storici, alle istituzioni, è presto spiegato: nessuno ci faceva una bella figura. Il Partito comunista, perché di fatto appoggiava i partigiani titini e le rivendicazioni jugoslave, in contrasto quindi con l’interesse nazionale, i democristiani e i loro sodali, perché avevano rinunciato alle rivendicazioni e perché avevano nascosto gli esuli, non sostenendoli in alcun modo e facendoli vivere ai limiti della sopravvivenza in campi profughi. Addirittura, la sezione del Msi di Colle Oppio, ubicata dentro un rudere romano, si chiama ancora oggi “Istria e Dalmazia” perché negli anni intorno al 1945 vi dormivano profughi e rifugiati da quelle terre. Insomma, erano tutti d’accordo nel silenziare la tragedia. Se non fosse stato per il Movimento Sociale Italiano, unico custode della memoria degli esuli e degli infoibato, oggi probabilmente della questioni nessuno parlerebbe più. 

Furono infatti il Msi e i suoi esponenti e militanti che, ogni anno, puntualmente, solitari, ricordavano e commemoravano le vittime in cerimonie disertate da tutte le istituzioni. Ma per sessant’anni il Msi con il suo organo ufficiale il Secolo d’Italia, ha ricordato, ricostruito, denunciato, raccontato, testimoniato cosa accadde a quei nostri connazionali colpevoli solo di essere italiani. E le uniche canzoni che li cantavano, i nostri esuli, erano quelle dei gruppi alternativi di area, musica che più underground non si può, che raccontavano che «in Istria, non vi sembri strano, anche le pietre parlano italiano». Ma la cosa non andava oltre il ristretto e criminalizzato ambiente missino, così per decenni accadde che gli esuli istriano erano ricordati solo da altri esiliati, esiliati in patria. I profughi infatti non erano ricchi, non avevano amici potenti, non facevano pena all’intellighentzia di sinistra che in Italia ha raccontato la storia come le faceva comodo. Non potevano contare su nessuno, se non su un pugno di associazioni di esiliati e appunto sull’Msi. “Silentes loquimur” era una di queste associazioni della memoria, ossia, “noi silenti parliamo”, riferendosi ai morti infoibati. 

Già: sappiamo tutto delle atrocità commesse durante la guerra, ma non abbiamo mai saputo nulla su ciò che hanno subìto i nostri compatrioti del confine orientale: sevizie di ogni genere, stupri collettivi, torture, menomazioni e infine la morte terribile, precipitati giù negli inghiottitoi carsici legato col fil di ferro uno all’altro e costretti all’agonia dolorosa accanto ad altri che erano pietosamente morti sul colpo. Per tutto valga il nome di Norma Cossetto. E non erano fascisti o nazisti, come i negazionisti della sinistra hanno detto per anni, no: erano solo italiani, e colpevoli proprio – e solo – di questo. Chi non ha perso la vita, ha perso un parente, un amico, le case, i beni, i ricordi, l’identità, tutto. E ha perso soprattutto la comprensione dello Stato italiano,che invece di accoglierli e aiutarli, li ha nascosti per sessant’anni. 

Le cose sono cominciate a cambiare con la legge che ha istituito il Giorno del Ricordo per il 10 febbraio , legge varata dal governo Berlusconi ma fortemente voluta dalla componente di Alleanza Nazionale, “erede” del Msi. Da allora faticosamente si sta squarciando il velo di omertà che ha sempre ostacolato la memoria. È un percorso difficile, lento, perché ancora oggi molte amministrazioni rifiutano di celebrare il Giorno del Ricordo, ma se non altro oggi molti italiani sanno davvero quel che accadde. E accadde che in quei giorni in cui le truppe jugoslave avevano invaso l’Istria e Trieste, migliaia e migliaia di italiani hanno perso la vita assassinati barbaramente per la loro etnìa, altri sono stati annegati, altri ancora deportati nei lager titini, dai quali non sono più tornati. Ma oggi, finalmente, malgrado il negazionismo fazioso delle sinistre, la verità sta emergendo.

venerdì 7 febbraio 2014

Il Comune di Venezia distribuisce fiabe gay negli asili e nelle scuole...


da Imolaoggi.it

L’iniziativa è di Camilla Seibezzi, la delegata del sindaco, che ha fatto già parlare di sé per la proposta di sostituzione delle parole “mamma” e “papà” con “genitore”

Un’iniziativa che farà discutere: 46 fiabe “gay” per contrastare la discriminazione e l’omofobia. Come racconta il Corriere della Sera, l’iniziativa è di Camilla Seibezzi, la delegata del sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, la stessa Seibezzi che tempo fa fece parlare di sé per la proposta di sostituzione delle parole “mamma” e “papà” con “genitore”. Adesso, la delegato del sindaco ha selezionato i libri di favole da distribuire in dieci asili nido e in 36 scuole dell’infanzia. 


Nei testi si parla delle diverse forme familiari: da quella con due papà a quella con due mamme, passando per “E con tango siamo in tre”, la storia di due pinguini maschi che covano un uovo. 

giovedì 6 febbraio 2014

A ROBERT BRASILLACH...


Fight Club, lotta al consumismo e al disagio sociale...


di Antonino De Stefano (L'Intellettuale Dissidente)

Fight Club: inizialmente romanzo introspettivo e pungente di Chuck Palahniuk e successivamente ispirazione per il celebre prodotto cinematografico ormai decennale firmato da David Fincher dalla posizione altrettanto critica verso una società eccessivamente fondata sul sistema bancario, consumistico e lontana dalle esigenze delle persone.

Apparentemente risulta illustrazione di un forte disagio individuale, un’invadente esplorazione della coscienza e della psiche di un impiegato, uno come tanti, intrappolato in uno sporco sistema di assicurazioni che calcola il valore della vita umana in dollari, sottostando ad un triste algoritmo comprendente numero di morti in incidenti d’auto, futuri rischi di incidente e relativi guadagni o perdite derivanti dal ritiro dal mercato di automobili mal fabbricate e insicure. L’impiegato, oppresso dal suo lavoro sintomo della malattia che un mercato infetto ha diffuso nella civiltà, soffre di insonnia, e vive in un continuo dormiveglia nemmeno degno di essere chiamato vita perché ‘’con l’insonnia niente è reale. Tutto è lontano. Tutto è una copia di una copia di una copia…’’. Per quante persone la vita è una copia, magari di una brutta copia, di un modello imposto dall’alto e di cui i primi beneficiari non sono certo loro stessi? All’inizio l’uomo cerca di curare il suo ‘male di vivere’ con una sorta di shopping therapy, comprando in maniera quasi maniacale mobili di Ikea, come se la creatività impiegata nel suo appartamento potesse in qualche modo distinguerlo dagli altri. Esamina costantemente il catalogo e compra, compra, compra chiedendosi‘‘Quale tipo di salotto mi caratterizza come persona?’’: Ovviamente non funziona. Quello che a tanti può sembrare una sorta di riscatto o di rivincita è in realtà l’ennesima catena che ci stringe: anche un colorato appartamento può diventare una prigione se al di fuori di esso la personalità non si sviluppa e ‘’le cose che possiedi alla fine ti possiedono’’. L’unico modo per uscirne e dormire sonni tranquilli è visitare i gruppi parrocchiali di malati terminali, affetti da malattie di vario genere, e stringerli, abbracciarli, non certo per compassione, bensì per egoismo, e assaporare, oltre al prominente seno di Bob (un massiccio uomo affetto da cancro ai testicoli) il loro dolore, immergersi nella tristezza dell’abbandono. Proprio così, i malati sono emarginati e vivono per l’incontro settimanale con altri malati. L’abbandono dei figli, delle mogli, dei colleghi, i malati sono abbandonati dal mercato del lavoro, dalla società, e nell’oscura saletta parrocchiale sembrano abbandonati dallo stesso spirito vitale che tanto vitale non è. Estraniarsi dal suo dormiveglia e fingersi malato per osservare e vivere del dolore altrui, sì, proprio da osservatore, in una sorta di consolazione all’insegna del ‘‘c’è chi sta peggio di me’’ è la soluzione ideale per l’impiegato. Finché non incontra Marla, che come lui è sana fisicamente, non per questo estranea a una forte spaccatura psichica, e che disturba il suo metodo rinchiudendolo nuovamente nella stretta gabbia dell’insonnia e privandolo del benessere guadagnato dalla sofferenza altrui, rendendolo consapevole che lui non è altro che un impostore, fautore di una folle e falsa messinscena.

Ma non è abbastanza, tanto che l’insonne viene affiancato da un alter ego rivoluzionario, menefreghista, assolutamente anticonformista,impulsivo e pressoché nichilista Tyler Durden, uno che alle regole della società che opprime l’impiegato non ci sta. Lui produce ‘sapone’, vive in una casa abbandonata e viene visto dal protagonista come un alternativa allo schifo di tutti i giorni. Quando ‘misteriosamente’ il colorato appartamento dell’impiegato è luogo di una violenta esplosione inizia la convivenza con Tyler. E’ l’inizio del Fight Club. Il protagonista e Tyler danno vita a una serie di combattimenti clandestini e segreti. Sempre più persone sono coinvolte. L’impiegato capisce di non essere il solo a sentirsi alienato dalla propria esistenza. La violenza funge da antidoto alla monotonia quotidiana, al mancato riscatto della maggior parte degli individui. Potente valvola di sfogo sicuramente, ma per Tyler non è abbastanza. Lui punta a una vera e propria rivoluzione. Ma Tyler non è nient’altro che l’altra faccia dell’impiegato, quella nascosta, arrabbiata, esasperata, a cui non importa più nulla né delle assicurazioni né tantomeno di Ikea. Il Fight Club si trasforma nel ‘progetto Mayhem’ e non si parla più di lotte clandestine, ma di battaglie, combattute dichiarando guerra al sistema, alle banche, ai luoghi di lavoro.

Lo stesso impiegato sottomesso è incarnazione dell’ inetto sveviano e, con il prodotto del suo subconscio Tyler, dichiara guerra alla società che lo ha ridotto a solo corpo, con due anime o forse nessuna. I lottatori si trasformano in esercito, non ci sono regole se non quella di abbattere il sistema. Il sapone diventa esplosivo. Un vortice trascinatore che porta confusione, lutti, altra violenza, vandalismo; una dinamica alla quale difficilmente si riesce a stare dietro, vortice che comincia con una pistola puntata in bocca e si conclude allo stesso modo. L’evoluzione del pensiero di Tyler è coinvolgente, è sicuramente sintomo di rottura con il sistema corrotto che con la sua corruzione miete milioni di vittime, che si identificano con ragazzi, padri di famiglia, medici, professori, artigiani, artisti…tutti quanti.

Isolamento, alienazione, perdizione, esasperazione, rabbia, violenza, oppressione, assicurazioni, banche, malattie, frustrazione, abbandono, caos, estraniamento, collasso: un quadro tutt’altro che ottimista quello della società che Palahniuk propone. Ma sono termini che si trovano solo nel film o nel romanzo? Oppure ci appartengono più di quanto pensiamo? E allora si parla di un racconto frutto della fantasia di uno scrittore pessimista oppure dei risultati a cui una società con i suoi aspetti negativi portati agli estremi può condurre?

E allora si comincia a sentire una voce, simile a quella di Tyler, che ti spinge a voltare le spalle a questo maledetto sistema, a questi sballatissimi criteri di giudizio, a questa infinita e insensata classificazione delle persone in classi che appartengono al sistema consumista. Quella voce ti grida che ‘’Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo!’’ Non contano i sogni, le ambizioni, i meriti, i talenti e tutte quelle cose su cui ruotano polemiche e dibattiti in questo mondo in crisi, dove la crisi più in rilievo è quella economica, non quella di valori, non quella dell’individuo, non quella della mala distribuzione delle risorse; no è la crisi economica quella intorno a cui gira tutto. E quindi si danza e si canticchia nello stesso mondo in cui si è costretti a puntare la pistola alla nuca di un cassiere immigrato e minacciarlo di ucciderlo nel caso in cui non prosegua i suoi studi da veterinario e insegua il suo sogno. Ma a parte Tyler, frutto di una mente collassata, non c’è nessuno che ti costringa a seguire quello che sei, e quello che sei non conta più, perché tanto la vita è solo una lunga attesa della morte, un lungo tentativo inutile di sopravvivenza. Inutile perché il corpo vive, ma le facoltà intellettuali muoiono ogni giorno, schiacciate sotto al peso dei soldi, del lavoro che non hai mai voluto fare, dei politici che non ti rappresentano e degli oggetti che ti fanno sentire ricco, benestante, ma che alla fine ti rendono solo un umile schiavo, che correndo all’impazzata diventa solo un fantoccio delle multinazionali, delle banche, le cui uniche leggi non sono morali ma sono quelle dell’ obsolescenza programmata, della sopraffazione, dell’isolamento, dell’obbedienza e della distruzione.

Distruzione, è proprio questa che ottiene Tyler con il Progetto Mayhem (‘Progetto Caos’ nel libro). La distruzione di sé stesso, in un folle dialogo su uno dei piani alti di un grattacielo, tra lui, quello a cui non importa di morire, quello che ‘tanto il sistema si può abbattere’, e l’altra parte, quella che con il sistema ci convive, che in fondo in fondo della ribellione ha paura. E’ l’esplosione delle sedi dei maggiori istituti di credito l’obiettivo di Tyler, e da quel grattacielo ci si può godere lo spettacolo. Il dialogo diventa scontro tra le due facce opposte di un individuo che non ha retto il peso del sistema, individuo che a sua volta viene sopraffatto da sé stesso, talmente la società l’ha indebolito, che si rassegna, e che alla fine, quasi con aria serena, si gode il belvedere dell’implosione dello stesso mondo che l’ha oppresso, della metaforica distruzione dei pilastri della società completamente sbagliata in cui è nato.

domenica 2 febbraio 2014

L’attualità di Berto Ricci? L’eresia visionaria dell’Italia imperiale...

berto riccidi Michele De Feudis (Barbadillo.it)
Una personalità fuori dagli schemi, senza macchia che non sia il coraggio e la ferrea volontà di difendere le proprie idee fino alle estreme conseguenze. Berto Ricci, giornalista e scrittore (1905-1941), è stato uno degli intellettuali fascisti più anticonformisti e irriducibili alle categorie che la vulgata resistenziale ha spesso affibbiato acriticamente ai protagonisti della vita culturale del Ventennio. Figura molto amata da Beppe Niccolai e Giano Accame, che ne introdussero la lettura nelle fila della gioventù postfascista, da alcuni anni resta imprigionata nella camicia di forza tracciata dal saggio di Paolo Buchignani “Un fascismo impossibile” (Il Mulino). La sua eresia, infatti fu coerente con una visione del mondo critica del capitalismo, sensibile al superamento del conflitto tra imprese e lavoratori, incardinata su una lucida visione imperiale della civiltà italiana.
La sua ultima opera si doveva intitolare “Tempo di sintesi”, ma di essa ne resta solo la scaletta dei temi che avrebbe trattato: ambiva a essere un manifesto politico che saldava “unità politica e millenaria esperienza spirituale (…) creatrice di armonia”. Eppure “Tempo di sintesi” è il filo rosso della ricerca culturale e politica svolta per tutta la vita da Ricci: riannodare le fila della prospettiva imperiale dell’Italia, porsi come modello nel superamento dello scontro tra capitale e lavoro contro le pulsioni ultraliberiste che erano presenti già allora. “I difensori a oltranza dell’iniziativa privata ci permetteranno di dire che l’iniziativa privata non fa un accidenti per gli artisti, poeti, scrittori italiani. Il fatto è che, in questa come in altre cose molte, l’iniziativa privata quando c’è da riscuotere si aderge inviolabile ed intangibile; quando c’è da dare si ritira e si scopre il capo dinanzi alla maestà dello Stato. Parlate un po’ d’aprire la borsetta, e il più fervido campione dell’iniziativa privata si trasforma di colpo in uno statolatra da far invidia a quelli del Kremlino”. Insomma prevedeva già negli anni trenta, in uno dei suoi “Avvisi” su “L’Universale”, le furbizie di certi manager antinazionali che, dopo aver tenuto in piedi i bilanci aziendali con i contributi pubblici straordinari, non hanno avuto nessuna remora nel delocalizzare la produzione delle proprie aziende oltre confine.
L’idea imperiale, per Ricci, era intesa come “un’esigenza dello spirito e un lineamento essenziale”, tutt’uno “con le macchine veloci e liberatrici, colla gioventù in marcia fuori dell’ombre famigliari e sagrestane, con questo avventuroso sgranchirsi di corpi e di cervelli, col composto clamore delle città, col nostro credere e cercare”.
ricciLa parte più viva del suo pensiero politico è raccolta ne “Lo scrittore italiano”, proprio nella definizione delle categorie “Nazione, impero”. Qui Berto Ricci recide ogni legame con il “nazionalismo stretto”e ogni particolarismo antistorico: “Le polemiche di frontiera, balcaniche e meschine, consideriamole per quello che sono, cioè episodi. Le riffe, le picche, l’avversioni cieche, i risentimenti patriottici, sono sintomi d inferiorità e non di forza: e per noi vogliono dire metterci a tu per tu co’ sottoposti. Niente è così stupido, e poco italiano, come l’intolleranza, il disprezzo preconcetto verso gli stranieri, e il volersi chiudere nel suo guscio. Vale ancora e varrà per sempre quel pensiero di Cesare Balbo: “Questo fu fin dal principio, nelle arti, come nelle lettere, il carattere dell’originalità italiana: che ella risultò appunto dall’eccletismo, dallo scegliere e prendere, onde che fosse, ciò che era o pareva bello ad ogni volta, senza impegno, né esclusioni, e quasi senza scuola, senza quelle grettezze di nazionalità che si vorrebbe ora introdurre”. Era distante dai moralisti e dai censori della libertà dei costumi, riconosceva che “il vivere libero, e senza troppa moraletta, specie in cose di donne, fu usanza nostrale prima che forestiera”, e affermava la preminenza gerarchica della spiritualità sul morale, della divinità sull’onestà. Aveva un’idea alta, mistica dell’impegno politico, che portò fino alle estreme conseguenze, chiedendo raccomandazioni ad Alessandro Pavolini e perfino a Benito Mussolini, non per ottenere prebende, ma per andare volontario in guerra e una volta giunto in Nord Africa per essere inviato in prima linea.
Matematico e poeta, giornalista e scrittore, artista armato che rifuggiva la deriva salottiera di certa letteratura, Berto Ricci non potrà mai diventare un santino da sventolare davanti alla propria coscienza ogni qual volta – per motivi di stringente opportunità – si baratta la propria storia per uno strapuntino partitocratico. Lo scrittore toscano non si ritirò in nessuna “turris ebunea”, rifuggì il conformismo di tanti intellettuali di ferrea osservanza mussoliniana e spinse con i suoi scritti per accelerare una svolta sociale delle politiche italiane, non rifiutando mai la dialettica. Del resto aveva questa visione dello spazio pubblico: “Affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi confonde unità e uniformità [...] muoversi, saper sbagliare. Sapere interessare il popolo all’intelligenza [...] libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare [...] una libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale».
Intatto e cristallino resta la sua testimonianza come “maestro di carattere”: «Viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c’è da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo».
La prudenza di certa storiografia nei confronti di personaggi maestosi dell’Italia del Ventennio si è spinta spesso a limitarne il valore con aggettivi superflui nei titoli delle opere che ne tracciano le biografie. E’ il caso di “Giuseppe Bottai fascista critico” di Giordano Bruno Guerri, che poi fu rieditato senza l’aggettivo finale. Stessa sorte meriterebbe lo studio di Paolo Buchignani per il Mulino su Berto Ricci e il suo “fascismo impossibile”. Essere con la schiena dritta, tutti d’un pezzo, coerenti con una visione romana e imperiale era certamente possibile nell’Italia di Mussolini. E questa opzione fu la cifra dell’esistenza controcorrente di Berto Ricci. Sulle cui visioni si soffermò così Indro Montanelli, che scrisse su “L’Universale” prima di “disertarne” la bandiera: “Non ha molta importanza che idee dibattemmo. Perché le idee non si dividono soltanto in quelle buone e in quelle cattive, ma anche in quelle in cui si crede e quelle in cui non si crede. Noi, nelle nostre, ci credevamo”.