venerdì 31 maggio 2013

Fiume, avanguardia della Rivoluzione!


di Mario M. Merlino



Sono stato più volte ad Ancona – mi era facile trascorrendo diversi mesi sulla costa romagnola – e sempre, percorrendo la storica via Pizzecolli, mi sono recato fino alla scalinata su cui si erge, nell’omonima piazza, la chiesa di San Francesco delle Scale. Con la sua facciata e il portale in stile gotico di pietra bianca dell’Istria, opera dell’architetto Orsini di Sebenico nella metà del XV secolo. Sotto il dominio napoleonico fu adattata a scopi militari, successivamente a Pinacoteca. Nel 1944 fu colpita durante uno dei bombardamenti alleati subendo notevoli danni. Solo nei primi anni ’50 fu nuovamente consacrata alle sue originarie funzioni religiose. Non, però, di storia dell’arte e di monumenti religiosi è il mio intento. Ho sempre avuto a noia visitare i musei soffermarmi estasiato davanti ad opere incorniciate e appese alle pareti volgermi con mal celati gridolini di libidine estetica e, ancora, girovagare per centri storici ammirare soppesare uscire con luoghi comuni accompagnati da punti esclamativi e tono della voce declamatorio e gesti studiati della mano…
Esuli, i fiumani, vi hanno eretto un altare con la dura pietra del Carso – la medesima che si mostra a monito sul marciapiede, zona Laurentina, Roma, dove venne edificato il quartiere per i giuliani gli istriani i dalmati in fuga e che porta il loro nome – e vi hanno esposto un’anfora con l’acqua della loro città e un cofanetto di terra del cimitero e quel tricolore che, ultimo, sventolò sull’Olocausta. Una testimonianza che è eredità di spirito e di sangue, proprio in quella città che li aveva accolti, al loro arrivo in porto, lanciando pietre ed invettive su indicazione del partito comunista. Aveva declamato Gabriele D’Annunzio: ‘Si spiritus pro nobis, qui contra nos?’. Nell’età del nichilismo Nietzsche ci ha educato a pensare alla morte di Dio e allo Spirito ritiratosi. Lo sappiamo bene noi, folli e disperati, costretti a danzare ormai al ritmo ossessivo d’una nota sola. Eppure vogliamo restare fedeli all’onda eterna della poesia che andò ad infrangersi sulle rive del Carnaro. Ecco perché, sì questa è la ragione, fin da giovane inquieto ed irriverente ho avvertito una sorta di dovere a visitare quella chiesa. Non da turista non da credente non da sopravvissuto…

Con lodevole iniziativa Maurizio Murelli ha pubblicato (‘In 500 esemplari nel 150esimo anniversario della nascita di Gabriele D’Annunzio e a 75 anni dalla morte dello stesso’ come si legge in nota), per i tipi dell’Aga Editrice, tre volumi che sono la ristampa di due opere di Mario Carli, Con D’Annunzio a Fiume e Trillirì, e di Tom Antongini Gli allegri filibustieri di D’Annunzio. Con caratteri che rimandano alla stagione delle dispense universitarie quando poco si studiava e ci si bastonava sulle scalinate delle facoltà. Allegramente e con atteggiamenti pirateschi, mi verrebbe da dire, in omaggio alla scelta di riannodare i fili della memoria sull’impresa fiumana iniziatasi alle ore 13,30 dell’undici settembre 1919. In divisa da ufficiale dei lanceri di Novara il Vate, pur febbricitante, lascia Venezia e raggiunge la punta di San Giuliano a Mestre, ove l’attende il suo autista con l’automobile rossa e scoperta.
Ho i tre libri in pila a lato del computer. Del saggio di Mario Carli sono alle ultime pagine. Mario Carli, ufficiale degli arditi nella Grande Guerra, disertore per raggiungere D’Annunzio a Fiume, di cui diverrà fra i più intimi collaboratori. Viene inviato a Milano, per volontà del poeta, a costituire la redazione de La Testadi Ferro, il giornale della causa fiumana e forse strumento ulteriore per predisporre un piano di ampliamento della rivoluzione su tutto il territorio nazionale. Arrestato con degli anarchici sotto l’accusa di progettare atti di sabotaggio mentre si sta consumando la tragedia di Fiume, il Natale di sangue del 1920. Tra Lenin e l‘emergere del fascismo, intransigente (forse sotto la spinta di Sorel) e sempre là dove vi sono avanguardie le più radicali che chiedono di andare oltre. Il romanzo Trillirì è un regalo di Rodolfo per il mio prossimo compleanno. Del terzo so soltanto che narra, in presa diretta e partecipe, la vicenda degli Uscocchi che, riprendendo la tradizione della pirateria in Adriatico al tempo della Serenissima, rifornivano la città colpita dall’embargo.
Poesia rivoluzione azioni esemplari ed eclatanti la Carta del Carnaro le donne sesso nudismo yoga e cocaina la musica Alla festa della rivoluzione, come si intitola il bel libro di Claudia Salaris. Tutto questo, certamente, e di una modernità gioiosa libertaria irriverente le immagini che ci giungono e ci fanno amare quella esperienza. Fiume fu, però, anche laboratorio per una concezione ardita e anticipatrice delle dottrine sul concetto di proprietà sulla dignità del lavoro sulla giustizia sociale che, percorrendo il lungo e a volte tortuoso cammino del fascismo, arriveranno ai 18 Punti di Verona. E anche in ciò sta l’amore che sentiamo per quella città, italianissima sempre alla nostra mente e nel nostro cuore, e la sua sfortunata avventura.

giovedì 30 maggio 2013

Ogni cosa ha un limite. Impossibile perseguire lo sviluppo perpetuo.

 
di Massimo Fini

In concomitanza col Festival dell'Economia di Trento si svolge a Rovereto un Alterfestival, un controfestival, organizzato da alcune associazioni, per lo più di giovani, cui partecipano alcuni intellettuali, diciamo cosi', 'eterodossi' e al quale sono stato invitato.
Cerchero' qui di anticipare, in estrema sintesi, cio' che diro' stasera. Il modello di sviluppo che ormai solo per convenzione chiamiamo occidentale perchè è nato in Inghilterra con la Rivoluzione industriale a metà del XVIII secolo, ma ha coinvolto da tempo la Russia e più recentemente la Cina, l'India e altri Paesi cosidetti 'emergenti', si basa sull'impossibile: le crescite esponenziali che esistono in matematica ma non in natura. Ogni cosa umana ha un limite. Noi, dal punto di vista economico, ma non solo, lo stiamo raggiungendo. Siamo come una potentissima macchina che, partita appunto a metà del Settecento, ha percorso a velocità sempre crescente due secoli e mezzo, e ora si trova di fronte a un muro. Andare ancora avanti non è più possibile. Ma non si rassegna e continua a dare di gas finchè, prima o poi, fonderà. Fuor di metafora: non si puo' più crescere. Ma le leads mondiali, di destra e di sinistra, per ignoranza o malafede, continuano a parlare di crescita illudendo le loro popolazioni. Certo, per un po' potranno ancora continuare in questo gioco illusionistico immettendo nel sistema enormi quantità di liquido che, proprio per la sua entità, non corrisponde a nulla se non a una scommessa su un futuro cosi' sideralmente lontano da essere inesistente, drogando ulteriormente il cavallo già dopato sperando che faccia ancora qualche passo avanti fino al fatale e inevitabile collasso per overdose. Il che significherebbe il crollo, sanguinoso, del nostro mondo.
Si puo' evitare questa apocalisse? Si', se gli uomini fossero delle creature intelligenti. Si tratterebbe di avere il coraggio di fare qualche passo indietro, di ritornare, in modo graduale, ragionato e limitato, a forme di autoproduzione e autoconsumo, che passano per un recupero della terra (la Madre Terra che ci dà il cibo, l'unica cosa veramente indispensabile insieme a una abitazione e, ma non sempre, al vestire) e per il ridimensionamento dell'apparato industriale, finanziario e ora anche di quel mondo virtuale che ci sta inghiottendo tutti (se c'è una rapina un po' movimentata, come quella avvenuta nei giorni scorsi a Milano nella centralissima via Spiga, chi vi ha assistito dice «sembrava di essere in un film», non è più la fiction che imita la realtà, ma la realtà che imita la fiction).
Abbiamo puntato tutto sull'Economia, emarginando tutte le altre e complesse esigenze dell'essere umano, e l'economia, questa economia, sta clamorosamente fallendo. Abbiamo puntato tutto sulla sua sorella gemella, la Tecnologia, senza capire che la tecnologia, come mi disse Paolo Rossi, filosofo della Scienza, «se risolve un problema ne apre dieci altri ancora più complessi». Ed economia e tecnologia ci hanno svuotato di alcuni elementi e valori essenziali dell'umano: dignità, onestà, onore, lealtà, fraternità, coraggio, istinti e, insomma, la vitalità. Nella rapina di Milano, mentre i passanti si accuciavano come cani sotto le auto, terrorizzati, l'unico a reagire, rischiando la pelle, è stato il proprietario del negozio. Ma era armeno. Siamo diventati, ad imitazione degli americani, una società svirilizzata, femminea senza essere femminile. Diro' la verità fino in fondo: quando leggo di qualche delitto passionale (di un uomo o di una donna) mi riconforto. Perchè vuol dire che in giro c'è ancora della vita. E non solo economia, tecnologia e la morte dell'anima.
 

martedì 28 maggio 2013

L’Ilva e il destino dell’Italia in un mondo industriale globalizzato...





di Leonardo Petrocelli (barbadillo.it)
 


Ultimamente, le dichiarazioni sul caso Ilva si assomigliano un po’ tutte.Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria: “Sulla base di quello che succederà si giocherà il futuro del manifatturiero pesante che connota l’Italia come paese industrializzato avanzato”. Claudio Gemme, presidente dell’ANIE: “La ricchezza e il benessere italiani si sono sempre basati sul manifatturiero. Tutti si impegnino per salvarlo”. Guglielmo Epifani, neosegretario del Pd: “Non c’è motivo per cui il nostro paese, che è ancora il secondo esportatore di manifatturiero, non debba difendere la sua siderurgia”.
In realtà, un motivo c’è e non è nemmeno così misterioso: la globalizzazione ha in serbo per l’Italia un destino diverso. Lo spiegarono benissimo Giuliano Amato e Carlo De Benedetti in un lungo scritto a quattro mani, comparso su “Repubblica” nel settembre del 2004, chiarendo quale sia la più grande possibilità strategica per l’Italia: “È  la forza delle sue produzioni e dei suoi servizi di alta qualità, il suo estro per l´estetica e il design, la sua capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale non solo turistico del suo territorio, la sua cultura millenaria, il suo ambiente, la sua arte. In questo senso le grandi trasformazioni del mondo possono diventare una enorme chance per il nostro Paese”.
Proviamo a tradurre. Il mercato internazionale impone ai suoi attori di impegnarsi nei settori dove essi possiedono un “vantaggio competitivo”, cioè dove realizzano qualcosa che può essere prodotta solo lì o lì meglio che altrove. La logica del “tutti fanno tutto” è bandita. Ognuno fa il suo e, per il resto, si commercia in modo da integrare domanda e offerta, nella certezza che l’infinita intelligenza del mercato aggiusterà tutto: flussi, quantità, prezzi. Dunque, l’Italia farebbe bene a dismettere quel che resta del suo settore manifatturiero, eccellente ma costoso, e lasciare che esso emigri verso altri paesi dove si può fare lo stesso pagando gli operai un pugno di riso e dove nessuno protesta per la diossina e le morti di cancro (l’intelligenza del mercato…). Poco male, perché tanto noi abbiamo il “sole, mare e la buona cucina”,  il rosso della Ferrari e di Valentino, il design e le gallerie. E se i francesi ci restituissero la Gioconda saremmo a posto per sempre. La Regione Puglia si è già portata avanti col lavoro, regalandoci uno videospot del tarantino con panorami caraibici e l’Ilva allegramente rimossa dalla cartolina. Ilva? Ma quale Ilva? Qui c’è il paradiso, venghino siori, venghino.
Invece l’Ilva c’è ancora insieme a quel poco che resta delle Pmi e delle grandi imprese nazionali come la Finmeccanica, sopravvissute alla svendita privatizzatrice di Prodi&c e assediate dalla magistratura. Si dovrebbe ripartire da qui, ma il piano della globalizzazione – che non è per nulla una entità astratta ma un fenomeno “agito” e pianificato – è quello di un paese “leggero”, tutto basato sull’estetica e i servizi, e completamente dipendente dall’estero per ogni altra necessità. Un paese eternamente con il cappello in mano, terrorizzato da crisi economiche e diplomatiche, svuotato di ogni capacità autarchica di resistenza. Perché senza capi firmati si può vivere, senza acciaio o prodotti alimentari (compriamoli dall’estero, costano meno!), nella modernità, si muore. O, meglio, si diventa dipendenti da tutto e da tutti, in primis dalla globalizzazione, che si è costretti a difendere perché altrimenti siamo spacciati: chi ci venderà ciò che prima ci facevamo da soli e, ora, fanno gli altri per noi?
Ed è ridicolo sentire parlare ora di nazionalizzazione, pianificazione, divieto di vendita dell’Ilva alla Cina da coloro che, fino a ieri, incensavano l’intelligenza del mercato globale e le virtù del nuovo corso. Questo è il mondo che avete voluto. Siatene fieri se ci riuscite.



lunedì 27 maggio 2013

La rivolta anti-nozze gay di Parigi fa sul serio

di Romana Fabiani
 

È duro il bilancio del day after la massiccia manifestazione parigina contro le nozze e le adozioni gay. Quasi 300 persone sono state fermate per gli scontri con la polizia a margine de le Manif pour tous, 231 sono a rischio di arresto. 
 

 È la prima notizia de Le Figaro corredata di video degli scontri che hanno prodotto 36 feriti, tra cui 34 poliziotti. La violenza di alcune frange che hanno rovinato la marcia di un milione di francesi è esplosa in tarda serata davanti alla spianata de Les Invalides. Il ministro dell’Interno, Manuel Valls, ha condannato gli incidenti provocati – ha detto – «da estremisti di destra». 


Al grido di “Hollande, dimissioni”, “esplode tutto, esplode tutto”, “dittatura socialista”, non hanno seguito gli ordini di sciogliere la manifestazione: i poliziotti hanno risposto con fumogeni e lancio di lacrimogeni e un fotografo è stato leggermente ferito. Un grande striscione con scritto “Hollande, démission” ha fatto mostra di sé per alcune ore davanti alla sede del Partito socialista. Su Twitter, Damien Rieu, portavoce del movimento Generazione identitaria, ha postato molte foto della terrazza socialista “occupata”. Per quest’ultimo appuntamento, dopo la lunga crociata contro la legge firmata dal presidente socialista, erano in tantissimi, più vicini al milione dichiarato dagli organizzatori che ai 150.000 stimati dalla polizia. 
 

Tre i cortei partiti da punti diversi di Parigi, che si sono ritrovati al centro della città, più alcune centinaia di Civitas, l’organizzazione dei cattolici più integralisti che sfilava da sola. La stampa ormai parla del più grande movimento sociale che la Francia abbia conosciuto dal ’68. Ma Hollande non sembra preoccuparsi troppo e, a detta anche dei suoi sostenitori, non sta gestendo la rivolta montante con sufficiente attenzione. Le proteste (che provengono non solo dai settori più conservatori dell’opinione pubblica) hanno rallentato l’iter legislativo ma non impedito l’approvazione di uno dei provvedimenti più contestati degli ultimi 30 anni. Ora la Francia è il nono paese in Europa ad adottare la legalizzare del matrimonio omosessuale. Le prime nozze gay, destinate a suscitare un vespaio di polemiche, sarà celebrato il prossimo 29 maggio a Montpellier, nel sud della Francia. 


Più delicata la questione dell’adozione. La legge lascia in sospeso questioni fondamentali in materia di diritti della famiglia: non garantisce, in automatico, diritti di co-genitorialità per le coppie omosessuali unite civilmente, né consente l’accesso alla procreazione medicalmente assistita o la fecondazione in vitro per le coppie lesbiche.

venerdì 24 maggio 2013

L'anteprima de "Al confine del nero"...


Oggi mi sento - e mi propongo - tanto simile ad attori e cantanti quando, intervistati alla radio in televisione sui giornali, parlano della loro ultima produzione come la migliore in assoluto. Non dirò che il libro in uscita a fine giugno sia l’ultimo perché non è l’ultimo e neppure il penultimo. Vi confesso, però, che questa seconda raccolta di racconti darà buon esito perché nata da buon seme. E la copertina… dai, sono grande!
 
Oggi vi racconto come nasce. Con Marco e Simone, giovani professionisti con l’estro per la grafica e la fotografia, percorriamo la via Tiburtina. Abbiamo bevuto una birra in attesa che si faccia ‘l’ora che volge al desio’ in cerca di uno di quei locali, squallida imitazione di quelli di Las Vegas, tutto luci colorate ed intermittenti. L’idea originaria è che io passi davanti ad uno di essi quale contrasto tra un vecchio (io!?) in declino e la fauna emergente di una subcultura del secondo millennio. Idea, a cui oppongo debole resistenza (forse per vanità segretamente offesa con tutti i miti della gioventù che vanno in frantumi…), perché conservo la convinzione, dal tempo della militanza, che è l’agire il metro di valutazione per la nascita di ruoli e gerarchie.
Percorriamo, dunque, la via Tiburtina e, poco dopo il carcere di Rebibbia, ci colpisce, novelli Siddharta sotto il ficus pippal, una costruzione a più piani, cattedrale laica nel deserto della modernità mai completata o in vana ristrutturazione. Un muretto una rete un cancello un cartello di divieto di transito risvegliano il mai sopito spirito libertario e l’irriverenza fascista, un connubio ormai familiare anche ai lettori di Ereticamente, a cui non so resistere. Fermiamo la macchina, scendiamo.
Apro una parentesi e, da istrione consumato, faccio un rapido resoconto su quanto ho in cantiere in modo che, a voi lettori e amici, l’arduo compito di prepararvi a nuove avventure letterarie inseguendo il fantasioso creativo e magico, va da sé dato il cognome (sapete che ‘merlino’ in lingua francone è lo smeriglio, il più piccolo falco esistente in Europa?), sottoscritto.
 
(Dopo l’estate dovrebbe uscire una antologia di quarantasei articoli di Robert Brasillach, apparsi sulle riviste della collaborazione, con un ampio saggio mio e di Rodolfo. Una pubblicazione che riempie, pur se in modo parziale – egli ne scrive uno a settimana o quasi dal 1941 all’estate del ’44 e questo significava almeno due volumi -, una mancanza intorno allo scrittore francese. Non solo egli è il poeta il narratore il cantore della giovinezza e dell’amicizia e della gioia di vivere, dunque, ma si mostra qui polemista aspro acuto e sprezzante, in qualche caso anche velenoso, che sembra volersi tagliare tutti i ponti alle spalle per correre incontro al suo tragico destino, verso quel palo eretto al forte di Montrouge dove, il 6 febbraio del ’45, l’attendono dodici bocche di fuoco avide del suo sangue, che fu infamia per chi volle versarlo).
(A quattro mani, forse a quattro zampe diranno i polemisti di professione che si annidano ovunque e di tutto hanno da sputare sentenza, mi sono imbarcato nell’avventura di scrivere un romanzo con l’amico Roberto su due giovani che vanno ad arruolarsi a La Spezia, dopo l’8 settembre 1943, nel battaglione Lupo della X MAS. Ognuno di noi s’è assunto il compito di svolgere un capitolo in alternanza in modo tale da costruire, con i colori del proprio linguaggio e la personale sensibilità, un percorso unitario e, al contempo, diverso. Sarete informati di come procede, al momento si va, e dell’eventuale sua pubblicazione per il prossimo anno).
 
Dunque, si tratta di scavalcare procedere fra mattoni e pietre e materiale abbandonato, in precario equilibrio, ma riuscirci nonostante l’ignobile mia pancia le articolazioni che sembrano cedere la vista appannata e incerta… che soddisfazione per il linguaggio del corpo! Quel corpo, che ci chiama ci richiama pretende soffre grida la sua libidine si esprime in ogni attimo e, sovente, noi altezzosi arroganti presuntuosi metafisici intellettuali non gli diamo ascolto lo trascuriamo lo schifiamo tutti compresi a costruire sogni illusioni inganni a rendere banali opinioni in grandiose ed immortali idee a stabilire gerarchie giudizi valori chi i buoni chi i cattivi dove cacciare i reprobi ergere piedistalli e tutta la paccottiglia da rigattieri della mente. E, non contenti, ci perseguitiamo tramite il senso di colpa e l’angoscia ansie egoismi onanismo…
Infine la fotografia-copertina. Guardare la devastazione. Colui che osserva la decadenza non necessita essere egli stesso decadente. Nietzsche aveva riconosciuto l’avvento del nichilismo e, al contempo, si considerava come colui che, per primo, era andato oltre. E quel raggio di sole al tramonto che promette la resurrezione del giorno a venire nell’alba sicura. Speranza e fierezza…

giovedì 23 maggio 2013

Femen a Notre-Dame contro il suicidio di Venner. Il 29 il primo matrimonio gay a Montpellier...







di Renato Berio (Secolo d'Italia)

Il giorno dopo il suicidio eclatante di Dominique Venner la cattedrale di Notre Dame è stata oggetto di un’altra azione dimostrativa, questa volta senza epilogo drammatico ma dai toni decisamente dissacranti, da parte di un’attivista del gruppo Femen che è entrata nella chiesa, ha tirato fuori una pistola giocattolo e si è fatta fotografare simulando di suicidarsi con un colpo in bocca. Sul seno nudo la giovane aveva la scritta in inglese: “May fascism rest in hell”, “che il fascismo riposi all’inferno”. 
 
L’azione è durata appena qualche minuto, alcuni degli stranieri presenti in Notre Dame hanno urlato all’attivista di Femen di vergognarsi. Un’azione di esibizionismo estremista che ha voluto in qualche modo “pareggiare il conto” con il gesto dimostrativo di Venner, la cui lettera-testamento al di là del comportamento dei media sta facendo discutere. “Sono sano e amo la vita – ha scritto Venner – ma ritengo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci sopraffà… Mi do la morte per risvegliare le coscienze addormentate… Insorgo contro i veleni dell’anima… Mentre tanti uomini si fanno schiavi della loro vita, il mio gesto incarna un’etica della volontà”. 
 
Non l’estrema scelta di un anziano depresso, dunque, ma un consapevole atto di ribellione. Un atto, dice Venner, “fondativo”, o meglio rifondativo di valori ormai troppo “liquidi”. Parole, al di là di come la si pensi, che restituiscono da un lato la statura di uno scrittore i cui saggi ricevevano premi dall’Accademia di Francia (come quello sulla guerra civile russa) e dall’altro il livello macchiettistico delle dimostrazioni delle Femen. Queste ultime, del resto, sono solo pose utili a far scattare qualche foto. Differente è approfondire con onestà intellettuale il messaggio che Venner ha lanciato alle coscienze. La stampa però, almeno quella italiana, non ci si prova neppure relegando il gesto di Venner dentro il rassicurante recinto dell’azione di protesta di un uomo di estrema destra. Un’azione che non merita commenti ma solo condanne. 
 
E La Stampa oggi sceglie di far commentare il suicidio di Notre Dame dal primo uomo che sposerà un altro uomo nella storia della Francia. Si chiama Vincent e dice di provare compassione per Dominique Venner: “Era evidentemente molto infelice”. Il 29 si sposerà nel salone delle feste del Comune di Montpellier. Grande cerimonia, decine di giornalisti. La cronaca dell’evento oscurerà la storia del vecchio scrittore europeista che si dà la morte e renderà opache le ultime parole di Venner, che restano comunque un disperato e chiaro atto di testimonianza per i valori di una tradizione ideale sempre più flebile: “Insorgo contro gli invasivi desideri individuali che distruggono i nostri ancoraggi identitari e in particolare la famiglia, nucleo intimo della nostra civiltà millenaria…”.

mercoledì 22 maggio 2013

Dominique Venner: suicida contro una civiltà in declino...

Oggi è un bel giorno, a prescindere da tutto e da tutti. Un fratello ritorna nella ciurma e il suo tempo non sarà più scandito dall'ora d'aria e dal passo pesante della guardia. Poterlo riabbracciare è un'emozione che testimonia la forza di quel legame di sangue che tiene unita una Comunità nel profondo. E poi, si sa, certa gente resta libera anche dentro una gabbia. Bentornato Pippo.  Venner, 78 anni, ex membro dell’Oas, si è sparato davanti all’altare di Notre Dame, in un gesto teatrale e simbolico che certamente scuoterà le coscienze. Di seguito riportiamo la sua lettera, scritta prima di togliersi la vita…
 L'ultima lettera di Dominique Venner
Sono sano di spirito e di corpo e sono innamorato di mia moglie e dei miei figli. Amo la vita e non attendo nulla oltre di essa, se non il perpetrarsi della mia razza e del mio spirito. Cionondimeno, al crepuscolo di questa vita, di fronte agli immensi pericoli per la mia patria francese ed europea, sento il dovere di agire finché ne ho la forza; ritengo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci sopraffà.
Offro quel che rimane della mia vita con un intento di protesta e di fondazione. Scelgo un luogo altamente simbolico, la cattedrale di Notre Dame de Paris che rispetto ed ammiro, che fu edificata dal genio dei miei antenati su dei luoghi di culto più antichi che richiamano le nostre origini immemoriali.
Mentre tanti uomini si fanno schiavi della loro vita, il mio gesto incarna un'etica della volontà. Mi do la morte per risvegliare le coscienze addormentate. Insorgo contro la fatalità. Insorgo contro i veleni dell'anima e contro gli invasivi desideri individuali che distruggono i nostri ancoraggi identitari e in particolare la famiglia, nucleo intimo della nostra civiltà millenaria. Così come difendo l'identità di tutti i popoli presso di loro, mi ribello al contempo contro il crimine che mira al rimpiazzo delle nostre popolazioni.
Essendo impossibile liberare il discorso dominante dalle sue ambiguità tossiche, spetta agli Europei trarre le conseguenze. Non possedendo noi una religione identitaria alla quale ancorarci, abbiamo in condivisione, fin da Omero, una nostra propria memoria, deposito di tutti i valori sui quali rifondare la nostra futura rinascita in rottura con la metafisica dell'illimitato, sorgente nefasta di tutte le derive moderne.
Domando anticipatamente perdono a tutti coloro che la mia morte farà soffrire, innanzitutto a mia moglie, ai miei figli e ai miei nipoti, così come ai miei amici fedeli. Ma, una volta svanito lo choc del dolore, non dubito che gli uni e gli altri comprenderanno il senso del mio gesto e che trascenderanno la loro pena nella fierezza.
Spero che si organizzino per durare. Troveranno nei miei scritti recenti la prefigurazione e la spiegazione del mio gesto.

Dominique Venner

lunedì 20 maggio 2013

“Trattativa” Stato-Mafia? La verità verrà anche dall’agenda rossa di Borsellino

di Giovanni Marinetti (Barbadillo.it)

Nell’Italia dei misteri irrisolti, quello dell’agenda rossa di Borsellino è destinato a rimanere tale. Rimarrà un mistero anche se ne dovessero trovare una identica: il dubbio che possa essere stata manomessa o che possa essere un falso rimarrebbe. Un po’ come per i diari di Mussolini, ogni tanto qualcuno dice di possedere nuovi scritti del Duce, nuovi documenti, e il rischio patacca è sempre dietro l’angolo. Rimaniamo ai fatti: i familiari di Paolo Borsellino e persone a lui vicine testimoniano che il giudice, nel periodo che precedette la sua morte, portava con sé un’agenda rossa, oltre a una seconda agenda marrone dove annotava gli appuntamenti, ritrovata dopo la sua morte. L’agenda marrone con gli appuntamenti c’è, quella rossa è sparita. Questo è un altro fatto e da qui parte il mistero. Un mistero che potrebbe legare il destino tragico del giudice con il suo contenuto.

Borsellino cosa annotava in quell’agenda? Su questo si possono fare, purtroppo, solo supposizioni, legate a quei tragici 56 giorni che separarono la strage di Capaci con quella di via D’Amelio.  Il giudice sapeva di essere in pericolo di vita, tanto da rilasciare al Mattino di Napoli, il 27 giugno del 1992 un’intervista dal titolo: “Sono nel mirino come Falcone”. Che nell’agenda rossa ci possano essere elementi importanti per capire se davvero ci fu e come si sviluppò una trattativa tra lo Stato e la mafia, non è fantasia né una probabilità remota.  La novità nasce da un video nuovo pubblicato da Repubblica: tra le immagini raccolte dopo la strage di via D’Amelio ce n’è una in cui si vede un quadernetto rosso per terra. È l’agenda rossa cercata per anni? Difficile poter rispondere.

Per anni chi ha cercato di capire dove potesse essere finita si è destreggiata su teorie – e processi – che ruotavano attorno alla borsa di Borsellino, prelevata dall’auto blindata saltata in area e poi riposta nel sedile. Ovviamente, l’agenda non è stata trovata. L’idea che qualcuno abbia potuto sottrarla – o che l’abbia anche solo cercata – non è campata in aria: trattativa Stato-mafia o no, che il contenuto di un’agenda con appunti riservati di Borsellino potesse diventare di pubblico dominio avrà fatto venire i sudori freddi a più di una persona.   Dell’esistenza dell’agenda rossa non sapevano solo i familiari. E questo è un altro fatto. Facendo la cronologia di quei 56 giorni, che Borsellino abbia capito o scoperto qualcosa di molto grosso è banalmente ovvio. Ogni elemento che possa ricostruire quei giorni – e cambiare la storia del nostro paese a partire da quel 1992 – è un diritto dei cittadini italiani.

Tornando al video di Repubblica: Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, non esclude possa essere l’agenda del padre, ma vista la scarsa qualità dei fotogrammi non può averne la certezza; per il pm Lari di Palermo è improbabile possa essere l’agenda di Borsellino, ma verranno fatte le verifiche del caso. Gian Marco Chiocci scrive sul Giornale che quel fotogramma smonta il mistero degli ultimi vent’anni: quella era l’agenda rossa ed è, oramai, finita tra l’immondizia. Liquidarla in altro modo è per Chiocci azzardato. Per il Fatto Quotidiano, lo scoop di Repubblica nasconde invece una verità più inquietante: quella non è l’agenda di Borsellino, e – sempre sul Fatto – il fratello Salvatore dice: «Mi chiedo perché quest’immagine venga fuori proprio ora: potrebbe essere un tentativo per allontanare l’attenzione dalle indagini sulla borsa. La storia dei depistaggi su via D’Amelio ci dice che il rischio d’inquinamento è sempre molto alto». È veramente l’agenda rossa, quella del video? Forse no. Rimane il fatto che la verità sulle stragi di Capaci e via D’Amelio sono ancora incomplete. Scoprire che fine abbia fatto l’agenda potrebbe essere utile, oltre ogni complottiamo, oltre ogni frettolosa minimizzazione.

domenica 19 maggio 2013

EROICA: SUCCESSO DI MUSICA E PRESENZE CON SKOLL A CASAGGì FIRENZE!


Era un concerto molto atteso quello di ieri sera. Skoll è uno degli artisti più interessanti del panorama identitario, uno di quelli che riescono a coniugare la buona musica con la capacità di lanciare dei messaggi precisi. "Eroica" è il suo ultimo album, un lavoro che consigliamo a chiunque abbia voglia di fare un viaggio nelle storie più belle d'Italia: dal pugno sul mondo di Primo Carnera alla scalata del K2, dall'ultima carica di cavalleria sul fronte dell'Est al volo dannunziano, da Marinetti a Borsellino, dalle magnifica gesta dei nostri soldati nella Grande Guerra alla splendida cornice del Monte Grappa.

Un viaggio di identità, di storia e di cultura che Skoll ha accompagnato per tutto il concerto con la proiezione di filmati e immagini a tema, alternando i brani ad una breve descrizione degli stessi, per poi passare ai pezzi più "vecchi" e più "noti". Una grande serata, che Casaggì ha vissuto e accolto con un pienone di presenze e un'atmosfera da brivido, come sempre quando Skoll viene a farci visita. Momenti di forte intensità, conditi anche dalla determinazione di una Comunità umana e politica che ogni giorno si trova ad affrontare con dignità e determinazione le mille sfaccettature di un tempo buio e grigio, ma non per questo rinuncia ad andare avanti con fermezza e con coraggio.

Con la schiena sempre dritta.
Grandezza, esempio e slancio.

giovedì 16 maggio 2013

Firenze, in cinquanta con caschi e catene aggrediscono un banchetto di Casaggì...


di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)
Nuove violenze alle università scatenate dall’ultrasinistra dei collettivi. La mattina del 15 maggio gli studenti Casaggì, l’attivissimo centro sociale fiorentino di destra, era al Polo Universitario di Novoli per svolgere la propria regolare campagna di propaganda in vista delle elezioni universitarie del prossimo 21 e 22 maggio. 
I militanti di Casaggì, sette, avevano allestito un banchetto, nel quale era presente il materiale elettorale e le indicazioni di voto. Attorno a mezzogiorno, circa una cinquantina di militanti dei centri sociali antagonisti si sono radunati davanti al banchetto, distribuendo volantini, gridando slogan e minacciando di passare alle vie di fatto se gli esponenti di Casaggì non avessero immediatamente lasciato l’Università che, a loro dire, non dovrebbe permettere ad un movimento di destra di esprimere liberamente le proprie idee e candidarsi agli organi di rappresentanza studentesca. Pur inferiori di numero, gli studenti di Casaggì hanno scelto di rimanere al banchetto, perché convinti del diritto di esprimere le loro preferenze. 
Verso le 12,30 – mentre gli studenti di destra iniziavano a smontare il banchetto per recarsi a pranzo nella mensa antistante – il gruppo dell’estrema sinistra ha deciso di passare alle vie di fatto tirando fuori caschi, catene, tirapugni e brandendo le cinture per colpire, esattamente come facevano i collettivi democratici negli anni di piombo. Ne è nato uno scontro fisico durato qualche minuto e avvenuto sotto gli occhi di centinaia di studenti che stavano recandosi a pranzo. 
Nello scontro un militante di Casaggì ha riportato una ferita al volto. Il centro sociale ha immediatamente diramato un comunicato in cui scrive che «ciò che è accaduto è inaccettabile da ogni punto di vista, perché chi ha aggredito era armato ed è uscito da aule universitarie che sono concesse dal rettore e dai vertici dell’Università a personaggi che non le hanno restituite agli studenti, ma che le utilizzano per promuovere odio sociale e politico». «Abbiamo il diritto – proseguono gli studenti di destra – di fare propaganda e di vivere l’Università, da studenti e da candidati alle elezioni, come tutti gli altri. Non è accettabile che all’Università entrino persone esterne, magari armate, per creare il caos e cercare di cacciare chi fa politica in altri schieramenti». 
Infine, conclude Casaggì, «non sono accettabili le dichiarazioni di alcuni organi di stampa, che senza aver verificato la notizia, hanno parlato di rissa e di scontri, come se si fossero dati appuntamento due gruppi contrapposti e non si fosse trattato di una vile aggressione premeditata e vergognosa». Casaggì conclude il comunicato annunciando che «non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia e continuerà, adesso e nei prossimi mesi, a svolgere nelle facoltà la propria attività politica e cerchiamo di farlo con la dignità e il coraggio di sempre. Dignità e coraggio: qualcosa che manca ai paladini dell’antifascismo».

mercoledì 15 maggio 2013

UNIFI: SCONTRI A NOVOLI. SETTE MILITANTI DI CASAGGì AGGREDITI DA CINQUANTA AUTONOMI CON CASCHI E CATENE...




CASAGGì: SCONTRI AL POLO DI NOVOLI PER ELEZIONI UNIVERSITARIE.
CINQUANTA MILITANTI DELLA SINISTRA ANTAGONISTA ARMATI DI CASCHI E CATENE AGGREDISCONO SETTE MILITANTI DI CASAGGì. FAR-WEST DI MEZZOGIORNO TRA CENTINAIA DI STUDENTI. GLI AGGRESSORI, QUASI TUTTI ARMATI, HANNO AULE CONCESSE DAL RETTORE E HANNO CONVOCATO SERVIZI D’ORDINE ESTERNI ALL’UNIVERSITA’. UN FERITO ACCERTATO TRA I NOSTRI ATTIVISTI E LA CERTEZZACHE CONTINUEREMO A DIFENDERE LE NOSTRE IDEE E I NOSTRI DIRITTI A QUALSIASI COSTO.  

Questa mattina Casaggì era al Polo Universitario di Novoli per svolgere la propria regolare campagna di propaganda in vista delle elezioni universitarie del prossimo 21 e 22 maggio. I nostri militanti, sette, avevano allestito un banchetto, nel quale era presente il materiale elettorale e le indicazioni di voto. Attorno a mezzogiorno una cinquantina di militanti dei centri sociali antagonisti, chiamati dagli attivisti del Collettivo Politico di Scienze Politiche, si sono radunati davanti al nostro banchetto, distribuendo volantini, gridando slogan in stile anni di piombo e minacciandoci di passare alle vie di fatto se non avessimo immediatamente lasciato l’Univesità che, a loro dire, non dovrebbe permettere ad un movimento di destra di esprimere liberamente le proprie idee e candidarsi agli organi di rappresentanza studentesca.

Reputando la nostra permanenza di quella struttura un diritto e non avendo mai ceduto alle minacce altrui, abbiamo scelto di rimanere al nostro posto e continuare, seppur affrontati da un gruppo dieci volte più numeroso di noi, la nostra azione politica. Alle 12,30 – mentre i nostri attivisti iniziavano a smontare il banchetto per recarsi a pranzo nella mensa antistante – il gruppo di attivisti dell’estrema sinistra ha deciso di passare alle vie di fatto tirando fuori caschi, catene, tirapugni e brandendo le cinture per colpire. Ne è nato uno scontro fisico durato qualche minuto e avvenuto sotto gli occhi di centinaia di studenti che, come noi, stavano recandosi a pranzo. Nello scontro uno dei nostri militanti ha riportato una ferita al volto.

Ciò che è accaduto è inaccettabile da ogni punto di vista.
E’ inaccettabile perché chi ha aggredito era armato ed è uscito da aule universitarie che sono concesse dal rettore e dai vertici dell’Università a personaggi che non le hanno restituite agli studenti, ma che le utilizzano per promuovere odio sociale e politico. Non è accettabile perché abbiamo il diritto di fare propaganda e di vivere l’Università, da studenti e da candidati alle elezioni, come tutti gli altri. Non è accettabile che all’Università entrino persone esterne, magari armate, per creare il caos e cercare di cacciare chi fa politica in altri schieramenti. Non è accettabile perché chi aggredisce in cinquanta contro sette e con armi di ogni tipo in mano non è un militante, ma un vigliacco coperto dal numero e dall’impunità. E non sono accettabili le dichiarazioni di alcuni organi di stampa, che senza aver verificato la notizia parlano di rissa e di scontri, come se si fossero dati appuntamento due gruppi contrapposti e non si fosse trattato di una vile aggressione premeditata e vergognosa.

Casaggì non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia e continuerà, adesso e nei prossimi mesi, a svolgere nelle facoltà la propria attività politica. Ai vili, quelli che ci aggrediscono in cinquanta contro sette, siamo stati costretti ad abituarci. Il nostro non è un passatempo, ma una scelta di vita che contempla qualsiasi genere di rischio, al quale sappiamo di andare incontro e cerchiamo di farlo con la dignità e il coraggio di sempre. Dignità e coraggio: qualcosa che manca ai paladini dell’antifascismo. 

martedì 14 maggio 2013

Lo “ius soli” tra diritti di cittadinanza (già esistenti) e paradossi

di Domenico Di Tullio (Barbadillo.it)

Occupa grande spazio e genera solita polemica insensata la proposta politica di concedere cittadinanza ai figli di stranieri, nati nel territorio della Repubblica delle Arance e dei Limoni. Ai sensi della legge 91 del 1992, già i nati da cittadini apolidi (ovvero soggetti privi di qualunque cittadinanza, come alcuni tra i rifugiati politici e per motivi umanitari) sono di diritto cittadini italiani, quando nascono nei nostri confini, così come i figli di un solo genitore italiano.

Esiste, ancora, il caso nel quale i genitori siano ignoti o il figlio non segua la cittadinanza dei genitori, secondo la legge dello stato di questi ultimi. Se il tuo stato non ti fila, ti prendiamo noi a scatola chiusa, senza nemmeno farti pagare il ticket. Dopo saranno cavoli tuoi, ma intanto goditela. Ancora altra ipotesi, ma certamente più ridotta, quelle di acquisizione della cittadinanza a richiesta, per essere nati in territori già italiani o appartenenti al disciolto Impero austro-ungarico. Se sei un italiano giuliano o dalmata, fratello di storia e lingua e sangue profondo, abbiamo sì cercato di seppellire il ricordo del tuo abbandono di stato per un cinquantennio, ma se vuoi tornare a pagare le tasse in Italia, accomodati.

L’ipotesi generalizzata, tuttavia, è quella che riguarda tutti i bambini nati in Italia da genitori stranieri e qui residenti ininterrottamente per 18 anni, che abbiamo optato per la cittadinanza italiana entro i 19. Esiste, ancora, la naturalizzazione degli immigrati regolari, che abbiamo trascorso almeno 10 anni nel territorio della Repubblica, in assenza di precedenti penali e con adeguate risorse economiche.

Per una volta, si riconosce il masochismo caparbio e splendido di chi, rinunciando a sovvenzioni caritatevoli, aiuti umanitari, agevolazioni domestiche, benefici di politiche sociali socialmente disutili, cambi di sesso a carico del SSNN, autoesenzione fiscale e previdenziale, pensioni facili, salvezza da multe, interessi e penali, diritti di notifica e altre vessazioni equitaliote, gaudente immunità processuale e sostanziale, abbandoni il bengodi dell’essere straniero in Italia, non avendone per niente approfittato. E poi scelga volontariamente di essere ita-lia-no e portare la croce che ci accomuna: caricarsi di doveri civici borbonici e imposizioni fiscali sabaude, ipotesi di reato creative e relative gogne mediatiche, divieti di sosta casuali, varchi incontrollati, autovelox doviziosi e parchi etilometri, accollandosi pregresse responsabilità di debiti pubblici con vertigine e milioni di gaudenti statali, scontando perfino le vigliaccate di qualche isolato pusillanime, lievitate a onte nazionali.

Benvenuto, nuovo Italiano, sentiamo già di volerti bene. Come se ne vuole a un parente pazzerello – anche un po’ fesso, è vero – ma affettuoso e buono. Entusiasta, soprattutto, come noi non ci sentiamo più di essere. Ridicola, oltreché assolutamente non auspicabile, una acquisizione della cittadinanza per mera nascita, che renderebbe probabile l’immediato e numeroso approdo di plotoni di gestanti, le quali, una volta partorito un nuovo piccolo italiano, vanterebbero di fatto il diritto di residenza, poi automaticamente esteso anche all’altro coniuge genitore: vuoi mica privare il minore italiano delle proverbiali cure parentali. Grazie, perciò, ministro Kyenge, ma uno ius soli in Italia già ce lo abbiamo. La ius “sola”, invece, scusi ma l’abbiamo inventato noi.

lunedì 13 maggio 2013

Intellettuali e sport dalla nascita dello scudetto a Fiume al tennis di Ezra Pound

di Adriano Scianca (Barbadillo.it)

Tre stelle o due stelle? Il dibattito sulla simbologia relativa al secondo trionfo in campionato della Juve di Conte infuria tra tifosi e addetti ai lavori. In realtà l’idea di certificare con una stella il conseguimento di dieci campionati vinti non ha nulla di ufficiale e nasce da un’idea di Umberto Agnelli risalente al 1958, anno del decimo campionato di Serie A vinto dalla Juventus.Più interessante è la storia dello scudetto, ovvero il piccolo scudo tricolore che fa sfoggio di sé sulla maglia dei campioni d’Italia per tutto l’anno successivo alla vittoria del campionato. Come ha ricordato Pierluigi Pardo durante la telecronaca di Juve-Cagliari di sabato scorso, infatti, l’idea dello scudetto risale addirittura a Gabriele D’Annunzio. Tutto risale al 7 febbraio 1920, quando a Fiume la “nazionale” dei legionari sfidò quella cittadina, per rendere più popolare la causa della “città di vita” fra chi, a Fiume, ci viveva da normale cittadino. Per ispirazione del Vate, la squadra dei legionari indossò la maglia azzurra dei nazionalisti con un piccolo scudo tricolore. Per la cronaca, vinsero i fiumani per 1-0 grazie alla rete segnata al 30′ da Tomag, così come nella rivincita giocata il 9 maggio 1920 e finita 2-1 per gli autoctoni. Nell’agosto del 1924 la Figc approvò  il distintivo tricolore per la squadra campione d’Italia.

Del resto D’Annunzio non era nuovo a frequentazioni sportive: il Vate praticava nuoto, equitazione, scherma, boxe, calcio, golf, ciclismo, canottaggio, volo in aereo, gioco delle bocce. Nel 1922 un referendum promosso dalla Gazzetta dello Sport lo proclamò atleta dell’anno. In ambito calcistico doveva essere un osso duro, se è vero che nel 1887, durante un’azione in una partita, cadde e perse due denti.

Insomma, lo sport in Italia nasce con una pesante impronta “non conforme”. Chissà, per esempio, se i tanti atleti, professionisti o dilettanti, che ogni giorno indossano una tuta per praticare qualche attività sportiva sanno che quell’indumento ha un marchio di fabbrica futurista. Fu infatti  Ernesto Michahelles, in arte Thayaht, artista italiano amico di Marinetti di origine anglo-svizzera, a progettare un indumento versatile, poliedrico, ottimo per l’esercizio fisico. Poiché l’abito era intero, tutto un pezzo dalla testa ai piedi, fu chiamato “tutta”, poi trasformato nel più eufonico “tuta”.

Va altresì ricordato che il primo romanzo sportivo d’Italia fu “Giro d’Italia” di Alessandro Pavolini, dedicato alla omonima manifestazioni sportiva. Tra gli intellettuali non conformi del Novecento va inoltre ricordata la passione di Ezra Pound per il tennis, che a Rapallo era solito sfidare Giuseppe Bacigalupo, padre del critico letterario Massimo. Il 5 aprile 1928 il poeta scriveva a suo padre in America: “Qui l’ultima novità è che l’altrieri il ragazzino di 15 anni con cui gioco a tennis è andato a Genova e ha battuto il campione d’Italia”. Era anche un ottimo schermidore mentre, a giudicare dal suo maestro Ernest Hemingway, nella boxe aveva qualcosa da migliorare.

Degno di nota anche l’innamoramento di Martin Heidegger per Franz Beckenbauer, nel cui portamento regale forse poteva intravedere uno stile che reca l’impronta dell’Essere. Ha scritto, in tal proposito, il figlio (in realtà figliastro) Hermann: “Da giovane ha praticato molti sport: è stato un buon atleta, ha praticato ginnastica attrezzistica, ha giocato al calcio, ha fatto un po’ di canottaggio, ma era appassionato soprattutto di sci. Diceva che chi non sa far bene uno stemm cristiania non può far bene nemmeno in filosofia. Amava anche guardare le partite della nazionale di calcio e quando c’erano incontri importanti li seguiva da una televisione di un vicino. Tifava molto per Beckenbauer”.

sabato 11 maggio 2013

Racconti di...verità!

di Mario Michele Merlino (ereticamente.net)
Confesso che il mio primo libro di racconti, Atmosfere in nero, mi ha dato delle soddisfazioni e di questo lo devo ringraziare. E di questo ‘grazie’ ne faccio partecipi i lettori di Ereticamente. E’ come se ci si sedesse intorno al camino in un giorno in cui i vetri tremano per le raffiche del vento e sottili strati di ghiaccio si formino ai bordi della finestra. Siccome le giornate si sono rese ormai più che primaverili, immaginiamoci di stare sulla spiaggia di Mondello (e chi voglia intendere, vi riconosca una richiesta esplicita di invito!) all’ombra di una vela a mezzogiorno, mentre spira un’arietta che porta odore di mare, salsedine e promessa di terre lontane.
(Dicono sia in atto un fenomeno di alterazione irreversibile del clima del Mediterraneo, rendendo quest’ultimo simile a luogo tropicale, soggetto a caldo umido e a repentini e violenti acquazzoni. Del resto ho memoria di quando, ragazzo, mi inerpicavo per i sentieri dell’entroterra riminese a fine stagione, tra Carpegna e Pennabilli, in cerca di fossili, tante le conchiglie e una volta un granchio con un pesciolino tra le chele. Insomma un tornare ai primordi, quando, ad esempio, come ci narra il poeta latino Lucrezio, era sufficiente afferrare per i capelli qualche amabile fanciulla e trascinarla in una caverna, offrendole un corbezzolo o, al massimo, un frutto. Tempi da trogloditi, l’ammetto, tempi però, mi si permetta, essere sotto l’ordine naturale delle cose…ahahah…).
Da ragazzo m’ero dilettato, senza successo alcuno e racchiudendoli nel cassetto, a buttar giù qualche esile raccontino e, in età di ondate ormonali, al confine della pornografia. Altrettanto dicasi dall’eremitaggio di Regina Coeli (ondate ormonali comprese e represse). Poco ancora nei successivi anni, febbrilmente coinvolto nel ruolo di docente (d)emerito di storia e filosofia (con relativa prosopopea e arrogante superomismo). Ecco che mi vien fuori il ghiribizzo di cimentarmi nella narrativa, di cui ero stato certo solerte lettore ma considerandola figlia di un dio minore. In questo – e ne faccio testimonianza – sollecitato dalle conversazioni pacate e intelligenti, in tardi pomeriggi e nei pressi di Fontana di Trevi, con Ugo Franzolin, già corrispondente di guerra della XMAS, giornalista de Il Meridiano d’Italia e de Il Secolo, scrittore.
Così raccolgo la bella storia, tragica, ma io l’avverto tutta d’amore di Mila ed Emilio, il cui destino è racchiuso in quel fazzoletto sporco di sangue, di cui il tenente Bernardino Bernardini aveva fatto dono, poco prima d’essere fucilato nello stadio di Lecco con gli altri quindici ufficiali. E la vicenda di Alima, giovane etiope, e di Marco nelle terre aspre dell’Impero alla vigilia e durante la seconda guerra mondiale, con una appendice nell’oggi, in questo presente così squallido e triste nonostante - o soprattutto – le luci variopinte del consumismo. Ancora altre storie tra spezzoni di vite reali, come quella dell’ausiliaria Gina o del comandante Sannucci, e il ‘flusso ebbro’ che scaturiva nelle notti trascorse a corrente alternata.

In primo luogo una sfida con me stesso. Quel dare dignità ad altra forma di linguaggio, superando le pretese della filosofia e le analisi della storia di esser loro, tramite il saggio, le uniche a meritare attenzione. Mettersi in gioco nel reiterato chiedersi: ‘cosa farò da grande?’, perché, sì, mi rendo conto che non posso più dilazionare quanto l’anagrafe pretende. E rendersi conto che ci vuole sudor di gomito, scrivere scancellare e riscrivere, nitore della parola che deve esser tutta ‘tua’ e, al contempo, ‘di tutti e per tutti’. E oggi, andando dall’editore, sapere alfine se, ai primi di giugno, potrò dare voce al seguito con Ai confini del nero, ulteriori cinque racconti.
La storia, le storie di uomini e donne che ci hanno insegnato, dimostrando di possedere un animo grande, che valeva la pena di scegliere per non essere scelti e di scegliere per sempre. Soprattutto essere fra coloro che possiedono quello ‘spirito anticonformista per eccellenza, (quell’essere) antiborghesi sempre, irriverenti per vocazione’, come voleva fossero i giovani fra le due guerre Robert Brasillach. Non poco direi, anzi tanto e, qualche volta confesso, troppo… Sempre nella consapevolezza, gioiosa e raramente amara, d’essere ‘i cattivi dalla parte dei buoni’ (come ho scritto in E venne Valle Giulia), mai ‘dalla parte sbagliata’ e incuranti se i fessi i malevoli e gli opportunisti ci definiscono ‘male assoluto’…

Il 18 maggio sono stato invitato a proporre il libro a Lecco dove venne posta, nello stadio di via Cantarelli, una lapide a ricordo della fucilazione (assassinio premeditato e vigliacco) dei sedici ufficiali della Leonessa e del btg. Perugia, fra cui il padre di Mila. Una lapide riparatrice, sovente picconata da anonimi-conosciuti amanti del buio, che oggi la nuova giunta comunale vuole rimuovere e collocare in altro luogo e riscrivere per dare fondamento di (il)legittimità a quella mattanza.
E, probabilmente, degno compimento di tante presentazioni, di amici o di sconosciuti lettori, di coloro che mi hanno accompagnato in questa mia personale ‘avventura’. A tutti costoro va il mio ‘grazie’, soprattutto – e mi ripeto e lo ripeto per quelli che hanno condiviso e condividono le nostre idee le nostre battaglie il nostro cammino, magari avendo un momento di fiato grosso, di stanchezza, di esitazione – a chi ha ispirato questo libro, facendo sì che le parole fossero ossa carne e sangue al servizio e ‘per l’Onore!’.

venerdì 10 maggio 2013

Un anno in Palestina: la colonizzazione

di Andrea Petolicchio (L'Intellettuale Dissidente)

Quando si parla di colonizzazione si pensa spesso all’epoca dell’imperialismo, in cui le grandi potenze europee si spartivano il mondo. Oggi si sente molto parlare delle colonie israeliane in Cisgiordania, ma difficilmente chi non c’è mai stato può immaginarle. Una colonia può infatti avere aspetti molto diversi. Certe colonie sono vere e proprie città, con negozi, scuole e ospedali. Altre assomigliano a piccoli villaggi di 20 o 30 casette all’americana, con il garage e il praticello davanti. Altre ancora consistono in 3 roulotte fissate a terra con una gettata di cemento fatta fortunosamente. Ci sono infatti colonie legali (legali nel senso che i costruttori hanno un permesso dello Stato israeliano per edificare, nonostante ad Oslo le autorità israeliane si fossero impegnate ad abbandonare questa pratica) e colonie illegali.

Una colonia illegale è generalmente impiantata nottetempo da un piccolo gruppo di giovani ebrei ultraortodossi che portano in cima ad una collina qualche roulotte e la piantano a terra. Ovviamente all’alba il contadino arabo che possiede la terra vuole cacciarli, ma questi chiamano l’esercito. Una pattuglia arriva e, secondo voi, chi difende? La famiglia di contadini arabi che possiedono la terra dai tempi degli Ottomani, o i giovani zelanti ebrei? Sappiamo tutti che il primo dovere di uno Stato è proteggere i suoi cittadini, ed Israele lo sa anche meglio di noi. Quindi la nuova colonia viene generalmente messa sotto sorveglianza per evitare altri attacchi. A questo punto sorge spontaneo chiedersi: ma questi coloni perché non vengono cacciati subito, visto che non avevano alcun permesso per costruire? La risposta è semplice. Perché in Israele è vietato sgomberare i cittadini dalle loro abitazioni: in Israele anche chi, per esempio, non paga l’affitto non può essere cacciato di casa. Così la piccola colonia resta, viene regolarizzata, cresce e così come un fungo su quella collina nasce quella che poi diventerà una vera e propria città.

In Cisgiordania di fronte ad ogni paesino c’è una colonia. Di fronte a quello che era il mio, Abu Dis, c’è Maale Adumim, una città di 35.000 abitanti, con uno splendido centro commerciale e 4 piscine olimpioniche. Il tutto su terreni appartenenti, dal tempo degli Ottomani, a famiglie arabe. Gli Ebrei in Cisgiordania sono in tutto mezzo milione. Immaginare una pace fondata sulla soluzione bi-statale (due popoli, due stati), sembra molto difficile in questo contesto. I coloni non se ne andranno. Tutto questo è valido anche per Gerusalemme est. In città vecchia, tra i vicoli del quartiere musulmano facilmente si vedono porte blindate sorvegliate da qualcuno. Anche quelle sono colonie, cioè case di cui il legittimo proprietario arabo è stato cacciato e occupate da qualcuno che è cittadino israeliano e che quindi gode della protezione della legge. Ma perché fanno questo? Con quale coraggio giovani Ebrei vanno a vivere, insieme alle loro famiglie, in un ambiente a loro ostile? Fanno questo per realizzare l’ideale sionista, allo scopo di ebraizzare Gerusalemme est e tutta la Cisgiordania, in un’ottica puramente colonialista. Oggi tutte le democrazie occidentali riflettono sul proprio passato coloniale, e sui libri di storia il colonialismo è studiato come un’epoca di razzismo e barbarie. Lo stato di Israele è fondato su questi principi. Ma è una storia vecchia di 65 anni, non è questo il punto. Il punto è che la colonizzazione continua ancora oggi.

giovedì 9 maggio 2013

È morto Ottavio Missoni. Signore della moda, soldato nella vita, memoria storica della pulizia etnica di Tito...

di Gloria Sabatini
Un signore, elegante fino all’ultimo, gli occhi azzurri rimpiccioliti dalle rughe portate con disinvoltura, l’immancabile gilet a righe “di famiglia”. A 92 anni è morto questa mattina Ottavio Missoni, nella sua casa in provincia di Varese. Dalla prima maglieria a status simbol della moda italiana, come lo definì la stampa americana negli anni ’70. 

All’apice dell’influenza internazionale di Missoni il Chicago Tribune parlò di «maglia sensazionale in Italia. Colori che sono una rivelazione di bellezza naturale». Scompare l’ultimo patriarca di una grande generazione di stilisti, la cui maison ancora oggi è in grado di dettare e tendenze del fashion internazionale. Nato nel 1921 a Ragusa, Ottavio è cresciuto a Zara fino a sette. «La città non esiste più, non c’è più nulla», ricorda nella sua ultima intervista, distrutta per l’80 per cento dai bombardamenti, resta solo nel suo cuore di esule, nel ricordo dei concittadini infoibati per ordine del maresciallo Tito.

Partecipò alla battaglia di El Alamein, dopo quattro anni vissuti in un campo di prigionia americano in Egitto, nel 1946 torna in Italia, a Trieste, dove si iscrive al Liceo Oberdan. Una vita fatta di sfide, di dolori e di successo, anche se lui, schivo, non usa mai la parola sfida, «ho fatto soltanto scelte di vita». Dai 16 ai 32 anni è stato più volte campione di atletica, nei 400 metri piani e a ostacoli: ha vestito 23 volte la maglia azzurra, ha conquistato 8 titoli italiani, l’oro ai mondiali studenteschi nel 1939. Quando riprese le competizioni, arrivò sesto alle Olimpiadi del 1948 e quarto agli europei del 1950. 

Fu ai giochi olimpici che conobbe sua moglie Rosita, con la quale lavorò gomito a gomito costruendo lo stabilimento e la casa di Sumirago, dove ancora adesso la famiglia vive e lavora, perché i Missoni si considerano artigiani (lei pensava ai modelli, lui ai tessuti). La Dalmazia, i suoi colori, i suoi sapori rivivono nelle sfumature e nei tocchi delle sue creazioni («certo se fossi in Finlandia, avrei creato un’altra moda). Dell’esodo giuliano-dalmata, un tabù per decenni e solo negli ultimi anni entrato ufficialmente nei testi di storia, ha sempre parlato come di «un’ autentica pulizia etnica». 

Fu combattente nella Seconda guerra mondiale e venne nominato Commendatore della Repubblica nel 1986. A guidare l’azienda oggi restano i figli Angela e Luca perché Vittorio non c’è più. È scomparso dallo scorso gennaio durante un viaggio ai Caraibi al largo delle isole venezuelane di Los Roques su una rotta maledetta. La vita ha “riservato” a Ottaviano anche lo strazio contro natura di sopravvivere al figlio.

mercoledì 8 maggio 2013

L’Università di Lecce e Carmelo Bene? Accademici dimenticate il Maestro…


di Felice Lecciso (barbadillo.it)

Vogliono fortissimamente intitolare l’ Università di Lecce a Giuseppe Codacci Pisanelli? Ebbene lo facciano! Una pura e perfetta scelta glocal in un mondo pseudo global. Una scelta legittima e non ne parliamo più. Superato questo scoglio merita tuttavia puntualizzare alcune cose. La mia frequentazione decennale con Maria Luisa Bene, come avvocato e come amico, mi ha consentito di apprendere molto sul Maestro e tra le cose che ho appreso vi è che Egli rifiutò la cittadinanza onoraria di Otranto solo poiché propostagli non all’unanimità. Figuriamoci se oggi il Maestro accetterebbe una intitolazione frutto di un eventuale “ripensamento”.

Ve lo immaginate? “Scusi tanto ci eravamo dimenticati di Lei …”. Carmelo Bene è un genio riconosciuto dalla Russia all’Australia, ha una dimensione ed una fama internazionale del tutto ignota ai suoi conterranei , non merita quindi di essere “ridotto” a “concorrere” , tra polemiche a tratti triviali, per una targa . Su quella targa, su quella carta intestata, tanto nome non ci sta, è troppo grande. E si badi bene, io non recrimino anzi lo comprendo: Carmelo Bene non si attaglia alle esigenze locali. Carmelo Bene, rispetto alla nostra realtà (invero miserella sul piano culturale) è un elemento “osceno” nel senso letterale del termine greco antico, che come Egli stesso amava spiegare, significa “fuori dalla scena” (intesa come scena teatrale). Non è popolare perché non è volgare e non è volgare perché non è popolare. Insomma non passa in TV e richiede l’uso del cervello. Intitolare l’Università del Salento a Carmelo Bene non si può dovendo prevalere quelle rispettabilissime motivazioni che con il suo consueto affilatissimo rasoio verbale il mio stimatissimo amico Prof. Francesco Paolo Raimondi definisce “assai più riduttive e di carattere localistico e provincialistico”. Del resto, Caro Raimondi, se il “suo” Vanini è certamente mortificato dalla indegna dedica di una via secondaria in Lecce , si immagini il “mio” Carmelo Bene se vedesse che hanno ben pensato di intitolare a suo nome l’ex “foro boario”, vulgo campo vaccino, ovvero l’ex mercato delle vacche ed odierno parcheggio delle corriere.

Non possono intitolare a Carmelo Bene l’Università, non dopo che un luogo dell’anima e della cultura, un pezzo di carne viva del Maestro, la Casa di Santa Cesarea Terme, è stata svenduta all’asta dal Tribunale, nel silenzio e nell’ignavia di chi poteva e doveva intervenire, per diventare un anonimo luogo di anonime vacanze al mare. Non dopo che con il triplo dei soldi occorrenti per salvare quella casa, nel decennale della morte, sono stati organizzati e finanziati ludi verbali e forse cartacei, sotto forma di evanescenti fiere della vanità, che hanno lasciato un segno indelebile quanto il rilascio di un gabbiano contro le onde del mare. Ce ne siamo fatti una ragione.

Questa Università intitolatela a chi volete: Codacci Pisanelli? Va benissimo! Però una preghiera a mani giunte: astenetevi dal prendere ulteriori iniziative sul Maestro. Sento parlare di intitolare a Carmelo Bene qualche vecchio cinema dismesso. Che orrore! Di questo passo non mi stupirei di venire a sapere di imminenti inaugurazioni in pompa magna di statue equestri del Maestro nel parcheggio di qualche centro commerciale tra palloncini ed offerte promozionali. Lasciate stare! Dimenticatelo! (absit iniuria verbis credo Vi riesca senza sforzo).

martedì 7 maggio 2013

Veto sulle armi chimiche se non sono americane


di Massimo Fini

L' 'intelligence' americana ha affermato di aver trovato nella zona di Aleppo tracce dell'uso di armi chimiche (Sarin), attribuendolo all'esercito di Assad. Un mese fa Obama aveva dichiarato che se Assad avesse superato la 'linea rossa', se cioè avesse fatto uso di armi chimiche, «gli Stati Uniti, consultati gli alleati, sarebbero intervenuti militarmente». Di recente Obama si è fatto più prudente («il quadro è ancora incompleto»), forse memore della figuraccia rimediata dagli Stati Uniti quando nel 2003 invasero l'Iraq sostenendo che Saddam Hussein deteneva 'armi di distruzione di massa'. Poi, rastrellato da cima a fondo il Paese furono costretti ad ammettere che di queste armi non c'era traccia. 'Figuraccia' che è costata agli iracheni dai 650 ai 750 mila morti, secondo un calcolo molto semplice fatto da una rivista inglese di medicina confrontando l'andamento dei decessi durante gli anni di Saddam con quello degli anni dell'occupazione. E ancora ne gliene costa perchè, abbattuto 'l'uomo forte', si è scatenata una guerra civile fra sciiti e sunniti con decine di morti quasi ogni giorno di cui la stampa occidentale non dà più nemmeno notizia.
Ma ciò che vorrei sapere è da dove deriva l'autorità morale degli Stati Uniti per tracciare 'linee rosse' sull'uso delle armi chimiche. Furono loro, nel 1985, a fornirle a Saddam in funzione antiraniana e, in prospettiva, anticurda. Facenda a cui il rais si adopero' diligentemente, finita la guerra, sui curdi (5000 persone 'gasate' in un sol giorno nel villaggio di Halabya) e, in modo più prudente, sui soldati iraniani cui peraltro Khomeini aveva proibito l'uso di queste armi perchè 'contrario alla morale del Corano', cosi' come, e per lo stesso motivo, il Mullah Omar, nel 1998 aveva proibito le mine anti-uomo. Nella guerra contro la Serbia gli Usa utilizzarono bombe all'uranio impoverito. Più di 50 militari italiani ne sono rimasti contaminati, ammalandosi di leucemia. Eppure avevano preso le loro precauzioni. Si può immaginare l'effetto di questo 'uranio impoverito' sugli ignari civili serbi e soprattutto sui bambini che viaggiano a un metro da terra e sono abituati a toccar tutto (ma il calcolo, prudentemente, non è stato divulgato). Nel 2001 gli americani per prendere Bin Laden hanno spianato le montagne dell'Afghanistan a colpi di bombe all'uranio (che sarebbe come cercare di uccidere un moscerino sparandogli contro una palla di cannone) e il ministro della Difesa Rumsfeld ammise che per «stanare i terroristi useremo anche gas tossici e armi chimiche». I risultati si vedono ora. Ha detto un contadino afgano, Sadizay: «Un raid della Nato ha distrutto la mia casa, ucciso mia moglie e tre dei miei figli. Ma quando ho visto nascere mio nipote senza gambe e senza braccia allora ho capito che gli americani ci avevano derubato anche del nostro futuro».
Col nuovo ministro degli Esteri, la 'non violenta' guerrafondaia Emma Bonino, forse non manderemo truppe in Siria, ma sicuramente le manteremo in Afghanistan, nella più infame, per ora, delle guerre del Terzo Millennio.

lunedì 6 maggio 2013

Agnese e il legame di Paolo Borsellino con la fiaccola tricolore...

di Mauro La Mantia (barbadillo.it)

Era l’estate di due anni fa ed a Palermo fervevano i preparativi per la tradizionale fiaccolata del 19 luglio in ricordo di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta, caduti nella strage di Via D’Amelio. Preparativi ancora una volta contrassegnati da polemiche striscianti tra una parte della famiglia Borsellino (in particolare i fratelli) e la comunità militante palermitana, proveniente dal Msi e da An, organizzatrice della manifestazione. Come se fosse necessaria una “patente” per ricordare Borsellino.

Sapevo che la signora Agnese ed i suoi figli non erano contrari alla nostra manifestazione. Negli anni avevano partecipato manifestando pubblicamente apprezzamento per la fiaccolata che, con il passare del tempo, è diventata la più grande manifestazione antimafia a Palermo capace di aggregare trasversalmente tanti siciliani nel ricordo di Borsellino. Decisi comunque di contattare Manfredi Borsellino, al quale mi lega un rapporto di grande affetto, e lui stesso mi invitò a parlare con sua madre per informarla delle problematiche legate alle iniziative del 19 luglio.

Fu per me una grande emozione parlare al telefono con Agnese Borsellino. L’avevo vista qualche volta alla nostra fiaccolata, senza però riuscire mai a scambiare qualche parola con lei. La telefonata durò circa venti minuti, quasi un’eternità per me. Per ovvie ragioni di riservatezza ho sempre tenuto per me i particolari di quella telefonata. Posso però testimoniare la sua forte vicinanza ideale, quasi mista a gratitudine, verso i tanti i ragazzi che ogni anno danno vita alla fiaccolata. Agnese Borsellino amava la fiaccolata perché quella manifestazione, più delle altre, rispecchiava la personalità del marito: il silenzio e la compostezza del corteo per ricordarne la sobrietà, il tricolore a rappresentare l’unità del popolo italiano contro la mafia, negli striscioni i simboli che ricordano la sua militanza giovanile. Uno scenario molto diverso da certe manifestazioni in Via D’Amelio piene di livore, polemiche e schiamazzo. E poi quei tanti giovani con le fiaccole in mano che sembrano una conferma alla frase di Paolo Borsellino, pronunciata alla Festa del Fronte della Gioventù nel 1990 a Siracusa: “Potrei anche morire da un momento all’altro, ma morirò sereno pensando che resteranno giovani come voi a difendere le idee”.

In quei giorni erano forti le polemiche sull’opportunità di permettere alle autorità di deporre corone di fiori in Via D’Amelio. Mi colpì una frase di Agnese Borsellino durante la telefonata. Nel ribadire quanto già detto pubblicamente sulla reale possibilità che uomini dello Stato tradirono il marito, mi invitò ad avere comunque rispetto per le istituzioni: “Mio marito si è fatto ammazzare da uomo di Stato, perché morire per le istituzioni significa morire per la patria. Anche se tradito mio marito avrebbe sempre rispetto per le istituzioni”. Concetto, condiviso dalla sua famiglia, confermato dalla scelta di Manfredi Borsellino di entrare in polizia e continuare a servire quello Stato su cui tante ombre aleggiano.

Agnese Borsellino mi chiese di abbracciare tutti i ragazzi per lei. La terribile malattia, che si era abbattuta sul suo corpo, non le permetteva già quell’anno di essere in piazza con noi. Volle anche che ringraziassi a nome suo quei giovani per la determinazione nel ricordare ancora, dopo vent’anni, suo marito. Mi chiese infine di continuare ad amare la nostra Palermo e la nostra Italia e batterci per essa, proprio come fece Paolo.

Se gli italiani amassero, senza se e senza ma, la propria terra come Agnese e Paolo la nostra storia sarebbe diversa.

domenica 5 maggio 2013

Tiocfaidh ár lá, Bobby!


di Serena Mangino

C’era una volta un’allodola che era stata rinchiusa da un uomo in una piccola gabbia, e soffrendo per la perdita della sua libertà non cantava più a squarciagola. L’uomo che aveva compiuto tale atrocità, esigeva che l’allodola facesse ciò che lui desiderava: cantare più forte che poteva, obbedire alla sua volontà, cambiare la sua natura per soddisfare il suo piacere. L’allodola si rifiutò. L’uomo allora si arrabbiò e diventò violento, prima cominciò a far pressioni su di essa affinchè cantasse, poi non ottenendo alcun risultato, ricorse a mezzi più drastici: coprì la gabbia con un telo nero, privando l’uccello della luce del sole. Le fece patire la fame e la lasciò marcire in una sporca gabbia, eppure lei si rifiutò ancora di obbedirgli. Alla fine l’uomo la uccise. Ma l’allodola possedeva uno spirito, lo spirito di libertà e di resistenza, desiderava ardentemente essere libera e morì prima di essere costretta ad adeguarsi alla volontà del tiranno che aveva cercato di cambiarla con la tortura e la segregazione.
C’era una volta un giovane cattolico irlandese, Bobby Sands, che aveva qualcosa in comune con quell’uccello, con la sua tortura, prigionia e morte. Era solo un ragazzo quando, come l’allodola, decise di lottare a costo della vita, contro l’”uomo” malvagio che stava torturando la sua Irlanda: l’invasore inglese.

Nato a Rathcoole nel 1954, quartiere a nord di Belfast, nell’Ulster, Bobby è cresciuto vivendo in una città presidiata dall’esercito britannico, dilaniata dal conflitto tra cattolici e protestanti. Una vita normale la sua finchè, fu costretto, a soli 10 anni insieme alla sua famiglia, a lasciare la loro casa di Abbots Cross a causa della loro fede cattolica.Era solo l’inizo, da li in poi la vita di quel tranquillo ragazzo di Belfast cominciò a cambiare. Furono anni, i ’60 e ’70, che videro la nascita di un vero e proprio ‘apartheid’ verso i cattolici ad opera dei Brits, una tragedia troppo a lungo ignorata da un’Europa sempre più distratta. Il trasferimento coatto, la repressione, la violenza nelle strade da parte dei soldati inglesi, le minacce ed intimidazioni anche sul posto di lavoro, lo fecero diventare un soldato repubblicano dell’I.R.A., l’Irish Republican Army.

“A 18 anni e mezzo entrai a far parte dei Provos e andai ad affrontare la potenza di un impero”. In nome della sua causa indipendentista, e per aver affidato il suo cuore a quella maledetta guerra, Bobby conobbe subito l’incubo del carcere, venne arrestato e rinchiuso in una cella di Long Kesh.

“Hanno rinchiuso il mio corpo, ma non le mie parole e nemmeno la speranza del futuro, hanno rinchiuso solo un Bobby Sands, ma altri ce ne sono in Irlanda”. Tra botte, torture, minacce e violenze divenne il leader dei famosi H-Blocks di Long Kesh, dove riuscì a tener accesa la fiamma della ribellione anche dei suoi compagni di lotta e dove trascorse gli ultimi 4 anni e mezzo prima di lasciarsi morire di fame, una fame di libertà e giustizia.Anni bui e freddi trascorsi nei lager che Bobby racconta nel suo diario, scritto di nascosto su carta igienica e fatto uscire clandestinamente dalla prigione, dove l’unico fascio di luce che lo riscaldava era la voglia di libertà per se e per il popolo irlandese.

Al quarantesimo giorno di sciopero della fame, Bobby riuscì anche a farsi eleggere deputato del Parlamento di Westminster. Fu il primo deputato nella storia ad essere eletto mentre scontava una pena, pur essendo innocente, e mentre si stava lasciando morire. Infatti smise di lottare a causa della malattia dovuta all’inedia, che dopo 60 giorni di sciopero della fame, lo portò alla morte il 5 maggio 1981. Avevano distrutto il suo corpo, ma non erano riusciti ad uccidere il suo spirito, che continuava a vivere in chi ogni giorno proseguiva la lotta per la libertà e l’autodeterminazione dell’Irlanda.

“Se non riescono a distruggere il desiderio di libertà non possono stroncarti. Non mi stroncheranno perchè il desiderio di libertà e la libertà del popolo irlandese sono nel mio cuore. Verrà il giorno in cui tutto il popolo irlandese avrà il desiderio di libertà. Sarà allora che vedremo sorgere la luna.” Ta Bobby bàs: Bobby è morto, ed è morto sognando il giorno in cui il popolo irlandese avrebbe visto sorgere la luna, è morto perchè altri potessero vivere meglio, ed è morto come un figlio dell’Europa,rimasto senza voce.“Mio fratello non è morto per vedere la nostra gente restare sotto l’occupazione inglese per sempre”, sono le tristi parole della sorella Marcella, secondo la quale Bobby piangerebbe se sapesse che la bandiera britannica sventola ancora oggi nell’Ulster.

A pochi giorni dalla morte scrisse nel suo diario: “Ho scelto di morire per poter sopravvivere, ma non ho niente di cui pentirmi. Ho scelto di percorrere la strada più tortuosa che porta a Dio…e se qualcuno sentisse parlare di un tale Bobby Sands, ricordi che è solo uno dei tanti che ha lottato per la sua terra, la sua gente, il suo Dio in quell’inferno chiamato Nord, Nord Irlanda”.

Una cosa è certa, Bobby ora è libero, è nel cielo d’ Irlanda e dorme tra le stelle!

Ricordiamo ai lettori, non senza orgoglio, che grazie ad una proposta di Casaggì, portata avanti da Francesco Torselli e approvata dal consiglio comunale fiorentino, la nostra città avrà una strada intitolata a Bobby Sands. Un piccolo passo per ricordarne l'esempio e il sacrificio.