martedì 23 giugno 2015

Mario Sanesi: itinerario di libertà dal Msi alle Nuove sintesi...




La Voce della Fogna
di E. Nistri (Barbadillo.it)

Longanesi ha scritto che i figli dei grandi uomini assomigliano al padre solo per il naso. L’aforisma si adatta solo in parte al caso di Mario Sanesi, anche se non è da escludere che la personalità volitiva e un po’ ingombrante del padre abbia influito sul suo “profilo basso” in politica come nel lavoro. Su di esso pesò anche un’innata modestia, che lo indusse per esempio, lui laureatosi a pieni voti in storia medievale, con una ponderosa tesi di ricerca che Franco Cardini gli aveva assegnato intuendo in lui non comuni doti di ricercatore, a non cercare gli sbocchi universitari che il suo maestro gli aveva proposto, accontentandosi di una decorosa e inappuntabile carriera come professore di scuola. Ma non sempre la modestia, con buona pace di Marinetti, è la virtù dei mediocri, e, come dimostrano i suoi articoli e le sue recensioni su “Diorama letterario”, sempre puntuali, documentate, approfondite, Mario un mediocre non era.
Legato da rapporti di amicizia e di stima a Marco Tarchi, Sanesi seguì le principali tappe del suo itinerario umano, politico e culturale, dentro e fuori il Msi: dal campeggio a Corfù, nella Grecia dei Colonnelli, l’anno della maturità (quando però, dopo qualche dissapore coi locali, non rinunciò a intonare le strofe irripetibili dell’Osteria numero dieci cantate a suo tempo dal padre volontario di guerra) alla cooptazione nel direttivo provinciale del partito, a metà anni Settanta, insieme a figure di non comune levatura intellettuale, dallo stesso Tarchi a Dario Durando, dai fratelli Sinatti a Carlo Terracciano; dai viaggi in Francia all’amicizia con Jacques Marchall, dalla fondazione della “Voce della Fogna” a quella di “Diorama”, dall’esperienza della Nuova Destra alla fuoruscita dal partito, a costo di entrare in collisione col “federale padre” che pure doveva essere orgoglioso di quel figlio colto, lui che per i traumi del dopoguerra e la necessità di mantenere la famiglia non era potuto andare al di là di un diploma di ragioniere.
Il destino lo accomuna a Terracciano e alla Tre Re
Negli ultimi mesi della sua vita il suo aspetto fisico appariva pesantemente segnato dal subdolo operato di un male rivelatosi invincibile. Il suo volto di eterno ragazzo appariva ormai opaco e segnato. Eppure, stoico senza enfasi, cercò fino all’ultimo di condurre una vita normale, senza indulgere all’autocommiserazione, continuando a seguire i suoi discepoli sin quasi alle soglie della maturità, forte di una vocazione didattica che lo accomunava a Marco Tarchi. Pochi giorni fa, quando il suo destino era ormai segnato, fece la scelta di vivere i pochi giorni che gli restavano in Sardegna, con un gruppo di amici fidati. La morte, per arresto cardiaco, l’ha colto quasi in riva al mare, all’età di 62 anni: troppo pochi per chi avrebbe avuto ancora tante cose da offrire e da chiedere alla vita. Resta il rimpianto di un uomo modesto ma non mediocre, riservato ma non timido, colto senza ostentazioni, riservato ma capace di dire quello che pensava senza ritrosie né infingimenti. E la rabbia per un destino ingrato che l’accomuna purtroppo a tanti altri esponenti della sua generazione, da Carlo Terracciano a Susanna Tre Re.
Addio, Mario. Di quella magica e remota stagione di “Elementi”, che, insieme a tanti fraintendimenti e incomprensioni, ci regalò qualche attimo di rara felicità, non hai voluto essere che un discreto testimone e un intelligente comprimario. Ma non è retorica scrivere che, se tutti noi avessimo preso esempio da te, l’Italia sarebbe forse un paese migliore.
Alla politica era arrivato quasi per predestinazione familiare. Il padre, Sergio, originario di Castelfiorentino, uno dei comuni più rossi d’Italia, era stato giovanissimo volontario nella campagna di Grecia, combattente nella Repubblica Sociale, per poi divenire, dopo anni molto difficili, dirigente della Silvaneon, un’azienda pionieristica nel campo della pubblicità luminosa, fondata da Nando Martellini, anch’egli reduce della Rsi, vittima di uno dei primi rapimenti in Toscana. All’alba degli anni Settanta, quando il figlio si iscriveva alla Giovane Italia sull’onda delle grandi manifestazioni per la libertà della Polonia, era il segretario della federazione fiorentina del Msi, asserragliata come in un fortilizio al piano nobile di un palazzotto di piazza Indipendenza. Consigliere comunale e provinciale, alla fine degli anni Ottanta sarebbe divenuto senatore, per poi traghettare, forte del suo prestigio di ex combattente, il riottoso mondo reducistico missino in Alleanza Nazionale. Buon oratore, stimato nelle istituzioni anche dagli avversari, ricco di interessi culturali nonostante gli studi interrotti, morì nel 1999 e non è forse un caso se la sua scomparsa è coincisa con l’emergere di forze centrifughe sempre più devastanti all’interno della destra fiorentina.

sabato 20 giugno 2015

Solstizio d’Estate. La riscoperta delle Origini e l’affermazione identitaria...



di Maurizio Rossi
“L’aria che tu respiri porta al tuo cuore un sangue più ricco. Più ricco di profumo di rose, di ronzio di api, di calore salutare che penetra nella terra inebriata di fecondità. Gioia dell’estate. Certezza dell’estate. Ecco che dal rogo sale la fiamma trionfante che illuminerà la notte fino all’ardente aurora del prossimo mattino. Lo stesso calore riscalda i nostri cuori. La stessa luce illumina i nostri occhi. La stessa volontà arde nei nostri cuori. La stessa speranza si infonde nei nostri spiriti. Gioia del fuoco. Certezza del fuoco. I germogli sono fioriti. Gli uccelli hanno cantato. Sale la grande fiamma di gioia. Salgono nel cielo d’Occidente le fiamme della speranza. Sale trionfante, dal più profondo del nostro essere, il sangue dei nostri antenati. La loro fede esaltante e generosa. Gioia della vita. Certezza della vita.” (Jean Favre)
Da tempi immemori, attorno alla data del 21 giugno il Sole, Helios, celebra il suo magnifico trionfo, ma allo stesso tempo prepara anche l’inizio del suo inesorabile reclinare, fino al culmine del Solstizio d’inverno, il preludio del Natalis Solis Invicti.
I due Solstizi: complementari, ma differenti. Ambedue carichi di aspettative. Ambedue significativi nell’ordinata scansione ciclica della vita.
Solstizio – il Sole si ferma – è il momento dove diventa possibile ricevere il massimo della potenza solare: la mistica forza che unisce il cielo alla terra si manifesta più forte – non a caso nelle credenze germaniche la raffigurazione di tale unione, la congiunzione organica del cielo con la terra, era ben presente nell’iconografia dell’Irminsul, il maestoso Albero della vita le cui possenti radici affondavano fino alle viscere della terra e la sua folta e ramificata chioma sorreggeva stabilmente la volta celeste. Attorno alle secolari querce, che nell’immaginario popolare delle comunità germaniche riproponevano la sacralità protettrice dell’Irminsul, si celebravano solennemente le ricorrenze solstiziali.
Il Solstizio corrisponde anche alla festa di S. Giovanni battista celebrata per l’appunto il 24 giugno, sei mesi prima della nascita del Cristo, sei mesi prima del Deus Sol Invictus, l’altro Solstizio – un riassorbimento operato dal cristianesimo nei confronti di quelle festività solari e pagane che erano da sempre particolarmente radicate nel costume popolare, fedelmente tramandate di generazione in generazione, gelosamente custodite nell’intima anima del popolo. E non sarà certo l’unico caso conosciuto di riadattamento.
Si passò gradualmente dalla feroce persecuzione delle credenze e ritualità pagane alla loro strumentale assimilazione. Ci appare significativo ed illuminante questo passaggio giustificativo riportato dal padre benedettino Dom Henri Leclercq e presente nel suo dizionario di archeologia cristiana e liturgia del 1903: “Essendo Cristo concepito come il vero dio della luce e il creatore del Sole, in cui ha stabilito la sua dimora, vediamo come nei primi secoli dell’era cristiana il dio Sole si trasformi nel Cristo.”
Il Solstizio d’estate vuole rappresentare la pregnante manifestazione della potenza solare del divino, l’affermazione sacra e ciclica della vita per mano dell’uomo e della donna, di tutto ciò che è sano, giusto e bello – eticamente sano e giusto, della natura sbocciata, della fertilità della terra e della procreazione che daranno nuova vita in maniera altrettanto ciclica, della gioia, della spensieratezza e dell’amore, della Comunità e delle famiglie che riscoprono lo spirito originario della festa, l’importanza del retaggio degli antenati e degli speciali vincoli che a loro ci legano, la riconferma del necessario perdurare dell’esistenza e dei caratteri del nostro popolo, della nostra peculiare identità.
Non a caso, proprio attraverso il coinvolgimento consapevolmente partecipativo al suggestivo momento comunitario del Solstizio diviene possibile, per una data Comunità particolarmente attenta, poter attingere ai profondi e primordiali depositi identitari contenuti nel prezioso scrigno della memoria più intima e ancestrale del popolo e richiamare a sé il suo rimosso inconscio collettivo, che altro non è se non l’originario codice spirituale e bio-psichico della stirpe, un codice non scritto che nonostante le tante avversità riesce ancora a tramandarsi generosamente nel tempo e nelle generazioni.
Il Solstizio d’estate è il cerchio della vita alimentato dalla sacralità benefica del Sole che rappresenta il centro della vita, il momento dove il divino viene felicemente incontro agli uomini, i fuochi solstiziali non rappresentano altro che una sacra incandescenza che – come la potenza divina del Sole – non avrà mai fine, non cesserà mai di ardere, sconfiggendo le forze oscure e telluriche, scacciando le tenebre lontano dal mondo degli uomini.
“Noi salutiamo il Solstizio fecondo, Noi salutiamo la luce, Noi apriamo i nostri cuori, Noi alziamo le nostre mani. Sali fiamma! Sali! Noi salutiamo il Sole, Noi salutiamo la vita, Noi salutiamo colui che fu l’inizio”
Partendo da una visione tradizionale, comprendiamo altresì come nel Solstizio siano contemporaneamente presenti sia un ordinamento di natura fisica e sia un ordinamento di natura metafisica, come d’altronde esistono una distinta natura mortale e una distinta natura immortale, come é da sempre presente la ragione superiore dell’essere, principio e vera iniziazione verso il sovramondo e quella infera del divenire, purtroppo oggi drammaticamente dominante nelle sue peggiori forme caricaturali.
Essendo il Solstizio per eccellenza la porta cosmica che apre all’incontro fra l’umano e il divino occorre anche il manifestarsi di una consapevolezza cosciente, una consapevolezza spirituale nel senso più ampio, non solamente intellettuale, affinché si possa giungere alla comprensione del macrocosmo all’interno del quale ci riflettiamo, cioè la direzione verso la riscoperta della fede nella vita pensata e vissuta in completa armonia con le forze della natura e dello Spirito. Una vita organicamente intesa, estranea alle innumerevoli miserie di questo presente.
Volle così descriverlo lo scrittore francese Jean Mabire, rimarcando la speranza e la fedeltà al principio originario: “Contro le dee della notte e della luna, gli dèi del Nord si imponevano alla luce del giorno e del Sole. Il Sacro si esprimeva nel culto del fuoco e si infiammava durante le grandi feste pagane del Solstizio d’Inverno e del Solstizio d’Estate. I templi non erano caverne scure nelle quali regnavano le tenebre, bensì recinti sacri, costruiti su luoghi elevati, in balìa del vento, sferzati dalla pioggia e bruciati dal Sole. (…) Ciò che rinascerà non è un ricordo storico, bensì la fede dell’eterna Iperborea. Noi ritroveremo, nella certezza e nella fedeltà, le azioni dei nostri antenati. Annunceremo a tutti la buona novella del ritorno del Sole. Accenderemo il fuoco nei nostri camini e prepareremo i fuochi sulle colline.”
Un altro scrittore sempre francese, Henry de Montherlant, ce ne confermerà invece l’aspetto ciclico e governante l’esistenza umana: “La vittoria della ruota solare non è soltanto la vittoria del Sole, la vittoria della paganìa. E’ la vittoria del principio solare che è eterno ritorno – la ruota gira, dice la gente. In questo giorno vedo trionfare il principio di cui sono imbevuto, che ho cantato, che, con estrema coscienza, sento governare la mia vita. L’alternanza. Tutto ciò che sottostà all’alternanza. Chi comprende ciò ha compreso tutto. I greci l’hanno perfettamente assimilato.”
Allora, per comprendere appieno l’anima del Solstizio è necessario quindi allargare lo sguardo verso orizzonti più vasti e più lontani, verso un passato arcaico, ma non per questo a noi meno vicino, per poter arrivare a comprendere le comuni e specifiche origini culturali, etniche e spirituali della nostra patria continentale europea: gli europei sono divisi da un po’ di storia e uniti da molta Storia, scriveva Drieu La Rochelle.
Il ritorno solstiziale alla memoria ancestrale delle Origini, alle sorgenti, allo spazio e alla dimensione delle Origini.
Le tante culture che arricchirono la storia conosciuta dell’Europa – quella celta, quella germanica, quella latina, quella ellenica e quella slava – appartennero a popolazioni che si formarono nel corso di secoli a seguito di più diramazioni provenienti da un medesimo ceppo, da una stessa e vasta famiglia di sangue: una stirpe originaria e unitaria, un Urvolk che condivideva la medesima Koinè, la medesima organizzazione sociale e politica, la medesima concezione solare del mondo, della vita e del sacro, precise forme spirituali.
Furono la stirpe dell’ascia, della luce e del fuoco, i popoli destinati per vocazione superiore, per diritto/dovere a portare il Lògos, la Legge e a ripristinare il Kòsmos, l’Ordine.
Costoro appartennero alla stirpe indoeuropea – Vagina gentium, così li qualificheranno gli storici romani: l’utero dei popoli europei – la fonte germinale dei nostri padri, furono loro quindi i nostri antichi e comuni progenitori, i migliori rappresentanti dell’homo europaeus. Da loro noi discendiamo.
Da loro abbiamo appreso la visione virile e sovrannaturale della lotta come fondamento dell’esistenza. Da loro abbiamo ricevuto in dono il Solstizio.
Le più grandi e importanti migrazioni indoeuropee iniziarono tra il quarto e il terzo millennio a.C., all’indomani del definitivo riassorbimento dell’ultimo periodo glaciale. Ampie comunità organizzate di agricoltori, allevatori e guerrieri, masse ingenti di popoli nuovamente ricompattate, iniziarono a mettersi in marcia partendo dal loro focolare, una vasta area nordica che, secondo le interpretazioni più attendibili, si estendeva nello spazio compreso tra la Scandinavia, le rive meridionali e orientali del Baltico e i territori occidentali del caucaso, manifestando nel corso della loro impetuosa e inarrestabile marcia indiscutibili capacità militari e determinando anche il sorgere di nuove Civiltà, da quella indiana della narrazione sanscrita del Rig-Veda che ci racconta la conquista del Punjab da parte dei nobili e valorosi Arii giunti da Nord, da terre lontane attorno al 1000 a.C. fino a quella iranico-persiana.
Dappertutto in Europa l’irradiamento delle stirpi iperboree portatori del Sole invincibile abbatterà le stratificazioni sociali e politiche precedenti, imponendo nuovi modelli di autorità e rappresentazione e lasciando impronte indelebili, sorgeranno nuove forme comunitarie e statuali e verranno imposti nuovi simbolismi verticalizzanti, la severa selezione dei migliori, il rito della cremazione verrà privilegiato al posto dell’inumazione, rivelando al contempo una nuova visione della vita e della morte.
Un’immagine del mondo che, nel complesso, si manifestava attraverso impostazioni e ritualità tipicamente solari orientate verso le dimensioni superiori del cielo e della luce, come anche la purificazione dello spirito dal peso della terra e la sua liberazione in una pura sostanza di fuoco esprimevano la qualificante chiave di lettura di una nuova concezione del simbolismo divino identificante di quei popoli: il cerchio solare, la croce celtica, il disco puntato, la ruota raggiata, il carro solare che verrà poi riproposto nel mito ellenico del dio Apollo dimorante nella patria celeste degli iperborei, i cigni trainanti la nave del Sole che ritroveremo nella saga del Graal e poi le asce bipenni e a compimento di tutto questo le importanti ricorrenze solstiziali.
Il Solstizio d’inverno e il Solstizio d’estate: ambedue solenni ierofanie, manifestazioni del sacro in forma sensibile e autentiche teofanie nella percezione del divino.
Porteranno con sé, nella loro lunga marcia, anche particolari immagini caricate di grande forza e solarità riflettenti la natura e il mondo animale, ricordi e immagini di terre lontane che raffigureranno con profondo rispetto nei loro manufatti e che rimarranno impresse nel tempo, come indelebili riferimenti, nella memoria della cultura popolare: la foresta, la quercia e la betulla, il lupo e l’orso, il cinghiale, il cervo e il cavallo, l’aquila e il cigno.
Non certo per assolvere a vaghe, primitive e indistinte esigenze di matrice naturalistica, quanto invece per esternare una particolare sensibilità e uno spontaneo rispetto nei confronti dell’organicità dell’insieme della vita, fosse essa umana, animale o vegetale, poiché tutte queste altro non potevano essere che manifestazioni armonicamente complementari e sensibili di un superiore Ordine divino e metafisico – l’essenza del Tutto – e pertanto a loro volta possibili veicoli, segni e simboli sacralizzanti di un irradiamento spirituale proveniente dall’alto, di un armonioso ordinamento di natura cosmogonica e naturale dell’esistenza in ogni sua espressione: il Kòsmos visibile e quello invisibile.
Potremmo altresì parlare anche di una sorta di virile cameratismo spirituale rivolto verso tutti quegli elementi e manifestazioni, anche viventi, che vennero ritenuti di collegamento e di compenetrazione tra il mondo sensibile e quello sovrasensibile.
Ispirandosi ad una sensibilità severa, asciutta e misurata e a forme rigidamente composte e disciplinatamente strutturate, l’arrivo delle nuove stirpi indoeuropee corrisponderà poi alla fondazione di comunità patriarcali, guerriere e gerarchiche, custodi di vera giustizia e del più autentico spirito solare e apollineo. Lo stile e la legge degli Arii modellerà il volto dell’Europa, dando nuovi contenuti alla sua sostanza.
Grazie a loro nascerà l’Europa e il mito della ninfa fanciulla che cavalca il toro bianco.
Attraverso più ondate – Adriano Romualdi parlerà di una conclusiva grosse Dorische Wanderung, la calata dorica, il ritorno dei figli di Eracle – l’Europa verrà completamente sottoposta al processo di indoeuropeizzazione, annunciando così il sorgere del ciclo ellenico-romano: dalla dorica Sparta alle ferree virtù civiche di Roma, dall’originaria Tradizione di sangue, spirito e suolo fino ai valori qualitativi, gerarchici, eroici e agonistici che furono alla base della nostra Civiltà. Le forme pure e originarie della Kultur europea, nel senso spengleriano del termine.
Un consapevole riconoscimento dei valori in cui aveva preso forma la Tradizione spirituale originaria nel percorso storico della Civiltà europea, rimarcando orgogliosamente che era esistita un’unità spirituale che andava dalla nordica Islanda all’India vedica, che ha lasciato la sua potente impronta nell’Ellade arcaica, nella Sparta dorica, a Roma, nelle terre celtiche in India e nel mondo germanico, in monumenti epici come l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, il Mahābhārata, il Nibelungenlied e l’Edda di Snorri, e nell’insegnamento di Platone, di Eraclito, di Seneca.
A questa unità spirituale originaria e ai suoi frutti nel processo di indoeuropeizzazione, Savitri Devi Mukherji, riconoscendone le verità e la grandiosità, dedicherà parole calde e appassionate: “Gli Arya … Grecia, India, Germania: queste sono le pietre miliari della storia della mia vita. Proprio come le altre donne amano diversi uomini, di seguito, così io ho amato l’essenza di diverse culture, l’anima di almeno queste tre nazioni. Ma, in tutte e tre, ed al di sopra di esse, vi è la perfezione essenziale dell’arianità, che io ho visto e celebrato, adorandola per tutta la mia vita.”
Attraverso la sacralità evocatoria del Solstizio, la Comunità del popolo ritorna quindi a casa propria, alle Origini della stirpe, riscoprendone i valori fondanti, l’immagine del mondo e le verticalità spirituali: “Un anno è per gli Dèi un solo giorno ed una sola notte. Per una metà dell’anno, mentre il sole procede verso Nord, è il loro giorno, per l’altra metà, mentre procede verso Sud, è la loro notte.”
Tutti i popoli devono trovare giustificazione e nutrimento nei loro miti: I miti di fondazione li costruiscono, ne compongono la sostanza, ne strutturano la dimensione etico-spirituale, ne delineano il carattere e indicano loro il destino da perseguire.
Era infatti una giusta convinzione di Johann Gottlieb Fichte che: “Nelle qualità nascoste delle nazioni, in quelle di cui esse stesse non hanno coscienza, ma mediante le quali esse comunicano con le sorgenti della loro vita primordiale, risiede la garanzia della loro dignità presente e futura, della loro virtù e del loro merito.”
I miti di fondazione – l’Origine, nella sua piena dimensione metastorica – forniscono ai popoli la necessaria coesione identitaria, quella speciale specificità che li rende unici, li predispongono alla conquista del loro futuro e quando essi svaniscono cala la morte spirituale e di conseguenza i popoli si frantumano allontanandosi dalle loro sorgenti: niente più li unisce, poiché non sono più in condizione di distinguere un origine comune, la sua incommensurabile ricchezza.
Si dissolvono inesorabilmente il senso di appartenenza e la consapevolezza dell’essere Popolo, dell’essere Comunità, le memorie condivise e quindi l’esistenza stessa, quell’attitudine totale ed eroica nell’affrontare quanto riserva il destino, le radici più intime, le stesse forme identitarie, quelle specifiche forme di vita con tutti i loro nessi interiori e superiori che le ordinano; mettendo così a repentaglio la stessa sopravvivenza culturale, spirituale ed etnica modificando quel paesaggio che per secoli lo ha visto protagonista e artefice del proprio destino, insomma tutti quei caratteri che lo mantengono e lo conservano, dando così forma compiuta e sostanza reale alla sua identità spirituale e culturale.
Il Popolo si degrada e si trasforma in una massa anonima priva di volto, una svirilizzata e docile comparsa sul palcoscenico delle società mercantilistiche, una morte lenta e apparentemente inesorabile.
Occorre, allora, riscoprire il Mito per ritrovare il Popolo e rivitalizzarlo ponendolo in prospettiva con il passato.
Il Solstizio vuole e deve essere anche questo: il Mito che si reincarna e si ripropone come vero e la Comunità che ritrovandosi unita nel momento solstiziale ripropone se stessa come architrave politico-spirituale per la rigenerazione del proprio Popolo.
Il Mito dell’Origine svolge da sempre la funzione di ricordare e di tramandare che le tante manifestazioni del momento contingente non possono rappresentare altro che i singoli segmenti di un eterno divenire, profondamente ricco di molteplici e multiformi rimandi arcaici ed eterni, ma allo stesso tempo anche capace di evocare forme espressive sempre nuove, di generare nuove esperienze mobilitanti per i popoli e per le nazioni, quelle potenti sinergie che le rivoluzioni nazionalpopolari europee del secolo scorso hanno ben saputo manifestare.
Attraverso la riscoperta del Mito originario la voce dei popoli è quindi in grado di tornare a parlare in tutta la sua pienezza, sappiamo che noi tutti siamo soltanto un anello dell’ininterrotta catena della corrente del sangue, dei valori e della Storia dei nostri antenati, una corrente impetuosa che giunge dall’eternità e deve andare verso l’eternità.
Adoperarsi affinché questa corrente di sangue e di Spirito non si esaurisca mai è il grande compito assegnato dal destino ad ogni popolo che vuole continuare a restare tale, fedele a se stesso.
Diceva Johann Wolfgang Goethe, nelle sue massime: “Il mondo contemporaneo non merita che si faccia qualcosa per lui: ciò che esiste oggi, il momento dopo può crollare. Dobbiamo lavorare per il mondo passato e per il futuro: per il primo, per ricostruirne i meriti, per il secondo, per cercare di innalzarne il valore.”
Accendiamo allora i fuochi solstiziali, affinché le fiamme li levino alte nel cielo per gioire del trionfo del Sole invincibile, poiché la ruota gira, dice la gente …

mercoledì 17 giugno 2015

Immaturi...


di Igor Traboni (Il Giornale d'Italia)

La prima prova di italiano non la superano certo i soloni del Ministero della Pubblica Istruzione che, nel proporre le tracce ai ragazzi della maturità 2015, si sono ancora una volta piegati al ‘politicamente corretto’. 

Le tracce più ‘importanti’ hanno quello che sembra un timbro governativo (tra il radical-chic dei giorni nostri e il ’68 che è sempre vivo e lotta insieme a loro) e che si vede per benino anche a cento miglia di distanza: la solita resistenza, Calvino e un libro del ’47 con tanto di sfondo dell’8 settembre e i partigiani, gli immigrati in mezzo al mare e via di questo passo.

La traccia storica, ad esempio, è basata su un testamento spirituale scritto da un ufficiale dell'esercito – Dardano Fenulli - che dopo l'otto settembre del 1943 partecipò attivamente alla Resistenza e per questo venne condannato a morte. Nel documento proposto Fenulli insiste sulla continuità tra gli ideali risorgimentali e patriottici e la scelta di schierarsi contro l'occupazione nazista.

Questo il testo: “Le nuove generazioni dovranno provare per l’Italia il sentimento che i nostri grandi del risorgimento avrebbero voluto rimanesse a noi ignoto nell’avvenire: «il sentimento dell’amore doloroso, appassionato e geloso con cui si ama una patria caduta e schiava, che oramai più non esiste fuorché nel culto segreto del cuore e in un’invincibile speranza». A questo ci ha portato la situazione presente della guerra disastrosa. Si ridesta così il sogno avveratosi ed ora svanito: ci auguriamo di veder l’Italia potente senza minaccia, ricca senza corruttela, primeggiante, come già prima, nelle scienze e nelle arti, in ogni operosità civile, sicura e feconda di ogni bene nella sua vita nazionale rinnovellata. Iddio voglia che questo sogno si avveri”.
E Matteo Renzi subito a cinguettare su twitter: «Calvino, Resistenza, Malala, Mediterraneo. Sono curioso di leggere i commenti dei ragazzi quando usciranno da #maturita2015».

Poi, l’analisi del testo, con lo scontatissimo Italo Calvino. La traccia è un estratto di "Il sentiero dei nidi di ragno", il romanzo del ’47 (neanche dopo la letteratura italiana non avesse prodotto più nulla…)  che ha protagonista un orfano che vive i fatti accaduti in Italia dopo l'8 settembre 1943.

La riflessione sul diritto all'istruzione è invece la traccia del tema di ordine generale. I maturandi devono sviluppare la traccia partendo da una di Malala Yousafzai, attivista pachistana e più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace: "Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo". 

La letteratura come esperienza di vita è la traccia proposta per il saggio breve o articolo di giornale in ambito artistico-letterario. Nei materiali allegati per la prova ci sono versi tratti dal canto V dell'Inferno di Dante (immancabile omaggio a Roberto Benigni più che all’Alighieri, insomma) e le immagini di Hopper, di Matisse e di Van Gogh. Per il saggio breve o articolo di giornale di ambito storico-politico viene chiesto agli studenti di sviluppare la traccia: "Il Mediterraneo, atlante geopolitico d'Europa e specchio di civiltà".  I fatti di Ventimiglia, evidentemente, non hanno fatto in tempo ad inserirli, ma è fin troppo facile prevedere che molti ragazzi si butteranno su questo.
Nessuno scatta di fantasia neppure per l'ambito socio-economico (la traccia proposta è "Le sfide del XXI secolo e le competenze del cittadino nella vita economica e sociale") e per il saggio breve o articolo di giornale di ambito tecnico scientifico ("Lo sviluppo scientifico e tecnologico dell'elettronica e dell'informatica ha trasformato il mondo della comunicazione che oggi è dominato dalla connettività. Questi rapidi e profondi mutamenti offrono vaste opportunità ma suscitano anche riflessioni critiche".)

martedì 16 giugno 2015

Francesco è la primavera...


di Emma Moriconi (Il Giornale d'Italia)

"Per chi vorrà ricordare Francesco a 36 anni dal suo assassinio gli appuntamenti sono i seguenti: Lunedì 15 giugno, ore 23,30, concentramento, inquadramento, saluto e avvio della veglia che avrà luogo sino alle 06,00. Martedì 16: il Presente al Camerata Francesco Cecchin sarà chiamato, ora prevista, alle 18,30. Onore a Francesco Cecchin". Queste brevi righe riepilogano il ricordo annuale dedicato al giovane Francesco Cecchin, assassinato trentasei anni fa a via Montebuono, una traversa di Piazza Vescovio. Campeggiano, queste poche righe, su un gruppo Facebook dedicato al ricordo di Francesco: "Piazza Vescovio e la sua gente per Francesco Cecchin, si chiama, ed è composto da un nucleo di persone che da anni si battono per mantenere vivo il suo ricordo. È grazie a loro se oggi piazza Vescovio a Roma ha un giardino intitolato al giovane martire di quegli anni maledetti.

Un gruppo in cui il ricordo di Francesco è vivo tutto l'anno, e non solo in questa data di commemorazione. Molti i pensieri che ogni giorno affollano quella bacheca, eccone alcuni: "36 anni mai sfiorati dall'oblio...36 anni di veglie e Presente!... 36 anni e siamo ancora qui, ancora con te... Per Francesco, con Francesco". Stasera... 36 anni fa... le iene che agiscono nell'ombra... Oggi... 36 anni dopo... nessuna giustizia, nessun colpevole... Chi dimentica è complice. Francesco vive!!"
I ragazzi quel giardino lo tengono in ordine, in memoria di Francesco. Raccolgono cartacce e rifiuti, controllano che tutto sia in regola. È un atto d'amore quotidiano, perché Francesco amava il suo quartiere, perche Francesco "era primavera, Francesco era libertà". I ragazzi periodicamente si riuniscono anche per andare sulla sua tomba a Nusco, trentasei anni dopo: le persone muoiono, l'amore no. Quei ragazzi di piazza Vescovio ci hanno messo quattro anni a raggiungere il traguardo di quel giardino e di quella stele, venne inaugurata nel giugno del 2011.

"Non solo il 16 giugno, ma ogni giorno dell'anno... Per Francesco, con Francesco" scrive qualcuno, e posta la foto di uno striscione con su scritto "Francesco vive".

Poi ci sono i ricordi per tutti, per quegli altri giovani che sono morti in quegli anni maledetti. Su quella pagina di Facebook c'è un pensiero per ciascuno di loro, nessuno viene dimenticato. È la pagina di Francesco, ma il ricordo è per tutti. E sono tanti, troppi. Sono morti per un'Idea, sono giovani vite innocenti spezzate da un odio cieco.


Piazza Vescovio e quella raggiera di vie che da essa si diramano è un simbolo di amore e di lotta, e purtroppo anche di morte e di dolore. Se si svolta l'angolo di via Montebuono e si percorrono pochi passi sulla sinistra quel cancello è sempre lì. A volte è chiuso, e allora si può pregare in strada e lasciare un pensiero o un fiore. Qualche volta è aperto, perché lì ci vivono famiglie, persone, la vita continua, e allora si può oltrepassare e si può giungere a quel muretto e guardare giù, dove venne scaraventato Francesco dopo quel pestaggio che lo avrebbe ucciso di lì a qualche giorno. Guardare giù fa gelare il cuore. Ma poi basta guardare su, verso il cielo, da dove lui ci guarda e ci sorride da trentasei anni. 

lunedì 15 giugno 2015

Addio a Rutilio Sermonti, per 94 anni fedele alla linea...



di Antonio Fiore (Barbadillo.it)


Novantaquattro anni fedele alla linea.E’ salito in cielo come una cometa luminosa, a pochi giorni dal Solstizio, Rutilio Sermonti, “militante integrale” di un mondo antico, dove la guerra interiore veniva combattuta accanto a quella autentica, nelle trincee d’Europa.

Scompare ad Ascoli il più controcorrente di una famiglia di creativi, dal genetista Giuseppe al dantista Vittorio. Rutilo fu volontario nella seconda guerra mondiale, decorato con la Croce di Ferro, e donò ai suoi giovani discepoli la storia esemplare del combattente tedesco, che spirando a sedici anni sul fronte orientale, come ultimo sussulto di vita, gridò “Niemals”, “Mai”, estremo invito a non arrendersi e non terminare mai la propria lotta.

Le cronache giudiziarie, in una inchiesta su proclami grotteschi e deliranti di estremisti da tastiera, registravano Rutilio indagato per associazione sovversiva, reato che sarebbe evaporato con il procedere del lavoro degli inquirenti. Un destino che lo vedeva accomunato al grande scrittore non allineato, il Nobel Knut Hamsun, anch’egli perseguitato alla fine dell’esistenza terrena.

La vita di Rutilio dopo la guerra


“Avvocato, paleontologo, zoologo e scrittore. E’ stato – scrive Gianluca Borgatti – presidente dei GRE (Gruppi di Ricerca Ecologica). Ha ricostruito animali preistorici, scritto libri in difesa dell’ambiente (memorabile “Il prezzo della salvezza” scritto a quattro mani con il noto presentatore televisivo Sandro di Pietro), libri di storia e perfino raccolte di fiabe per bambini. Rutilio ha avuto un’intensa e multiforme attività pubblicistica”. Sterminato l’elenco delle sue pubblicazioni, tra cui una monumentale Storia del fascismo, scritta con Pino Rauti e ora ripubblicata da Controcorrente di Napoli.

Fondatore del Msi

In una intervista, il racconto di Sermonti: “Il Movimento è stato fondato da sette giovani: Giorgio Almirante Giacinto Trevisonno, Mario Pazzi, Giovanni Tonelli, Loffredo Gaetani Lovatelli, Giuliano Bracchi e io, in seguito l’ho abbandonato perché troppo dialogante con la Democrazia Cristiana. Il Msi nasce dopo una lunga discussione, decidemmo di fare un partito che partecipasse alla competizione politica contro la Democrazia Cristiana”. Partecipò anche ai Far e al Centro Studi Ordine Nuovo, come fondatore.

Ammiratore di Mussolini

“La grandezza di Mussolini – spiegava Sermonti – era quella di saper affrontare i problemi e utilizzare ciò che aveva a disposizione. Ha usato sindacati e agricoltori e ciò che già c’era, ma ha infuso uno spirito diverso. Lo stato organico è lo stato in cui ogni forza esistente ha la sua funzione, esiste ed è rappresentata: il cervello in un corpo è utile come i piedi. Fare unità, qualcosa che unisce uomini, donne e associazioni e ne fa uno strumento per il bene della nazione”.

Il monito ai giovani

“Per parlare bisogna studiare. Ho saccheggiato tutti i rami del sapere, se non hai una visione ampia diventi una vittima. Per vivere bene devi essere capace di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Altrimenti campi come una lucertola o un lombrico. Noi non ci fidiamo del pensiero. Il libero pensiero non esiste: ci sono 50 modi per alterarlo senza che l’interessato se ne accorga neppure. Se gli interessi di parte sono subordinati a quelli superiori della nazione, anche gli interessi di parte vengono perseguiti in modo lecito e fecondo”.