lunedì 30 dicembre 2013

Il coraggio di Sergio e la dignità più forte dell’odio di Anita Ramelli...

 a cura di Leonardo Maisano (Barbadillo.it)

Milano – I terribili anni Settanta, quelli della “lotta antifascista”, quelli dei timori golpisti, quelli soprattutto di Sergio Ramelli “primo della lista”, restano fuori dalla porta. Per qualche minuto nell’aula della seconda corte d’assise, non c’è spazio per l’analisi politica, per le sottili giustificazioni ideologiche al turbolento decennio passato. Per qualche minuto in un aula oramai satura di frettolose riletture del “tempo che fu”, entra una madre. Anita Ramelli Pozzoli. Non c’è odio non una parola per indicare gli imputati, gli ultra di Avanguardia operaia che sprangarono a morte il figlio nel marzo ’75, neppure un “quelli lì”. Non esistono, nella breve deposizione della mamma di Sergio Ramelli. Stretta in un tailleur a quadretti beige e marrone, con una camicia rossa, con grandi occhiali scuri a coprire gli occhi gonfi e la voce soltanto incrinata dall’emozione, attacca così: “Con i suoi compagni di classe aveva rapporti ottimi. Sergio non era un ragazzo violento, aveva maturato una sua idea e per questo era stato preso di mira: insulti, calci, spintoni.. Ma lui per primo minimizzava le cose. L’ultimo anno all’istituto tecnico Molinari fu il più pesante. Gli fecero cancellare delle scritte apparse sui muri della scuola. Ma tutti pensavano che fosse finita lì. Invece continuarono con i picchetti a scuola fino a quando decise di lasciare l’istituto. Quando andò a ritirare il nulla-osta per iscriversi in un istituto privato fu picchiato”.

L’incubo per la famiglia Ramelli era soltanto cominciato, l’aria era avvelenata e l’escalation di intimidazioni cresceva spaventosamente. “Quindici-venti giorni prima – riprende Anita Ramelli (dell’aggregazione n.d.r.) apparirono scritte sui muri: “Ramelli fascista sei il primo della lista”. In casa arrivavano telefonate a tutte le ore e ci facevano sentire Bandiera rossa”.
Quelle telefonate erano un incubo che martellava casa Ramelli, insidiose, continue. Si trasformarono poi in un disgustoso inno alla morte quando qualcuno (gli imputati hanno tutti concordemente negato di averlo mai fatto) chiamò la sera dei funerali di Sergio. “Fu una telefonata di insulti – ricorda Anita Ramelli – e quella sera proseguirono a chiamare fino alle 22″.

Dovette cambiare numero telefonico, ma le minacce continuarono con telefonate ai vicini. Attaccarono manifesti sotto casa, e intimidirono il fratello di Sergio, tentarono addirittura di aggredirlo. Un odio cieco che ha annientato una famiglia. “Luigi (il fratello di Sergio n.d.r.) lo facemmo andare via da casa dopo quanto era accaduto a Sergio”, ricorda Anita Ramelli.
Poi fa un passo indietro, accenna all’agonia del figlio. Un mese e mezzo di flebile speranza che si ravvivò quando per 48 ore Sergio sembrò riprendersi, stare meglio. “Mi guardava presidente, faceva un verso un ah, ha. Non riusciva a parlare, non poteva; però sono sicura, capiva. Gli chiesi se soffrissi per i dolori della testa e lui con il capo mi fece segno di no “.

“Ma in tutto questo tempo – domanda il presidente – lei signora non ha mai avuto un segnale, un gesto da parte degli imputati di qualcuno”. “No, solo verso l’estate mi hanno fatto avere una lettera con qualche firma “. “Signora, io non le faccio domande sul risarcimento del danno (gli imputati lo ricordiamo hanno offerto 200 milioni mai accettati n.d.r.) “. “La ringrazio, presidente, io aspetto giustizia, perché quando ho ricevuto quella raccomandata che mi annunciava l’intenzione di pagare, ho sofferto. Forse è una prassi normale, ma non l’ho trovata poi così giusta”.

La sequenza di lutti dopo la morte di Sergio continuò in casa Ramelli: qualche anno dopo morirono il padre del ragazzo e lo zio.

Anita Ramelli si alza e si incammina verso la porta: è attesa da un’amica e da una ragazza che le assomiglia. E’ la figlia Simona, di 20 anni, ne aveva 8 quando Sergio crollò sotto le sprangate. L’udienza continua, sfilano un’altra decina di altri testi, anche i ragazzi sprangati in largo Porto di Classe, ma le luci sono spente oramai, mentre Anita Ramelli se ne va in attesa di giustizia, dodici anni dopo.

* da Il Giornale del 23.4.1987

sabato 28 dicembre 2013

La rotta di Ezra Pound nell’oceano della letteratura contemporanea...

                                            Pound-Ezra 
di Renato de Robertis (Barbadillo.it)

Se Ezra Pound volesse inviare un messaggio agli scrittori del XXI secolo, cosa scriverebbe sui fogli da lasciar cascare dalle nuvole più alte? Qua l’azzardo è tanto. Forse scriverebbe un messaggio indirizzato ‘Ai letterati dell’Occidente perduto’. E prima egli chiarirebbe che gli scrittori contemporanei sembrano in solitudine sulla terra, in mano agli uomini che vendono arte nei supermercati.


Il messaggio sarebbe accompagnato dal verso poundiano ‘Nell’alba io sono solo…’ Ma, nella solitudine, si ripensa alla poesia. Allora, Ezra, da lassù, chiederebbe di sapere dei romanzieri e dei poeti di questo Occidente perduto.


Nel suo messaggio immaginario, probabilmente, si potrebbe leggere la frase, “Non vedo in giro un libro sul destino dell’arte”. Quel destino ben contemplato nei ‘Saggi letterari’ di Pound, saggi che, da anni, non vengono aggiornati criticamente.


E in questi testi è possibile scoprire una rotta per navigare nell’oceano della letteratura. Per prova, nel ‘Vorticismo’(1933) Pound scrive che “l’autore deve usare la sua immagine perché la vede o la sente, non perché egli pensa di poterla usare per sostenere qualche opinione o qualche sistema…”


Ah, quanti romanzi scritti oggi per essere usati e senza essere sentiti! Oppure: quante pagine scritte per inseguir le vendite! E quanti romanzi, scritti in pochi mesi, già falsi eventi editoriali!
Ed ecco l’attualità magnifica delle seguenti parole, “Artisti, il desiderio di star sulla scena, il desiderio degli applausi non hanno nulla a che fare con l’arte seria” in ‘L’artista serio’ (1913). Ecco che, per questa citazione, il pensiero va agli ‘scrittori che si mostrano’ (Cfr. Giulio Ferroni). Agli scrittori che non sono modelli educativi ma solo ‘modelli scenici’.


Ezra, agli scrittori perduti, rammenterebbe che le grandi opere sono nate nei decenni; e i grandi romanzi sono stati scritti perché, storicamente, valeva la loro creazione artistica,“La bellezza dell’arte ricorda all’uomo ciò che vale la pena di fare” (‘L’artista serio’).
Se qualche pagina svolazzante raggiungesse la volta celeste, Ezra sobbalzerebbe per le idee di qualche scrittore contemporaneo. A quel romanziere direbbe che “falsifica sulla natura del suo ideale…” e questo è un peccato ieri come oggi.


Insomma, artisti non mentite più! Uscite dai vostri meccanismi narrativi da fiction!E gridate i vostri ideali! Dimenticate, dunque, l’estetismo degli scrittori che hanno per ‘grande meta’ il filar e sfilar la Seta


Artisti, il vostro romanzo non sia un guscio vuoto! Ciò invocherebbe il poeta dei Cantos, lo scrittore che cerca la tradizione, la forza dei modelli culturali e il contatto con la nazione occidentale.
E oggi sono pochi i libri che raccontano la nazione. ‘Bisogna credere nella nazione’ ci sussurrerebbe Pietrangelo Buttafuoco. Bisogna suggerire agli scrittori di pensare anche alla ‘SALUTE INTELLETTUALE DELLA NAZIONE’, come ammonisce Pound nel saggio ‘Missione dell’insegnante’ (1934) e con… caratteri maiuscoli.


L’arte cattiva è arte inaccurata” e una letteratura priva di tensioni ideali sarebbe arte inaccurata per il ‘poeta pisano’. Perciò, la letteratura dei misteri giudiziari che sta trattando i lettori come ‘spettatori’ affogati nelle retoriche dei crimini, per caso, è arte inaccurata?


Tornare alla selezione onesta delle storie. O tornare al critico onesto che “deve cominciare col dichiarare che tale e tal altra opera specifica gli sembra <buona>, <ottima>,<mediocre>, <valida>, <non valida>”, così tornare agli auspici del saggio ‘Come bisogna leggere’ (1928).
In più. Potrebbe essere vera soddisfazione raccomandare, alloscrittore che vende duecentomila copie di un suo libro, di non sprecare l’aggettivazione o di ricordarsi della frase poundiana, ‘Non si adoperi alcuna parola superflua, alcun aggettivo che non riveli qualcosa’ in ‘L’arte della poesia’ (1913).
Qui Pound esprime una sensibilità – si dica pure – con qualche ‘gradazione’ alla Benedetto Croce; tuttavia, i suoi saggi sono un gran ripudio del mondo letterario pressappochista. Un mondo compromesso e mai cambiato. Un mondo in cui prima di dichiararsi scrittore si dovrebbe aver letto tutto Flaubert, tutto Stendhal, e tutto Joyce. Nell’orgia comunicativa contemporanea la lezioni poundiana quindi spinge al recupero critico dell’essenzialità o della precisione del linguaggio.
Si adorni bene, o non si adorni del tutto” in ‘Poetry’ (1913). E questa resta una verità per chi genera scrittura. Per chi, principalmente, è alla ricerca di ‘esperienze di stile’. La differenza, tra due romanzi, non sta nella suspence della storia raccontata ma nella ricerca di un linguaggio e di uno stile letterario. 


In una realtà affogata dai linguaggi di massa, il pensiero poundiano incita alla ricomparsa dellarte di immettere significazione nelle parolein ‘L’arte delle poesia’(1913). Cioè l’arte di scrivere non per ‘moda creativa’, ma per comporre nuovi linguaggi e nuovi romanzi.

venerdì 27 dicembre 2013

Il me ne frego di Abe a Usa e Cina per la visita ai caduti di guerra...

di Giuseppe Maneggio (Il Primato Nazionale)

“Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima in una condizione di vuoto. Siamo stati costretti, stringendo i denti, ad assistere allo spettacolo della politica totalmente perduta in vischiose contraddizioni, nella difesa di interessi personali, nell’ambizione, nella sete di potere, nell’ipocrisia; abbiamo visto i grandi compiti dello stato delegati a un paese straniero, abbiamo visto l’ingiuria della disfatta subita nell’ultima guerra non vendicata, ma semplicemente insabbiata, abbiamo visto la storia e la tradizione del Giappone profanate dal suo stesso popolo. Abbiamo sognato che il vero Giappone, i veri giapponesi, il vero spirito dei samurai dimorassero almeno nell’Esercito di difesa nazionale”. Così lo scrittore Yukio Mishima – pochi attimi prima di commettere il suicidio rituale giapponese (seppuku) - si era rivolto ai militari della base Ichigaya, il quartier generale di Tokyo del Comando Orientale delle Forze Giapponesi di Auto-Difesa, mentre i suoi seguaci del Tatenokai o ‘Società dello Scudo’, tenevano in ostaggio il Comandante del campo. Mishima incoraggiò i soldati a lanciare un colpo di stato militare ed a restaurare i poteri tradizionali dell’Imperatore, ma non fu ascoltato.


Oggi il Giappone del 2013, quello a guida Shinzo Abe – il primo ministro nazional-conservatore in carica dal 26 gennaio dello scorso anno – ricomincia a far tremare chi pensava che dopo una guerra persa e due bombe atomiche pensava di aver eviscerato per sempre lo spirito nazionale e tipicamente indomito dal corpo sociale dei giapponesi. Abe è il più giovane primo ministro nipponico della storia e il primo ad essere nato dopo la Seconda guerra mondiale. Un dato che dovrebbe far riflettere su come certi processi di denazionalizzazione ed esautoramento della sovranità da parte degli Stati Uniti e del successivo mondialismo siano miseramente falliti sotto la luce del paese del Sol Levante.
A riprova di ciò l’ennesima sfida e dimostrazione di menefreghismo verso la comunità internazionale mostrata da Shinzo Abe che ha visitato quest’oggi, forse proprio per festeggiare il primo anno dal suo incarico, il Yasukuni Shrine, il santuario della pace nazionale dedicato alle anime di soldati e altre persone che morirono combattendo al servizio dell’Imperatore. Cina, Corea del Sud e Stati Uniti, che già si erano espressi contrariati per questa visita annunciata,  hanno espresso la loro ferma opposizione.


Il santuario scintoista situato nel cuore della capitale Tokyo onora le anime di 2,5 milioni di soldati morti per il Giappone. La sua cattiva reputazione deriva dal fatto che furono registrati nel 1978 anche i nomi di 14 “criminali” di guerra condannati nell’elenco dei caduti celebrati. E tra questi figura anche il nome del generale Hideki Tojo, primo ministro giapponese durante l’attacco a Pearl Harbor il 7 dicembre 1941.


La visita di Abe è “assolutamente inaccettabile per il popolo cinese” e il Giappone dovrà “sopportarne le conseguenze”, ha detto il Direttore generale degli Affari asiatici del ministero cinese degli Esteri, Luo Zhaohui. Anche un portavoce del governo sud coreano ha espresso “rammarico e rabbia” per la decisione del premier giapponese che viene definita “anacronistica”. E anche gli Usa si distanziano: “Il Giappone è un alleato e un amico, tuttavia gli Stati Uniti sono delusi dal fatto che il governo giapponese abbia preso questa iniziativa, che esacerba le tensioni con i paesi limitrofi al Giappone”, ha fatto sapere l’ambasciata americana a Tokyo.
“E che ne è della restituzione di Okinawa? E della responsabilità di difendere il suolo della patria? È palese che l’America non desidera che il Giappone sia protetto da un autentico e autonomo esercito giapponese. Se entro due anni l’Esercito di difesa non riconquisterà la sua autonomia, rimarrà per sempre una congrega di mercenari al soldo dell’America”. Così concludeva nel suo proclama Yukio Mishima prima di togliersi la vita. Sono passati 43 anni, ma il suo fantasma aleggia ancora nel paese del Sol Levante.

lunedì 23 dicembre 2013

Wounded Knee e la fine degli indiani d’America...

di Francesco Filipazzi (Barbadillo.it)

Il 29 dicembre 1890 si chiudeva la storia degli Indiani d’America, con il massacro di Wounded Knee. Una civiltà sterminata dai colonizzatori provenienti dall’Europa nel corso di lunghi massacri e prevaricazioni. Pochi conoscono nel dettaglio le vicende che portarono alla cancellazione dei “pellerossa” e nomi come Sand Creek e Wounded Knee non richiamano nulla alla mente. Questo ragionamento venne fatto probabilmente da Dee Brown, bibliotecario e poi professore all’università dell’Illinois, che nel 1970 pubblicò il successo editoriale “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” (Bury my Heart at Wounded Knee) in cui ripercorre la storia coloniale del nord America fra il 1860 e il 1890, un’epoca di “violenza, rapacità, audacia, sentimentalismo, sfrenata esuberanza, caratterizzata da un atteggiamento quasi reverenziale verso l’ideale di libertà personale di coloro che già la possedevano”, recita l’introduzione, in cui l’autore spiega di aver raccolto le testimonianze e le documentazioni degli indiani, per parlare della conquista del West dal punto di vista di chi l’ha subita.


Fra le pagine incontriamo quindi le tribù native, come i Sioux e i Navaho, assieme ai nomi di capi leggendari come Alce Nero e Nuvola Rossa. La storia di un popolo che ha combattuto strenuamente per la propria terra, la loro terra, che l’uomo bianco si è preso con la forza senza averne diritto, sterminando i bisonti per togliere il primario sostentamento a chi vi abitava, uccidendo uomini donne e bambini. Nelle frasi dei capi indiani troviamo la saggezza e la fierezza di una civiltà che abitava il continente americano da migliaia di anni e che è stata chiusa nelle riserve, subendo un’ingiustizia senza precedenti.


Un lunghissimo resoconto, fatto di date, descrizioni storiche e frasi pronunciate dagli stessi indiani, di cui si riescono coglier alcuni tratti distintivi. Essi non erano un popolo unico, come ad esempio gli Aztechi, ma un insieme di tribù, con alcuni tratti comuni, inseriti in un contesto che li rendeva un’unica nazione, anche se forse prima dell’arrivo delle navi e della polvere da sparo non ne erano consapevoli. Quello dei nativi americani era un mondo tradizionale e dimostrazione ne è l’ultima frase del libro, in cui Alce Nero per simboleggiare la fine della Nazione parla di un cerchio senza più centro, utilizzando una figura comune alla Tradizione indoeuropea*.
Un mondo ricco che purtroppo non esiste più e di cui abbiamo poche vestigia, uomini forti e saggi caduti ma invitti. Uomini già morti, Wovoca ha visto che saran risorti.


*Per approfondimento sulla simbologia del centro e i centri spirituali, cfr René Guénon, Il Re Del Mondo.

venerdì 20 dicembre 2013

Dell'anima e il corpo...

di M. M. Merlino (ereticamente.net)
 

Nella contrapposizione tra l’anima e il corpo è quest’ultimo ad avere la peggio. Su questo, tanto il mito quanto la filosofia e, va da sé, le religioni sono stati lungamente d’accordo. Da una parte vi è tutto un coro di elogi alla sua immortalità e dall’altra la constatazione del suo essere finito; da una parte l’armonia delle forme di contro l’imperfezione della materia; da un lato la si eleva a luogo privilegiato della retta conoscenza e al suo opposto l’erroneità inevitabile dei sensi prigionieri dell’hic et nunc. DallaGaia Scienza, Nietzsche: “A- ti allontani sempre più dai viventi, presto ti depenneranno dalle loro liste. B- è l’unico mezzo per partecipare al privilegio dei morti. A- a quale privilegio?. B- quello di non più morire”. E il gioco si potrebbe arricchire di nuove mosse e tasselli.
(Non appaia arbitrario come, nella Scuola di Atene, ai Musei Vaticani, Raffaello metta al centro Platone e lo tratteggi con il dito – l’indice e non il medio! – rivolto verso il cielo. Difatti ne è riprova il dialogo Fedone ove si discetta intorno all’immortalità dell’anima con varie dimostrazioni, tutte le più suggestive e acute, nella cella ove Socrate è in attesa di bere la cicuta. 
E il Maestro, che vede la morte un atto liberatorio, rimprovera i discepoli che si disperano e si danno al pianto, fino a pregare Critone, quale ultima sua volontà ed estreme sue parole, di portare a suo nome un dono, quel gallo divenuto celeberrimo, al dio della guarigione… Forse, sospettano i filologi e i critici, atto mai avvenuto perché – e si rileggano gli ultimi passi dell’Apologia di Socrate, scritta da un Platone giovane e desideroso di riportare fedelmente le parole pronunciate di fronte ai giudici – egli lascia aperta la domanda se sia meglio per i suoi carnefici restare in vita o per lui andare serenamente incontro al proprio destino… Ma si sa che lo scorrere degli anni rende sempre più il Socrate storico un pretesto, un artifizio, una pallida ombra, un dispetto e postuma vendetta. Quel plebeo e demagogo e trattato quale volgare sofista da Aristofane e tanto odiato dal Nietzsche de La nascita della tragedia si trasforma in un aristocratico che distingue gli uomini tramite la funzione che devono esercitare nella pòlis).
Plotino racconta come fosse desiderio dell’anima – ‘un potere senza pace’ la definisce – di avere la visione del mondo ideale non più sotto forma di compiuta totalità ma di poterne cogliere l’essenza tramite ‘frammenti e successioni’, cioè ‘materializzare’ il tempo e portarlo con sé nei fenomeni del mondo. Non è ancora la dissoluzione del sapere l’assoluto a dominio delle idee – permane, certo, il patimento di essa in terra e il bisogno di ricercare la via verso la Patria che sta in cielo. Eppure, se essa abbisogna della temporalità, concedendosi all’imperfezione, non si rende essa stessa espressione di quell’imperfezione? Il conoscere si realizza per connessioni relazione e somiglianza, cioè com-unione (vicinanza)…
Il percorso verso questa consapevolezza e delle sue (tragiche) conseguenze sarà lungo contorto doloroso contraddittorio ma, osiamo dire alla luce di queste brevi e incompiute annotazioni, inevitabile necessario e, chissà?, di feconda liberazione… Insomma la storia dell’anima nel suo essere nel corpo dissolve l’idea teologica e finalista degli accadimenti, ma attraverso la rete di connessioni – causali o casuali? – rettifica il senso di se stessa nel suo essere senza scopo. La filosofia dell’assurdo, utilizzando il titolo acuto del libro, edito nel 1937, di Giuseppe Renzi (il cui recupero avviene negli anni ’70 soprattutto ad opera dell’Adelphi) quale sfida provocazione e, se vogliamo ardire spingersi oltre e ancora, un destino, anzi il Destino… È l’anima, dunque, che volutamente accetta d’essere ‘miserrima’, il mettersi in gioco, o è il corpo che trova la consapevolezza di spezzare le catene, il suo essere egli il diseredato e chiedere pari dignità? Il campo del conflitto del ritrovarsi del superamento, né vincitori né vinti, non può essere che la storia ove il tempo si misura e misura.
E di nuovo attingiamo alla parola del padre di Zarathustra: “Anima mia, io ti restituii la libertà su tutte le cose create e increate; e chi conosce, come tu la conosci la voluttà di ciò che verrà? … E, in verità, il tuo respiro ha già il profumo di canti futuri”. Sono costoro canti di gioia canti d’amore o canti di guerra? Nietzsche non ce lo dice… Sta a noi, ripercorrendo il legame dell’anima e del corpo, della nostra anima e del nostro corpo, dare risposta.

giovedì 19 dicembre 2013

In ricordo di Sergio Neri, il combattente in scooter: dalla Decima Mas al Msi ...


di Massimiliano Mazzanti (Secolo d'Italia)
 
 
A tanti anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Sergio Nesi era ancora, per il tutti, il Comandante. Non solo nella sua Bologna, che ancora girava in ”scooter”, quasi fosse un ragazzino, fino a qualche mese fa, ma in tutti gli ambienti in cui si conservava memoria del suo passato di indomito combattente agli ordini del principe Junio Valerio Borghese. Uomo d’azione, dunque, ma anche di penna, raffinata e accorta, tanto che il suo Decima Flottiglia nostra… non è solo un libro di ricordi del tempo bellico, ma il testo ufficiale adottato dall’Ufficio storico della Marina per ciò che riguarda i mezzi d’assalto operanti nel triennio ’43-’45. Petroniano “doc”, era nato a Corticella, quando ancora l’attuale quartiere a nord del capoluogo emiliano faceva comune a parte, il 25 maggio 1918. A 19 anni, entra all’Accademia navale, nel leggendario corso “Alcione”, e diventa “aspirante guardiamarina” proprio alla vigilia del grande conflitto. Dopo varie esperienze di comando nel Nord Adriatico, si trova a Portorose, quando l’Italia viene macchiata dall’onta dell’8 settembre. 
 
 
Senza esitazioni, si schiera con la Repubblica sociale italiana e rientra in servizio nella X Mas. È in questo frangente, quando assume il Comando della Base operativa Sud di Fiumicino, che porta a segno una delle sue imprese più significative, affondando una corvetta nemica a bordo di uno Sma. Impresa che valse a Nesi la medaglia d’argento al Valor militare. Catturato al largo di Ancona, dove tentava, nel novembre ’44, un’ulteriore azione di assalto navale contro le soverchianti forze nemiche, fu internato in Algeria e poi a Taranto. Mai domo, Nesi non attese amnistie o liberazioni, fuggendo dal campo e rientrando, dopo varie traversie, nella sua amata Bologna. Il dopoguerra lo vide brillante ingegnere del Genio Civile, dove svolse una luminosa carriera terminata col ruolo di direttore generale. 
 
 
Alla professione ministeriale, accompagnò anche la passione di memorialista militare, con una decina di volumi sulla storia della X Mas e del principe Borghese tutt’ora apprezzatissimi non solo dai cultori della materia, ma dagli accademici. Iscritto al Movimento sociale Italiano – Destra nazionale, pur non avendo mai aspirato a una carriera politica, non mascherò mai i suoi sentimenti, illustrando con la sua adesione e la sua presenza costante alle manifestazioni del partito la federazione di Bologna.

martedì 17 dicembre 2013

FORCONI: CASAGGì SIGILLA SEDE CGIL. "GLI ITALIANI NON SI ARRENDONO, LA CGIL Sì"...

FIRENZE: CASAGGì E FRATELLI D'ITALIA SIGILLANO SEDE CGIL. SOLIDALI CON I FORCONI IN PROTESTA, NON CON CHI DISERTA. 
 
Firenze - La scorsa notte i militanti del centro sociale di destra "Casaggì Firenze" e di Fratelli d'Italia hanno simbolicamente "sigillato" la sede della CGIL in via Pier Capponi 7, esponendo uno striscione con la scritta: "Gli italiani non si arrendono, la CGIL sì". L'azione dimostrativa della giovane destra è fatta in riferimento alle prese di distanza della CGIL dalle proteste dei Forconi, andate in scena in tutta Italia senza simboli di partito e di parte, ma solo sotto i vessilli tricolori. Il gesto, già portato a termine nella notte di sabato a Roma dal coordinamento Rotta di Collisione, vuole sottolineare l'incoerenza di un sindacato che tutela i lavoratori, ma solo a patto di poterne politicizzare e dirigere il malcontento. 
"Le migliaia di persone che in queste ore stanno montando i presidi di protesta in tutte le città italiane - spiegano il consigliere comunale di FdI Francesco Torselli e i dirigenti di Casaggì - sono lavoratori come gli altri, strozzati dalle tasse e dal precariato, vessati da un governo che nessuno ha eletto, privati di ogni futuro da una classe politica al servizio dei poteri forti". 
"Il sindacato che per decenni ha rappresentato il simbolo della lotta operaia - proseguono gli esponenti della destra fiorentina - sta bollando i moti spontanei di questi giorni come "proteste di destra", mostrando una pregiudiziale vuota e un'incapacità di analisi politica disarmante. Per questo, "simbolicamente", ne abbiamo sigillato la sede".

lunedì 16 dicembre 2013

Ecco Marino: ai No-Tav permise di accamparsi ovunque, ai forconi vieta pure le tende...


di Domenico Buni (Secolo d'Italia)

C’è chi può e chi non può. Ai No-Tav i Marino-boys hanno concesso tutto, spazi e accampamenti. Ai forconi no, non sono graditi. È la politica del Pd. Dopo aver taciuto sulle manifestazioni di No-Tav e centri sociali che nei mesi scorsi hanno devastato Roma – perché erano manifestazioni della sinistra, quindi “giuste” – adesso il comune di Roma si oppone alla pacifica manifestazione dei forconi, ossia della popolazione di tutta Italia che protesta da una settimana. La verità è che poiché quella dei forconi non è una protesta cavalcata e gestita dalla sinistra o dalla Cgil, allora deve essere “cattiva”. «No a tendopoli ad oltranza in piazza del Popolo». Lo fa sapere il Campidoglio tramite il vicesindaco di Roma Luigi Nieri, di Sel. «Mercoledì prossimo – si legge nella nota di Nieri – si svolgerà a Roma una manifestazione con un presidio fisso dei Forconi in piazza del Popolo. Il Campidoglio, in attesa delle decisioni della Questura, è contrario a qualsiasi “occupazione” ad oltranza della piazza, così come è stato annunciato. Pur nel rispetto della libertà di espressione di ciascuno, non vogliamo che Piazza del Popolo – conclude – si trasformi in una tendopoli». Ma perché, l’accampamento che fecero i suoi amici a Porta Pia, che cos’era, se non una tendopoli?

Intanto, nonostante Sel, i forconi mercoledì arriveranno a Roma: «Vogliamo le dimissioni del governo e ribadiremo la nostra richiesta anche nel presidio previsto per mercoledì prossimo, in piazza del Popolo», ha affermato Mariano Ferro, uno dei leader dei Forconi. «La nostra rivolta è stata fatta con le mani in tasca – ha aggiunto – e intendiamo proseguire con questa modalità non violenta. Tuttavia, saremo determinati a raggiungere i nostri obiettivi. Sono migliaia le persone che passeranno un Natale terribile, senza sapere come far fronte ai loro impegni economici – ha concluso – Noi siamo idealmente accanto ad ognuno di loro e combattiamo per loro, anche se tanti non hanno nemmeno il coraggio di far sapere in quali condizioni precarie sono finiti».

venerdì 13 dicembre 2013

Ancora su “L’inutile necessità del filosofare...” (La nostra patria è il cielo)

 


di Mario M. Merlino


Con la straordinaria capacità di dare vita a vivide immagini, tanto che lo si potrebbe annoverare quale narratore e non soltanto fra i massimi maestri della filosofia, Platone nel Timeo sembra avere a mente quanto verificatosi nel mito di Urano e Gea, ove cielo e terra si sono violentemente dissociati, ricordandoci come ‘noi non siamo come le piante, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell’anima e dove dio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto’.

(Fra i Germani l’albero sacro, il bianco frassino, ha le radici rovesciate in quanto dal cielo prende la sua forza e tale immagine permane nella mistica cristiana, ad esempio in Vittorino da Feltre. In alcune tribù dell’America latina si parla espressamente di una liana che, spezzatasi, impedisce di salire oltre la cima degli alberi…). Qui, nella citazione proposta, è la capacità del pensare razionale, l’unico, che consente di riavviare una sorta di percorso a ritroso, la reminiscenza, perché ‘l’anima’ intraveda il mondo delle Idee – tramite il mito della caverna (ed ancora il termine ‘mito’ la fa da padrone!) o quello dell’auriga (e debole, ci pare, ogni tentativo di porre distinguo tra i miti messi in atto da Platone e quelli intorno agli dei agli eroi alla cosmologia. E Georges Dumézil, che di tutto ciò se n’intendeva, annota come Platone, attraverso l’impero persiano degli Achemenidi, era in contatto e a conoscenza della mitologia Arya ) –.
Se, dunque, cielo e terra si sono separati, separato è anche l’uomo, scisso tra anima (nel senso greco e cioè il luogo privilegiato della conoscenza o, dove la retta conoscenza può manifestarsi) e il corpo (il luogo del divenire, del finito, dell’imperfezione e di tutto ciò che cade nelle leggi del caduco e dell’effimero). Sempre Platone avverte il corpo la prigione dell’anima che, fintanto è costretta a coabitare in questa prigione, non potrà mai accedere a forme compiute di sapere. Ecco perché, pur stimando lo stile spartano, ne rimprovera la rozzezza dei costumi, la sostanziale mancanza di una cultura vivificante (ad esso egli contrappone l’ideale aristocratico della kalos-kai-agathia, la virtù del bello e del buono che, a Roma, si tradurrà in mens sana in corpore sano).
Ecco perché s’è detto, in precedente intervento, come il termine ‘filosofia’ si trovi nell’ambiguità dell’indicare ciò che porta in sé l’indicibile quale definizione del concreto. Infatti amare non implica il possesso dell’oggetto amato, quel prendersi cura di qualcosa che, se il mondo è il regno della inconsistenza, è soggetto a deperire a rovinare… Fuori e dentro di noi. I filosofi fisiocratici, tradotti dai latini con termine deformante ‘naturalisti’, avvertivano il mistero che si celava appunto dietro l’apparire (ecco perché si fecero propositivi dell’arkè o principio/i dei fenomeni naturali) e quanto fosse complesso mettersi in cammino negli spazi interiori (un frammento di Eraclito si fa esplicito: ‘per quanto tu cammini e percorra ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima, tanto è profondo il suo lògos’ e ciò ben prima che intervenissero i sensi di colpa le introspezioni i fremiti di una cultura monoteista).
E potrei aggiungere, attraversando le colonne d’Ercole e aprendomi al vasto mare – d’altronde lo spirito come il vento soffia dove vuole –, che il popolo Maya usava spostarsi ed edificare le città in rapporto al proprio calendario in quanto ‘non per sempre sulla terra, solo un poco qui’, tutto essendo corruttibile e ad altro luogo rimandando la propria origine… Di come la pensasse il Buddha, che proveniva da un regno di guerrieri ed egli stesso era principe Arya, l’ho scritto più volte rinnovando quanto trovasi in uno dei testi più antichi e, cioè, dello scontro tra l’eterno l’incorruttibile il sempre a sé immoto Brahma e il divenire nella consapevolezza di dover scomparire del Risvegliato.
Ne La nascita della filosofia Giorgio Colli (che fu curatore con Mazzino Montanari dell’Opera Omnia di Nietzsche) avverte come il filosofare è un altro modo di organizzare il pensiero dopo che, nella Grecia antica, erano venute meno altre forme di sapere – ad esempio, la mania o l’oracolo. Una forma di crescita della razionalità, così tendono ad insegnare gli sciocchi e gli arroganti e i presuntuosi esponenti della cattedra e del registro (io fra costoro fui colpevole a volte, ahimè, lo confesso!) o una regressione della sapienza? L’aristocratica filosofia in fondo diviene il brulicare di uomini e di parole nella piazza del mercato (l’agorà), un modo plebeo di innalzarsi contro la roccaforte (l’acropoli) ove i detentori della spada e dello scettro si ritenevano diretti eredi degli dei – e forse lo erano (edificante è la scena dell’Iliade ove Ulisse dileggia il buffo e deforme Tersite e lo colpisce sulla gobba proprio con il bastone del comando… in quanto da semplice miles pretende una più equa distribuzione del bottino, egli che è un comune mortale e non porta nel sangue l’eredità di una razza divina di signori!). Quando il governo di Prussia volle, sotto Federico il Grande nel ‘700, fare un censimento per conoscere il grado di istruzione dei suoi sudditi (prima e primo ad introdurre l’istruzione obbligatoria), ad un messo che s’era permesso interrogarlo se sapesse leggere e scrivere, uno Jùnker rispose, orgoglioso, ‘per grazia di Dio sono analfabeta…’.
Il mito degli dei la filosofia degli uomini…fratelli, nemici…
Scritto nelle prime ore del mattino, 12 dicembre, a quarantaquattro anni dalla strage di piazza Fontana… ‘Torni a cena?’ ‘Sì, mamma, tienimi in caldo la minestra’…

giovedì 12 dicembre 2013

“Sangue, cuore e fiamma” di Cristina Gimignani si aggiudica il Premio Firenze...


da Il Secolo d'Italia

Il romanzo storico Sangue, cuore e fiamma di Cristina Gimignani (edito da Eclettica) si è aggiudicato il Fiorino d’argento in ex aequo con un’altra opera. Questa la motivazione del riconoscimento: «Con uno stile partecipe e intenso, in cui la rabbia delle occasioni perdute si alterna ad una tenerezza frammista a ironia e autoironia, l’autrice rivive e fa rivivere quarant’anni di storia italiana filtrati attraverso il dramma di un ambiente umano e il mistero della scomparsa di una grande figura di uomo e di padre. La sofferta intensità della memoria rielaborata rende talvolta magmatica la narrazione, confermando però il valore non solo documentario di questa dolente autobiografia di una donna e di un mondo».
Felice del riconoscimento, la vincitrice così esprime la sua soddisfazione: «Ottenere un premio così importante, soprattutto grazie a un argomento tanto spinoso come la storia del Movimento sociale italiano, è motivo di grande soddisfazione. Mio padre, protagonista involontario dell’opera, ne sarebbe stato orgoglioso. Ma non ho scritto questo libro per una commemorazione postuma. Penso invece che la storia dei partiti, di tutti i partiti, in Italia debba essere posta in un altro modo, soprattutto ricorrendo all’affabulazione del romanzo storico. 
Viene da sé che i personaggi del libro sono inventati, non hanno nessun collegamento con la realtà, ma la storia politica, quella resta; e spero che riesca a coinvolgere il lettore, portandolo ad amare la politica quanto la amo io». Sangue, cuore e fiamma – riferisce sempre la scrittrice – è il primo romanzo di una trilogia ad argomento storico-politico. Il prossimo libro sarà dedicato alla caduta di Bettino Craxi e all’ultima fase di An. Mentre il terzo avrà per tema la vita nella Dc e nel Pci degli anni Cinquanta.

martedì 10 dicembre 2013

Non suicidarti, ribellati.


di Antonio Rapisarda (barbadillo.it)
 
I Forconi hanno invaso le piazze d’Italia. Torino, Genova, Treviso, Palermo, Catania, Napoli, Ferrara, Benevento, Roma, Milano, Bari, Arezzo ma anche piccoli centri e snodi autostradali: da Sud (dov’è nata nel 2012) al Nord la protesta generalizzata contro il governo, le tasse e il carovita è letteralmente esplosa. Tricolori, cartelli in mano e megafono: così l’Italia profonda è scesa in piazza in un inedito schema che è “uscito dagli schemi” a cui siamo stati abituati negli ultimi anni.
Pochi i (temuti e vietati) blocchi stradali, molti rallentamenti nelle città e, da parte dei manifestanti, idee chiare su quali siano le istituzioni su cui riversare la protesta: le sedi di Equitalia su tutte. Nonostante l’allarmismo, però, le manifestazioni si sono svolte in maniera pacifica. Solo a Torino si sono registrati scontri tra polizia e manifestanti davanti il palazzo della Regione mentre a Genova sono stati occupati i binari della stazione. In generale, però, la situazione è rimasta sotto controllo proprio come gli organizzatori avevano promesso. Una protesta – questa del nove dicembre – annunciata più sui siti indipendenti e i sui social che sui grandi media che hanno minimizzato in questi giorni la portata di un evento che si è alimentato con il passaparola. Il risultato è stato sorprendente in termini di partecipazione e interessante in ragione dell’eterogeneità delle categorie e delle peculiarità sociali scese in piazza.
“Forconi” oggi sono stati praticamente tutti: dai piccoli imprenditori ai disoccupati, dai commercianti agli studenti, dagli allevatori agli autotrasportatori. Il collante che ha tenuto insieme questa protesta interclassista è – come si legge in tanti striscioni – la richiesta di una minore oppressione fiscale, di una difesa del made in Italy a tutti i livelli, ma soprattutto la volontà di recuperare la sovranità politica ed economica dell’Italia. La scelta del tricolore come unico simbolo ammesso nei cortei sta a dimostrare proprio la rabbia popolare contro il «far west della globalizzazione» e «contro l’Europa costruita a Bruxelles».
Insomma, al grido di «riprendiamoci l’Italia» e «non suicidarti, ribellati» quello che è andato in scena oggi si può chiamare un movimento impersonale e sinceramente nazionalpopolare. Un movimento non sindacalizzato, non politicizzato e senza “sponsor” cercati nelle proteste liberal. Forse per questo rispetto ai comitati spontanei da parte di una certa stampa e dei politici affezionati alle larghe intese è stato alimentato in questi giorni l’allarme legato a infiltrazioni politiche: perché disabituati ad accettare che possa emergere un malcontento trasversale e slegato alle normali camere di compensazione sociale come i sindacati.
Da questo punto di vista esemplificativo lo sfogo di Mariano Ferro, leader dei Forconi siciliani: «Siamo in uno stato di polizia, non è possibile scioperare come possono fare invece i sindacati». Ferro ha detto ciò replicando al ministro Maurizio Lupi: «Dice che la nostra protesta non è legittima, ma lui, dopo la sentenza della Consulta sul porcellum, si è chiesto se è legittimato?». Proprio il governo, allora, sembra essere il prossimo obiettivo del movimento: l’appuntamento della protesta ad oltranza è fissato per mercoledì quando si voterà la fiducia a Letta: «Se sarà votata la fiducia al governo – promette Danilo Calvani, altro rappresentante dei Forconi – ed i politici non andranno via, tutti convergeranno su Roma per un’invasione pacifica».

lunedì 9 dicembre 2013

Uomini ridotti a chip: è questo il rischio della scienza estrema...

di Massimo Fini

Si chiama 'affecting computing', è un software messo a punto da due società americane che grazie a degli algoritmi analizza 22 punti del volto e «legge» i sentimenti di una persona al di là di quanto vuol far apparire. Per il momento questo software è utilizzato dalle industrie per capire dalle espressioni dei consumatori il gradimento dei loro prodotti e l'efficacia dei messaggi pubblicitari, ma è destinato a essere applicato nei più vari settori. In più l' 'affecting computing', combinandosi con un'altra recente invenzione, i 'Google glass', occhialini-computer, permetterà a chiunque di vederci senza maschera, senza difese, nudi come lo dovremmo essere solo il giorno del Giudizio.Addio al vecchio gioco della seduzione. L'eterno dubbio maschile «ci sta o non ci sta?» non avrà più ragione d'essere. Ai tempi miei i codici erano meno algoritmici anche se, forse, meno precisi. Se, ballando, lei ti metteva il braccio sul petto era niet, se sulla spalla il messaggio era neutro, se intorno al collo potevi coltivare qualche speranza, se ti permetteva il 'cheek to cheek' («Il ballo del mattone» cantato da Rita Pavone) voleva dire che eri autorizzato ad andare più in là senza peraltro avere nessuna certezza (Dio benedica l'ambiguità femminile che nessun algoritmo riuscirà mai a ridurre alla ragione).

La Scienza tecnologicamente applicata sta cercando di ridurci a dei chip. Se 'affecting computing' prenderà piede il futuribile 'Blade runner' sarà già passato. Saremo tutti dei replicanti (del resto i neuroscienziati dell' 'Albert Einstein' di New York si sono già incaricati di farci sapere, attraverso lo studio di una particolare molecola, NF-kB, la nostra 'data di scadenza' com'era per i replicanti del film di Ridley Scott). Tuttavia io continuo a credere (con Eraclito) che l'intuito sia più importante di qualsivoglia algoritmo. Sono stato, per mestiere, in luoghi assai pericolosi, la casbah di Alessandria d'Egitto, il cimitero dei Mamalucchi al Cairo, a Soweto nell'era dell'apartheid, sul bus della Putco, unico bianco, che mi portava ad Alexandra un ghetto nero di Johannesburg ancora più degradato di Soweto. Me la sono cavata anche senza 'affecting computing' e gli occhialini di Google, cercando di capire chi mi stava attorno, senza fare lo stronzo. Anche di recente il vecchio intuito da reporter mi ha dato una mano. Milano di notte, fra un quartiere scintillante e l'altro, è terra di nessuno. Camminavo, verso le due, in una di queste strade deserte quando ho visto venirmi incontro tre ragazzi con la chiara intenzione di aggredirmi. Davanti marciava il capo, chiamiamolo Griso, i due bravi un passo indietro. Quando sono stati vicinissimi ho notato sulle labbra del Griso una leggera increspatura di incertezza. Ho fatto finta che mi volessero chiedere una sigaretta. Il Griso ha allargato le braccia a fermare i compagni. E' finita a tarallucci e vino. «Vuoi della coca?» mi ha chiesto alla fine il capo. «Non fa per me, e anche tu vacci piano» ho risposto dandogli un buffetto sulla guancia. Se avessi avuto gli occhialini di Google mi avrebbero massacrato di botte e rapinato (anche dei Google, giustamente).

La Scienza sembra impazzita. L'ultimo grido è «il microcervello creato in provetta». Tutto cio', occhialini Google compresi, si chiama 'realtà aumentata'. Io penso invece che dovremmo dirigerci verso una 'realtà diminuita'. Vorremmo restare uomini fra gli uomini. Non diventare macchine fra macchine

domenica 8 dicembre 2013

A CASAGGì, CON LA GIOVENTU' CHE NON PIEGA LA SCHIENA...



 
Quella di ieri sera a Casaggì è stata una serata come non se ne vedevano da un po' di tempo. Centinaia di persone hanno preso parte al secondo compleanno, seppur con due mesi di ritardo, della sede di via Frusa: un avamposto che abbiamo costruito con le nostre mani mattone su mattone, che abbiamo presidiato e difeso giorno per giorno, che vogliamo far essere - come dimostrato ieri - il punto di riferimento quotidiano di un mondo umano e politico.
 
 
Gli Ennessepi, uno dei gruppi più interessanti del panorama musicale identitario, non hanno deluso le attese, regalando momenti indimenticabili ai presenti. Il cammino delle Comunità che hanno reso possibile questo evento è ormai diventato uno solo, nella consapevolezza che solo unendo le migliori energie militanti si possono ottenere risultati tangibili ed essere la prima linea di un progetto nuovo e rivoluzionario.
 
 
Tra pochi giorni, a Firenze, si terrà un processo che vede imputati molti nostri militanti, accusati penalmente per aver affisso qualche manifesto su una scuola. Evidentemente, a Firenze, qualcuno è infastidito dalla nostra presenza. Ed ha ragione, perché diamo fastidio, non solo politicamente. Le idee che camminano su solide gambe danno sempre fastidio a chi non può averne. Il sorriso libero di chi ha imparato a sognare è uno schiaffo in faccia alla tristezza di chi passa la vita ad obbedire. Il coraggio di chi ha saputo schierarsi è un'insopportabile provocazione per chi si nutre di viltà. E allora cantiamo e sorridiamo sui vostri processi, sulle vostre morali, sui vostri giornali, sulle vostre vite vuote, sui vostri sissignore, sulle vostre misere scuse. Perché la nostra gente "non piega la schiena, se non quando serve un po' di umiltà". Siamo la meglio gioventù.
 

sabato 7 dicembre 2013

Vincitori e vinti all'ombra della storia...

di Mario M. Merlino (ereticamente.net)

Si dice – non ricordo dove l’ho letto – che la sconfitta sia, come la vittoria del resto, figlia di un padre austero e che abbia quale madre certa la verità. Suona aspro e categorico e impietoso come un passo edificante del filosofo Hegel, sebbene non sia citazione tratta da una delle sue opere. E i suoi discepoli, anche quelli eretici (giovani hegeliani secondo Karl Loewith o definiti da David Strauss, in precedenza, e poi dal Michelet quali appartenenti alla sinistra hegeliana), non furono da meno nel pensare che la storia sia sotto il dominio della necessità, di un fine ineluttabile (non descrivevano già con un senso tragico e grandioso i greci in questo modo il fato?).

Marx, che fu frequentatore di costoro e compagno di bevute, e i suoi ‘scolari’, nello specifico, si resero profeti di quel sol dell’avvenire ad annunciare un comunismo capace di appagare i bisogni, ritorno arricchito al paradiso primigenio e primitivo da cui, causa la divisione del lavoro, tutto aveva avuto il suo inizio. Storia di una spirale, storia sacra (anche qui il richiamo ad una provvidenza non può essere sottaciuto), storia insomma dove il rapporto delle umane azioni con il teatro delle marionette, l’opera dei pupi, si palesa brutale ed avvilente.
L’opera dei pupi, già, eppure… mi raccontava don Ciccio, Frank Coppola o Tredita (due le aveva lasciate, mi sembra, in un attrezzo agricolo), in un andar avanti e indietro nel cortiletto dei reparti infermieristici (luogo dei raccomandati) di Regina Coeli, come da ragazzetto a Partinico assistesse alle rappresentazioni delle vicende di Orlando re Carlo e dei paladini. E tanto era il coinvolgimento, soprattutto quando l’infame traditore Gano di Maganza, usciva indenne dall’aver venduto i suoi ‘comites’, che vi era una vera e propria rivolta, bambini ragazzi e adulti, contro il ‘puparo’. No, non era lecito che i traditori potessero sfuggire al fio della loro colpa – l’onore non si smercia, l’onore in primo luogo e innanzi tutto – che, per evitare di esser preso a pugni e calci, costui s’inventava all’istante un altro esito dove ‘l’ordine insegue il disordine’ (come pensavano, anche qui, precedendoci e imponendosi gli antichi greci).

E questo moto del cuore, questa rivolta apparentemente ingenua, che però nascondeva un rito comunitario, un senso d’appartenenza alle leggi eterne sancite dalla trasmissione orale e dall’azione riparatrice (ad esempio ‘il sasso in bocca’) stabiliva – inconsapevolmente e si potrebbe osare darle il nome di ‘metafisica’ – che la storia può e deve essere cambiata se con la sua pretesa di razionalità o materialismo deturpa offende si scaglia contro un altro modo, immarcescente e immutabile, d’intendere la misura del tempo…

(D’altronde il ‘nostro’ Maestro, tramite l’annuncio dello Zarathustra, ci ha educato a concepire la verità niente più di una opinione, un’opinione che ha trovato la forza d’imporsi… e Martin Heidegger, resosi edotto da simile insegnamento, ha fatto risalire il fraintendimento del principio di verità in Platone con il suo confondere l’Essere con la determinazione delle Idee, assise nell’aurea dimora dell’Iperuranio e dando loro il carisma d’essere e vere e belle e giuste…).

Ho negli occhi ancora le immagini delle gabbie dove erano esposti, nelle aule delle Corti d’Assise di tante parti d’Italia, i brigatisti rossi suddivisi in irriducibili dissociati pentiti, tre o quattro in una, pari numero in altra ed altri in un’altra ancora. E tutti esibivano pugni chiusi leggevano proclami s’appellavano al proletariato di ogni parte del mondo e si assumevano l’onore e l’onere d’esserne guida sicura e assoluta disegnavano scenari di guerra di tutti contro tutti, un’internazionale in armi… tre o quattro in una gabbia, tre o quattro in un’altra ed altri ancora in una terza…

(La storia, l’antistoria, le storie…).

Pomeriggio grigio e piovoso di un sabato qualunque. Le serrande dei negozi abbassate, serrati i portoni, rari e frettolosi i passanti e il corteo si snoda per le strade della città, due tre cinque mila giovani facce dure e duri slogans, passamontagna sciarpe eskimo bastoni spranghe molotov e, in fondo a proteggere la coda del corteo, le P38. Come i topi della fiaba, il pifferaio di Haemlin, signori delle tenebre, padroni del nulla. Arroganti e presuntuosi e illusi d’essere nel grande alveo del presente in marcia verso un certo futuro…

E, dall’altra parte, cacciati dalla storia e dalla società, senza dio né inganni, folli e disperati, poeti senza versi, poche decine, mani levate gli stessi bastoni le spranghe la molotov e la P38, nostalgia del passato attimi di presente zero futuro…
(Coloro che si sentivano ormai dalla parte dei vincitori; coloro che da vinti si dichiaravano fascisti per stabilire se qualcuno valesse o meno. Il regno della qualità contro il dominio della quantità…).

Su entrambi è passato il vento della storia, molti ne ha abbattuti, ad altri ha regalato nel rinnegamento un effimero successo – deputati giornalisti liberi professionisti -, altri ancora li ha avvolti nell’ottenebramento e dalla memoria ha sottratto i sogni e gli ideali della loro giovinezza… solo di alcuni si è trovato impotente perché, chissà come, essi possedevano forti radici e si rendevano incuranti di fronte al cambiamento.

Più facilmente è trovare fra questi ultimi coloro che s’erano collocati – chissà come e perché – in quella ‘nobiltà della sconfitta’ (sebbene il riferimento vada al titolo del bel libro di Ivan Morris sulle gesta e sull’etica dei samurai, il pensiero si fissa sugli eroi della tragedia greca, in piedi tra le rovine). Ne parlavo ieri mattina davanti ad un cappuccino in un bar della periferia romana ad ex miei alunni e, lo confesso, un po’ tronfio, aggiungevo, identificandomi… che forse in loro, in oscuri meandri della mente e del cuore, vittoria e disfatta e la verità s’erano rese orfane…

venerdì 6 dicembre 2013

Rifacciamo l'Europa...


di Marcello Veneziani

Sì, Presidente Napolitano, ha ragione, l'Europa deve cambiare rotta. Ma deve cambiare anche meta. Quest'Europa non funziona così come è stata congegnata. No, non fraintendete. La soluzione non è uscire dall'Europa, ma entrare finalmente in Europa. Non sto pazziando. La soluzione non è barricarsi negli Stati nazionali, sognare l'autarchia e gridare l'antieuropa. La vera scommessa è invece rifare l'Europa sul serio, ovvero fondarla come soggetto politico, militare, sociale, culturale coeso rispetto all'esterno e libero al suo interno. Il contrario di quel che è oggi l'Europa, un continente di latta rispetto all'esterno e una caserma di piombo rispetto ai suoi popoli e ai suoi cittadini.
L'Unione europea di oggi è incapace di una sua politica estera, di una politica protettiva rispetto all'esterno, anche protezionistica, se occorre; è incapace di una politica unitaria davanti all'immigrazione, è fragile e divisa rispetto alle crisi internazionali e alle turbolenze mediterranee; è incapace di sfidare l'egemonia statunitense, di arginare l'offensiva cinese, di frenare la minaccia islamica e di riconoscere la sua matrice mediterranea; è priva di una sua forza militare unita, è senza un governo politico eletto dai cittadini, magari dopo un referendum costitutivo del sovrano popolo europeo, dimentica le sue radici e la sua civiltà. In compenso è oppressiva al suo interno mediante i diktat agli Stati, i rigidi parametri e le tirannie economico-finanziarie; è un'Europa ferocemente astratta, come la finanza speculativa, preoccupata della contabilità e non della vita reale dei popoli e delle famiglie. Il razzismo imperante si chiama rating, come le omonime agenzie. 
Quest'Europa è complice e succube del colpo di stato contro i popoli europei, ben documentato da Luciano Gallino nel suo libro omonimo uscito in questi giorni. Patisce il debito sovrano, l'unica sovranità che riconosce e che coincide con la sua schiavitù. Non crediamo ai complotti, come ora scrive perfino la Repubblica, ma vorremmo credere all'Europa, non ai suoi spettri. C'erano due modi di fare l'Europa: uno era concepirla come dis-integrazione delle patrie e degli Stati nazionali, l'altro era intenderla come integrazione delle patrie e degli Stati nazionali. Il primo nasceva come domanda di globalizzazione e gradino verso di essa, il secondo sorgeva come risposta alla globalizzazione e argine rispetto a essa. Si scelse la prima via e questi sono i risultati. Oggi ci vorrebbe un movimento non anti-europeo, ma pro-Europa, passando dai popoli, gli Stati e le patrie e non contro i popoli, gli Stati e le patrie. La nostra Europa, libera dentro i suoi assetti e unita rispetto al mondo.

giovedì 5 dicembre 2013

NASCE RONIN COMPRENSORIO DEL CUOIO!

  
Vi comunichiamo in via ufficiale, che la Comunità militante Ronin, estende la sua influenza politica, sociale e culturale, nella zona del Comprensorio del cuoio, che comprende i comuni di Castelfranco di Sotto, Santa Croce sull'Arno, Santa Maria a Monte e San Miniato nella provincia di Pisa, e Fucecchio in provincia di Firenze.
Arriviamo in questo territorio con l'obiettivo di portare sano e puro vitalismo, per risollevare le coscienze del popolo italiano, sempre più all'insegna del pensiero unico, del politicamente corretto, dell'apatia generale e generazionale, per combattere i fenomeni di degrado politico e sociale, che, purtroppo, sono all'ordine del giorno.
Facciamo questo con nuovi e giovani militanti, che delusi dalla precedente esperienza politica, hanno aderito in modo convinto e con entusiasmo, al nostro progetto. 
La Comunità che sta nascendo si propone di creare un gruppo giovanile che, senza gli artifici del politichese, riporti sul nostro territorio uno spazio metapolitico in cui idee come identità, salvaguardia della vita e della famiglia, il legame con le nostre radici e la natura, siano al centro delle nostre iniziative. La sfida ci appare particolarmente difficile perchè, purtroppo, molti nostri coetanei sono stati inghiottiti dal sistema capitalistico e globalizzato che ha promesso loro un futuro confezionato in cui la mediocrità è nascosta dietro paillettes e lustrini.
Ci appelliamo ai giovani, quindi, perchè si decidano a rovesciare il loro status quo e a cambiare la loro vita affinchè diventino loro stessi gli artefici del loro destino. Ronin cercherà di combattere l'omologazione e i vuoti di pensiero, punterà ad includere nella propria Comunità tutti quei giovani ribelli che si sentono limitati ed imprigionati da questo periodo buio, fatto di disvalori e abbrutinamento morale e fisico. Proveremo ad abbattere gli schemi e a uscire dal gregge, perchè, come disse Dante, “Uomini siate, non pecore matte”.

mercoledì 4 dicembre 2013

Ritratti. Amedeo d’Aosta un comandante italiano...



di Renato de Robertis (barbadillo.it)


Comandanti ammirati. Italiani apprezzati. Soldati che facevano la guerra del secolo, loro malgrado. Soldati che odiavano i tedeschi. Come Amedeo d’Aosta, l’ultimo viceré, il principe-comandante da cui dipendevano le sorti del piccolo impero italiano, in Africa orientale nel 1940. “Se si deve cadere, cadremo in piedi” disse prima di essere sconfitto. E di fronte alla resa italiana, gli inglesi gli offrirono l’onere delle armi, dopo le battaglie dell’Amba Alagi, nel 1941.
C’è una fotografia di quei giorni dolorosi con il duca che osservava il nemico dalla montagna e di fronte aveva gli spari dell’artiglieria nemica. Sulle rocce africane la sua figura in bianco e nero dice che Amedeo stava perdendo la sua guerra, però, nello stesso momento, stava difendendo, come un leone, i suoi 3.800 uomini.
A settanta anni dalla sua tragica fine, cosa sanno i ragazzi di questo militare? Chi ha scritto, per l’ultima volta, sulla parabola umana di questo soldato? Nessuno. Pochissimi hanno negli occhi la cartolina di Boccasile, schizzata con colori morbidissimi, in cui l’anima del duca-comandante sfuma dentro i colori del tricolore.
Qui non si vuole compiere una glorificazione delle memorie nazionali. Si sa, per chi fa storia, il rischio più probabile è la retorica. Qui si tenta di esprimere una necessità critica, cioè questa: bisogna riprendere il filo della narrazione per restituire, alle giovani generazioni, le vicende di dignità italiana travolte dall’oblio, purtroppo. Agli uomini che fecero quella guerra, con innocenza e idealità, a quegli uomini va ridata la parola, per farli uscire dal girone dell’oblio.
Allora leggete il recente libro di Paolo Mieli, I conti con la storia (Rizzoli, pag. 394, euro19.50) per comprendere che la funzione dello storico è il rimuovere i divieti per ridare la voce agli uomini caduti in dimenticanza a causa delle interpretazioni ideologiche. Ecco perché qui si racconta Amedeo d’Aosta, un comandante che assunse valorosamente una posizione di difesa pur di salvare il suo esercito in Africa. Concentrando su di sé il fuoco inglese, egli salvò i suoi soldati. Prima di quel famoso scontro bellico, gli offrirono un aereo per scappare. Non lo accettò. La sua vita non valeva di più di quella dei suoi fanti nazionali o indigeni. Finì prigioniero degli inglesi e in un letto d’ospedale morì, invocando l’Italia.
Troppe volte la storia è stata scritta con l’idea della morte della patria e con la vergogna del 1943, questo perché gli italiani avevano tragicamente errato. Ma gli italiani, come Amedeo d’Aosta, con la loro vita scrissero pure che quello era il tempo tragico del dovere, “Non importa quanto potremo resistere: conta fare il proprio dovere…”
Per molti la patria non morì dopo le sconfitte del 1941 o del 1943; non morì perché in tanti difesero le sorti del proprio esercito, perché non pensarono agli interessi individuali prima e dopo la battaglia, e perché la loro patria non era il Fascismo, ma qualcosa più grande, cioè una storia lunga secoli. L’impegno critico attualmente ha una chance:abbandonare categorie storiografiche obsolete per far riemergere il vissuto del ventesimo secolo o le figure storiche che furono insabbiate da una storiografia che aveva solo uno scopo: far dimenticare i grandi italiani non di sinistra, così riducendo la complessità di un’ epoca.
I giovani affogano in una storia generalista mal compresa. E vivono in un’orgia comunicativa in cui sembra che non ci sia spazio per i miti nazionali. E’ discutibile che, nei manuali di storia, gli editori non propongano spazi tematici di memoria condivisa e non prospettino l’analisi degli eventi della giusta risolutezza militare, da El Alamein alle azioni ardimentose della Marina militare. Ora l’idea è promuovere nuove programmazioni storico-didattiche, come reazione alla diminuzione delle memorie nazionali, per decretare il superamento di una certa analisi storica, la quale fu impudentemente politica.
Dunque si dovrebbero riscrivere alcuni manuali. Per mettere in evidenza storica gli uomini che non scapparono, anche se travolti da eventi tremendi, e che furono tanti, tanti come Francesco Baracca, Armando Diaz, Luigi Rizzo,.. sino a Amedeo d’Aosta, il comandante ammirato, il comandante del sacrificio.

martedì 3 dicembre 2013

Tifosi laziali “in ostaggio” in Polonia, nuova bufera sulla Bonino. Alla Camera l’indignazione è bipartisan...


di Romana Fabiani (Secolo d'Italia)


Far rientrare in patria i 22 tifosi laziali ancora in carcere in Polonia dopo l’arresto (e il fermo di 139 italiani) seguìto agli scontri durante la partita del Legia con la squadra romana. È questo il senso dell’appello traversale dei gruppi parlamentari che hanno chiesto al governo di informare il Parlamento dopo i ritardi con cui il ministero degli Esteri e dell’Interno si sono mossi. Solo oggi il ministro Bonino riferisce di aver parlato con il suo omologo polacco. È stata Giorgia Meloni ha ottenere l’informativa in aula del viceministro degli Esteri Marta Dassù perché «la vicenda esula da questioni sportive e tocca la dignità nazionale», ha detto la parlamentare di Fratelli d’Italia, che fin da subito ha seguito la vicenda. Di ora in ora emergono video e testimonianze che rendono chiara la gravità della situazione e il comportamento «indegno» delle forze di polizia polacche, ha detto la Meloni intervenendo in aula dopo che il viceministro degli Esteri ha assicurato l’impegno del governo e riferito che i connazionali trattenuti in Polonia «sono stati trattati malissimo, con pochissimo cibo e acqua da parte delle autorità competenti». È una vicenda «inaccettabile, un’altra spia sulla scarsa credibilità internazionale della nostra nazione, 140 cittadini italiani privati della libertà, senza cibo, senza acqua, donne, minori, disabili… Tutti fermata in una vera e propria retata preventiva», ha detto il capogruppo di Fratelli d’Italia, «noi condanniamo la violenza negli stadi, ma anche il sopruso e la violenza di Stato. Dov’era la rappresentanza delle nostre forze dell’ordine durante la partita? Tra le ipotesi di reato c’è quello di “schiamazzo”…», ha aggiunto prima della richiesta che il premier Letta nella sua prossima visita in Polonia chieda conto di quanto accaduto.


Tutti i gruppi (dal centrodestra a Sel) hanno concordato sul fatto che nessuna violenza di massa è stata commessa dai tifosi e che le forze dell’ordine polacche hanno agito in modo arbitrario anche se sul fronte degli scontri negli stadi non si deve abbassare la guardia. Nel suo intervento Barbara Saltamartini del Nuovo centrodestra ha insistito sulla necessità di chiarimento sulla negazione dei diritti dei nostri connazionali. «Chi ha sbagliato deve pagare e condanniamo le violenze, ma siamo in presenza di una vera retata, e ci sono stati dei ritardi», ha detto Luca D’Alessandro di Forza Italia. Nicola Molteni della Lega ha ricordato anche il caso dei due marò ancora in India dopo quasi due anni e la pessima gestione del caso kazako da parte del governo italiano. Il vendoliano Filippo Zoratti ha sottolineato, tra l’altro, che in occasione della partita di andata che si è svolta a Roma l’atteggiamento della polizia italiana è stato molto diverso. Fin troppo tollerante.

lunedì 2 dicembre 2013

No Muos. Centinaia in piazza con il fronte sovranista: “Siamo la Rete dei siciliani”...


di Geza Kertesz (Barbadillo.it)

In centinaia hanno sfidato il maltempo e l’allarme della protezione civile per dire il proprio “no” al Muos previsto a Niscemi. A Palermo è andata in scena ieri la “Rete No Muos”, il coordinamento sovranista che è nato per unire tutti i cittadini che si oppongono all’installazione militare statunitense non solo in ragione della tutela della salute ma anche in difesa della sovranità nazionale. Soddisfatto dello svolgimento del corteo indetto nel capoluogo siciliano il portavoce Stefano Di Domenico: «In centinaia abbiamo manifestato a Palermo sotto la pioggia. Un corteo pacifico e senza bandiere di partito come promesso. La nostra lotta continua, dunque».

“Liberi e sovrani”, si leggeva così nel grande striscione che ha aperto la manifestazione che ha visto la partecipazione non solo di siciliani ma anche di manifestanti provenienti da diverse regioni del Sud. Un corteo – apartitico nel quale sono state bandite tutte le bandiere di soggetti politici – che si pone oggettivamente come una novità nel panorama delle contestazioni popolari italiane. Proprio questo, l’invito a ragionare in termini trasversali rispetto al contrasto all’installazione militare Usa, è stato il motivo per cui è nata la “Rete”: «Da tempo la realtà No Muos – spiegano dal comitato – era stata monopolizzata come battaglia di una parte, oltretutto minoritaria: una scelta illogica, questa della sinistra radicale, rispetto alla quale abbiamo voluto proporre un modo diverso di affrontare un problema che riguarda tutti i siciliani».

La scelta di manifestare sotto l’Assemblea Regionale siciliana, allora, si spiega proprio in quanto il “primo” a essere messo sotto accusa è proprio il presidente Crocetta: «Sul Muos ha avuto un atteggiamento ondivago e strumentale. Sulla questione ha delle responsabilità enormi». Ma per la Rete No Muos non finisce qui: «Palermo è solo una tappa di un percorso che individualmente portiamo avanti da anni – racconta Di Domenico -. Adesso la “Rete” organizzerà in tutte le città siciliane incontri, monitoraggi, in previsione di altri eventi: perché la sovranità del nostro popolo è messa a rischio non solo dal Muos».

La giornata di ieri, però, è stata rovinata in parte dalla contromanifestazione (non autorizzata) animata dal “Movimento No Muos” che racchiude le sigle della sinistra antagonista. Alcune decine di esponenti dei centri sociali infatti si sono opposti fisicamente alla svolgimento della manifestazione. Le forze dell’Ordine sono intervenute e il bilancio è pesante: un arresto e tre feriti. Nelle parole di Di Domenico resta l’amaro: «Ora è il momento di isolare dal Movimento No Muos i centri sociali palermitani, responsabili degli incidenti e evidentemente al servizio degli americani».

Si spacca dunque, il fronte dei No Muos. Ma la condanna dal mondo dei social si indirizza tutta contro l’azione violenta degli aderenti al Movimento No Muos. Si legge tra i commenti: «Gli americani ora ringraziano». C’è chi poi si sofferma a riflettere: «Che dire? L’epilogo di questa manifestazione, alla fine, fa il gioco dei militari americani. L’unico modo per indebolire le ragioni di chi, legittimamente, protesta contro l’installazione in Sicilia delle antenne del mega-radar americano è quello di dividere l’intero fronte popolare».