venerdì 31 ottobre 2014

Santo manganello...


di Fabrizio Belloni (EreticaMente.net)
Ricordo uno dei tanti episodi di “Don Camillo”, dell’immenso Guareschi. In una trasferta a Milano, ciascuno sotto mentite spoglie, i due eroi, Don Camillo e Peppone finirono bastonati. Con il contrappasso, però:  Don Camillo fu bastonato dai “neri” , mentre invece Peppone le buscò dai “rossi”. Nemesi storica.
Oggi si sono viste cariche della Polizia contro gli operai.
Cancellati di colpo sessanta anni di storia. La macchina del tempo renziana ed alfaniana ha fatto rivivere Scelba ed il mitico Terzo Celere di Padova, il più duro fra i duri.
Mi sono tornate alla memoria scene di Napoli, quando l’allora ministro dell’Interno Napolitano mandò i suoi uomini a manganellare i disoccupati partenopei.
Deve esserci un diavoletto nascosto ed invisibile fra gli scranni del Governo, che obbliga i rossi (perché sempre trinariciuti sono e restano, comunque cambino il nome) a prendere a botte gli operai. Si ripete la nemesi storica di don Camillo e Peppone.
Sia chiaro che personalmente sto dalla parte degli operai, Mica sono figli di papà, con gli abiti firmati, quelli che vanno in piazza. Sono gente, padri di famiglia, che si sono trovati sulla strada senza lavoro. Poveracci. Come poveracci sono i Poliziotti costretti dalla divisa ad ubbidire. Scontro fra poveri.
Altra cosa sono i black blocks, mascalzoni professionisti prezzolati per creare disordini. Altra cosa sono i “centri sociali”, giovani spaccati, senza voglie né mete, dediti a certi consumi, che odiano tutto ciò che è altro dal disordine, dal vuoto, dal nulla. Contro questi figuri usare il manganello è oggettivamente un atto di misericordia corporale.
Però.
Va bene che al ministero degli Interni c’è una ameba ruggente, tale Alfano, vera pubblicità delle uova pasquali ridanciane. Cioè il nulla. Ma il mio personale diavoletto custode mi sta insinuando nella zucca certe idee…
Non mi tornano i conti. Delle due, una.
O il Governo ha dato ordini severissimi di non turbare la pax germanica, in ossequio all’Angela, oppure ha dato ordini così confusi e elastici da assomigliare ad un piano economico quinquennale della fu Unione Sovietica.
Oppure c’è altro. Cioè la casta sa che di scene come quella di ieri se ne vedranno sempre di più, perché chiuderanno sempre più Aziende, e sempre più grandi.
In altre parole, stanno venendo al pettine i regali della democrazia, della partitocrazia, del servilismo, dell’incapacità.
Annaspa, la casta.
Ciancia di TFR (liquidazione), inventata da Mussolini, che creò, lui sì, lo Stato Sociale: oggi cercano di svuotare la piscina col passa brodo, col setaccio.
E allora cercano di difendersi dalla marea montante di ribellione.
Sia chiaro che gli operai, come i “colletti bianchi” della marcia di Torino, come i contadini (quei pochi rimasti), come gli impiegati privati o pubblici che siano, sono il Popolo. E scontrarsi col Popolo vuol dire perdere. Sempre.
Sia chiaro che le cinture hanno esaurito i buchi da stringere.
Sia chiaro che, come sempre, il Popolo italiano, buono e scanzonato per natura, proprio come i buoni, quando non ce la fa più diventa più feroce di altri. Di prove storiche ne abbiamo a bizzeffe.
Da anni sbraito che si avvicina la stagione dei conti. E che saranno salati. Salatissimi.
Vuoi vedere che è cominciata?
Forza, Gente, che la va a pochi.

giovedì 30 ottobre 2014

Ricordo di Mario Zicchieri, ucciso dai killer antifascisti a soli 16 anni...


di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

«Era morto un fascista, non valeva la pena di guastarsi l’appetito o rovinarsi la cena. Era morto un fascista, andava in fretta sepolto: avevan paura anche di un morto…». Questa canzone del gruppo alternativo Zpm era stata scritta per Sergio Ramelli, il giovane missino assassinato a sprangate a Milano da elementi di Avanguardia Operaia, ma si adatta benissimo anche a Mario Zicchieri, “cremino” per i suoi camerati, sedicenne del Prenestino ucciso a fucilate davanti la sezione de lMsi di via Gattamelata da killer a tutt’oggi sconosciuto. Ramelli era stato ucciso pochi mesi prima,Mikis Mantakas lo stesso, e il 29 ottobre toccò a Cremino. Le Brigate Rosse, e in genere tutti i gruppi della sinistra estremista, teorizzavano da tempo la necessità di incutere terrore nei fascisti del Msi perché, spiegarono qualche anno dopo, nonostante le bombe, gli incendi, le aggressioni, i ferimenti, non mollavano né davano segni di cedimento. E infatti era proprio così: i giovani del Msi e del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del partito, non cedettero mai, si difesero e continuarono a propagandare le loro idee e continuarono a tentare di cambiare il mondo. Neanche dopo la strage di Acca Larenzia (anch’essa impunita, come gli omicidi di Cecchin, Di Nella e tanti altri) la comunità missina arretrò, anzi. E così fu al Prenestino, quartiere rosso (benché costruito dal fascismo) dove il Msi ebbe sempre una sede sin dall’immediato dopoguerra. E nel quartiere gli attivisti del Movimento Sociale svolsero sempre una intensa attività sociale, politica, culturale. Attività che i comunisti di qualsiasi tipo non avevano mai tollerato, perché poi funzionava.

Un quartiere difficile

Solo un anno prima, in occasione del 25 aprile, c’era stata un’aggressione armata contro la sezione del Msi, a suon di bombe molotov, revolverate e accettate (nel senso di colpi di accetta). Neanche allora i ragazzi erano scappati, ma avevano ripreso la loro attività in favore delle fasce sociali più deboli con rinnovato vigore. Finché – è stato raccontato molte volte – in un primo pomeriggio di 39 anni fa si ferma una Fiat davanti alla sezione, ne scendono due ragazzi ben vestiti, che sparano sui giovani che si trovavano davanti al portone, uccidendo Zicchieri e ferendo gravemente Marco Luchetti. L’auto poi fugge, inseguita da un iscritto al Msi del Prenestino che però dopo pochi metri viene minacciato con le armi e costretto a desistere. L’allora segretario della Penestino Gigi D’Addio apprese la notizia nei locali della Federazione, in diretta, perché qualcuno telefonò al partito dicendo quanto era accaduto. D’Addio, che ancora oggi al ricordo si commuove, prese la sua vecchia Dyane e dal centro arrivò in pochi minuti, guidando come un folle, alla sede, dove apprese tutto. Fu subito assaltata la vicina sezione del Pci, i cui membri non c’entravano nulla, alcuni ragazzi missini entrarono nella sezione comunista e malmenarono i presenti, sull’onda di una comprensibile reazione emotiva: occorre ricordare che in quegli anni ai funerali dei missini partecipavano solo i missini, nessun esponente politico né nazionale né locale, veniva mai a portare il suo cordoglio. I partiti dell’arco costituzionale – il “sistema” dicevamo noi missini – glielo proibiva. E così andò avanti per oltre dieci anni.

Intimidazioni continue contri i missini

Ma non so di nessuno che se ne andò dal Msi per questo motivo, per questa discriminazione odiosa, per questa emarginazione vergognosa. Cremino aveva solo sedici anni: non poteva essere colpevole di nulla, se non di avere un’idea controcorrente, alternativa ai partiti del consociativismo che hanno rovinato l’Italia, e i cui effetti di malgoverno li stiamo pagando ancora oggi. In questi 39 anni Mario Zicchieri è stato sempre ricordato dai suoi amici e camerati, e così è anche stavolta. Pochi anni fa, recentemente, l’amministrazione comunale guidata da Gianni Alemanno gli ha dedicato un giardino nei pressi, la cui lapide commemorativa è stata più volte distrutta dagli antifascisti. E i “fascisti” ogni volta l’hanno ripristinata…

mercoledì 29 ottobre 2014

Il 20 novembre il film sulla strage partigiana. Ed è subito boicottaggio...


È fissata per il 20 novembre l’uscita del film Il segreto di Italia del regista Antonello Belluco. Una storia d’amore (la protagonista è Romina Power) ambientata nella campagna veneta nella primavera del 1945, durante la sanguinosa guerra civile che produsse l’orrenda strage di Codevigo di cui si fa fatica ancora oggi a parlare.

Orrore a Codevigo

Codevigo, paesino della Bassa Padovana, visse giornate crudeli: a partire dal 28 aprile i partigiani della 28esima Brigata Garibaldi, comandati da Arrigo Boldrini detto Bulow,  uccisero senza processo e dopo crudeli torture uomini e donne dell’esercito della RSI e civili rastrellati e sospettati di simpatie fasciste. Le esecuzioni – 365 gli scomparsi ma poco più di cento i corpi ritrovati – avvennero di notte, spesso sulle sponde del fiume che scorre nei pressi di Codevigo e i cadaveri gettati nelle acque o in fosse comuni. Un odioso crimine di cui si leggeva un tempo solo nei libri del senatore missino Giorgio Pisanò e successivamente ne I giorni di Caino di Antonio Serena (ex senatore leghista).

La maestra Corinna Doardo

Poi un libro di successo come Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa ha rievocato i massacri compiti dai partigiani dopo il 25 aprile 1945 e anche la sorte dei fascisti uccisi a Codevigo tra cui la maestra Corinna Doardo, che fu rapata a zero e portata in giro per le vie del paese prima di essere uccisa.  La sottoposero a sevizie tali che il medico accertò che solo un orecchio era rimasto intatto, la fucilarono e abbandonarono il cadavere nudo nel cimitero. Gli avvenimenti di Codevigo sono ricordati ora nel film di Belluco che già denuncia boicottaggi contro di lui.

Le sale rifiutano la proiezione

“Qualcuno – ha detto al Giornale – ha detto che il film è bello aggiungendo però che non lo poteva proiettare perché sono i partigiani a decidere”. Eppure Belluco, che ha ricevuto un contributo dalla Regione Veneto, non vuole essere etichettato come “revisionista”: “Racconto stati d’animo individuali e i sentimenti di una comunità all’interno di fatti terribili realmente accaduti”. Infine, gli è arrivata anche la raccomandata dell’avvocato del figlio di Arrigo Boldrini con la richiesta di visionare il film a tutela, si immagina, della reputazione del comandante Bulow. “Un’assurda limitazione della mia libertà di espressione”, lamenta Belluco.

venerdì 24 ottobre 2014

Questo Bel Paese alluvionato dai soliti ignoti: noi.



di Massimo Fini

Genova. Parma. Grosseto. Trieste. L'Italia cade in pezzi. Ogni autunno, ma ormai anche in altre stagioni, ci sono alluvioni del tipo di quelle cui stiamo assistendo in questi giorni. E ogni volta si grida allo scandalo e si additano al ludibrio delle genti i responsabili che possono essere, a piacere, il sindaco, il governo, la burocrazia, il Servizio metereologico che ha sbagliato le previsioni, la Protezione civile che non è intervenuta in tempo e con mezzi adeguati. Ogni volta questa o quella Procura apre un fascicolo contro ignoti per 'disastro colposo'. E proprio in questo termine, 'ignoti', sta la chiave dell'intera faccenda. Perché i responsabili non sono né i sindaci, né il governo, né il Servizio metereologico, né la Protezione civile. Responsabili siamo noi tutti, vittime comprese, che abbiamo accettato e accettiamo senza fiatare, senza un guaito, anzi cercando ciascuno di trarne la propria piccola o grande convenienza, un modello di sviluppo demenziale che non poteva portare che al dissesto idrogeologico. Certo si può tamponare meglio questa o quella situazione, ma non salvare la baracca. Sarebbe come se si pretendesse di impedire il naufragio di una nave che ha perso la chiglia infilando un dito in un foro del fasciame. Un processo di cementificazione, di deforestazione, di ogni tipo di oltraggio alla Natura che dura da più di mezzo secolo non si recupera né in un giorno, né in un anno, né in dieci, ma con cinquant'anni di retromarcia. Questo però nessuno, governi o cittadini, vuol sentirselo dire. E chi lo dice, e magari lo scrive, è considerato un folle, un antilluminista, un abbietto antimodernista. Ci si ostina a continuare per una strada che non ci vorrebbe molto a capire dove vada a parare: in un collasso finale devastante, di cui quello ambientale è solo un aspetto. L'Economia, con l'ancella Tecnologia, prevale su tutti e su tutto, anche sul più elementare buon senso. L'edilizia è in crisi. Bene, vuol dire che perlomeno si smetterà di costruire. E invece no, si costruisce ovunque, a manetta. A Finale Ligure, un tempo, con Celle, Albisola, Spotorno, Noli, Varigotti, Borghetto, Alassio, Bordighera, delizioso borgo di pescatori della Riviera di Ponente, ora ridotta ad un'unica striscia di cemento da Genova a Ventimiglia, non si vedono che cartelli 'vendesi' di case rimaste vuote, eppure si sta costruendo ancora, sul mare. Solo i cinesi -ma verrà anche il loro turno- ci han superato: costruiscono grandi città dove non abita nessuno. Milano ha avuto da sempre pochissimi spazi vuoti (eppure ai primi del Novecento l'architetto Van de Velde avvertiva: «Una città è fatta di pieni ma anche di vuoti») e adesso sono stati riempiti anche quelli in nome di quell'idiozia dell'Expo. Le Esposizioni Universali -la prima si tenne a Londra nel 1851- avevano un senso quando altri erano i mezzi di comunicazione, non nell'era di Internet. Che sarebbe stata in gran parte solo una speculazione malavitosa lo si sapeva da subito (adesso non ci resta che sperare, a titolo punitivo, in Ebola).

Intendiamoci, l'Italia è inserita nel modello di sviluppo occidentale e ci sarebbe voluta molta lungimiranza (forse solo il fascismo, almeno in teoria, la ebbe) per tenersene fuori. Però sono convinto che, fra i Paesi europei, il processo di industrializzazione sia stato particolarmente rovinoso per noi. Perché il nostro territorio, così vario, dalle Alpi alla cerniera degli Appenini al delta del Po alle coste, è geologicamente fragile, così come fragili sono il nostro straordinario paesaggio e la ricchezza artistica, frutto dell'opera delle generazioni che ci hanno preceduto, che non abbiamo saputo preservare. Ce lo siamo alluvionati da soli il nostro bel Paese. Le 'bombe d'acqua' (dei normali temporali) cadute su Genova e altrove c'entrano poco.

mercoledì 22 ottobre 2014

Noi, i ribelli…




di Mario M. Merlino

M’è tornato a mente un episodio raccontato dal giornalista Gianpiero Mughini, che ha sempre manifestato coinvolta stima nei confronti di Berto Ricci. Quando costui si sposò, invitò sette amici al bar e offrì loro un cappuccino direttamente al bancone. Si dirà che erano altri tempi, i tempi di un’Italia ‘proletaria e fascista’, dove ancora tanta miseria albergava e la vita si rendeva grama attenta economa, nonostante l’impegno e le iniziative intraprese dal Fascismo – nominato Presidente del Consiglio Benito Mussolini assicura prioritario l’impegno che il pane sia sulla tavola degli italiani (altro che merendine nello zaino degli obesi bambini dell’osceno presente!). Tanto fu fatto, tanto si sarebbe dovuto ancora fare… Una rivoluzione è un inesausto cammino. Se si ferma, se si illude d’essere compiuta se si adagia, come le biciclette, cade nel rovinio della strada (così si esprimeva Ernesto Che Guevara). Anche allora pasciuti borghesi si sposavano con la chiesa addobbata di fiori la Balilla ad attenderli il ristorante. Berto Ricci era un modesto professore di matematica, un precario si direbbe oggi, proveniente dalle file del sovversivismo libertario eppure sognava credeva combatteva con la penna, prima di donare il proprio sangue, alla sabbia della Quarta Sponda affinché il Fascismo realizzasse il suo compito ‘universale’… Retorica follia inganno travisamento della realtà? E’ facile con il senno di poi a grattare la vernice, dopo è sempre troppo facile, dietro la scrivania a far strage delle illusioni con cinismo e ironia e sovente una buona dose di malafede… Erano, Berto Ricci e tanti altri, i Guido Pallotta i Niccolò Giani i giovani della scuola di Mistica fascista, i vecchi squadristi e i giovanissimi dell’ultimo lavacro di sangue, i combattenti di una visione del mondo di idee a disegnare un nuovo ordine europeo di trincee ove realizzare il cambiamento. Fra costoro Giuseppe Solaro. I ribelli dell’esistente, che vedono nel Fascismo e nel suo Capo il cammino, l’unico, verso quel mondo ove finalmente coabiteranno lo spirito di un uomo rigenerato nei valori dello Spirito e reso giusto e sano nel riconoscimento del proprio lavoro.
Alla scomparsa di Giano Accame la figlia Barbara, vedova dell’amico e camerata Peppe Dimitri, chiese di incontrarmi in quanto il padre aveva lasciato incompiuto un libro – in effetti mancava soltanto nei suoi intenti un capitolo dedicato a Mishima Yukio –, che l’editore Mursia si apprestava a dare alle stampe. Un bel libro dal titolo La morte dei fascisti (da professore ‘rompicoglioni’ avrei trovato più corrispondente un ‘per’ al posto del ‘dei’, ma tant’è…), di cui organizzai la presentazione presso l’Istituto Carlo Panzarasa a Trieste. Barbara, per espresso desiderio del padre, avrebbe voluto in copertina la riproduzione di un manifesto, di quelli meno noti, d’arruolamento nella Decima MAS. Mi raccontava che anche per quell’immagine s’era voluto arruolare, per un sol giorno, appunto il 25 aprile del ’45. Qualcuno le aveva detto che ne possedevo copia originale. Non se ne fece nulla, pur assicurandole che non vi erano diritti d’autore; l’editore preferì la fotografia dell’assassinio di Giuseppe Solaro, di quel volto ormai al di là del contingente del provvisorio di certo della canea che lo circonda e di coloro che ghignano si beano della corda già intorno al collo. L’uomo contro il sub-umano, quell’andare essere già oltre nel luogo riservato alla metafisica. Come aveva scritto Filippo Corridoni pochi giorni prima di scomparire nel fuoco della trincea delle Frasche: ‘Io rimarrò sempre il Don Chisciotte del sovversivismo; ma un Hidalgo senza ingegno, pieno soltanto di fede. Morirò in una buca, contro una roccia, o nella corsa di un assalto, ma – se potrò – cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora’… (E la sua stele, fra le doline di Monte San Michele, è il riconoscimento per quel sindacalista rivoluzionario che accettò di partecipare volontario alla guerra ‘borghese’ per trasformarla in guerra di popolo, premessa della giustizia sociale).
Domenica mattina, sede dell’ass. Volontari di guerra, a Trastevere, per la presentazione del libro di Fabrizio Vincenti su Giuseppe Solaro, il fascista che sfidò la FIAT e Wall Street, edizione Ciclostile. Ho avuto copia due giorni prima per prepararmi a sostituire Enzo che s’è reso indisponibile per ragioni di salute. Trecento pagine, arricchite da numerose e inedite fotografie, a riempire uno spazio colpevolmente manchevole verso un uomo che, nella brevità della sua esistenza (viene assassinato che non aveva ancora trentuno anni), ha dato tanto e di più in idee ed azione. Trecento pagine che confermano come il Fascismo rappresenti la sola grande rivoluzione in armi del XX secolo. Con le armi perché nessun potere legato al capitale sarà disposto a suicidarsi volontariamente, a cedere privilegi e profitto, a rendere se stesso altro da sé. ‘Dalla guerra che è oggi universale dipende l’esito della rivoluzione sociale, la sconfitta o il trionfo del lavoro sul soffocamento plutocratico’: scrive. Trecento pagine che ero stato costretto a sfogliare rapidamente e che ora posso leggere con la cura che meritano.
Credo che sia ora stabilire quanto e cosa debba permanere nella riflessione nell’insegnamento nelle linee guida rispetto a questo presente di quella storia a cui restiamo fedeli, incuranti di collocarci dalla ‘parte sbagliata’ anzi fregandoci di essere eredi e testimoni del ‘male assoluto’… Insomma, per citare ancora e sempre Robert Brasillach, il Fascismo ‘immenso e rosso’ (visione del mondo e, quindi, non circoscritta alla fase strettamente storica o limitata alle coordinate europee; superamento sì del comunismo, della sua concezione materialistica, ma pur sempre nell’alveo del socialismo). Come ebbe a dire Nicola Bombacci a Genova, davanti agli operai dell’Ansaldo accorsi a sentire il vecchio tribuno del comunismo: ‘Il Socialismo non lo farà mai Stalin ma lo farà Mussolini’ e il 15 marzo del ’45, sempre a Genova, di fronte ad oltre trenta mila persone riaffermò la coerenza la lealtà delle sue azioni la fedeltà all’idea di riscatto delle masse tramite il lavoro con la socializzazione. Oggi quelle masse sono la voce disperata e offesa che si leva da tante parti, da ogni continente e noi, noi dobbiamo essere possiamo essere – e ‘vogliamo’ essere – la risposta… Ad altri, sempre più a noi distanti e avversi, il ciarpame becero e cretino di una destra borghese, prigioniera dei suoi incubi viltà e paure, a far da reggi-coda al capitale, al potere finanziario, mascherandosi con un dio (che è morto) con una patria (che è morta) con una famiglia (che è morta). Libertari nei diritti da difendere fascisti nello stile di vita e non solo…
Dopo averlo pronunciato alla radio, Giuseppe Solaro si affida al giornale La Riscossa del 12 ottobre ’44 per riproporre quello che può ben dirsi il suo ‘canto del cigno’, il testamento spirituale, certamente il discorso a coronamento di un vissuto tutto speso a difendere le ragioni sociali del Fascismo, in pace e in guerra, e in assoluta fedeltà verso il Duce: ‘E’ facile farsi chiamare ribelli quando si crede di avere gli eserciti amici a pochi giorni di distanza, quando si ritiene la vittoria già scontata, quando si pensa di essere dalla parte del più forte, ormai invincibile, quando si è circondati dalle premure di tanti pavidi che intendono crearsi benemerenze verso ‘il cavallo vincente’… I veri ribelli siamo noi. Ribelli contro un mondo vecchio di egoisti, di privilegiati, di conservatori, di capitalisti oppressori, di falliti sistemi, di superate ideologie, di dottrine ingannatrici, dei falsi e dei bugiardi. Ribelli insomma contro il mondo dell’ingiustizia’. (Varrebbe la pena il riportarlo nella sua interezza). Appunto, ribelli. E questo spiega perché su Giuseppe Solaro ci si è raccolti intorno alla sequenza della sua morte, la doppia impiccagione, il corpo portato attraverso la città di Torino in ‘bella’ mostra per poi essere buttato da una spalletta del ponte giù nel Po. Perché la sua lotta i suoi scritti, il radicalismo delle posizioni dispiacevano a ‘destra’, a quel mondo che solo formalmente diceva di raccogliere l’eredità della Repubblica Sociale. E, a sinistra, il radicale annientamento dell’uomo, cercando di gettargli addosso ogni forma di accusa, di nefandezze, di menzogna. Del resto il primo atto del Comitato di Liberazione fu l’annullamento delle leggi sulla socializzazione…
Un libro non si racconta, anche se trattasi di un saggio, soprattutto se è un libro meritevole d’essere letto e questo lo è. Ad altro era il mio intento. Se vale quanto detto sovente che la nostra speranza si ripone sul territorio, là dove operano le singole realtà, senza pretesa di sedersi a tavolino per improbabili unificazioni politiche, fornendo momenti di cultura quale comune sentire e comuni intenti, questo libro ci fornisce più spunti stimoli inviti e – per quanto mi riguarda – identificazione. Oltre ci affidiamo a quei bastoni e a quelle barricate di contro alla legalità del perbenismo del privilegio del signoraggio…
Il libro di Fabrizio Vincenti riporta, all’inizio, una affermazione di Céline: ‘Quale mondo separa quindi le cose viste, le verità esterne, dalle cose pagate nella carne! Le verità che sappiamo sono decisamente niente, contano solo le verità pagate con il proprio sangue’, eco di quanto già Nietzsche aveva ammonito e che noi condividiamo con entrambi. Il resto è chiacchiere vane battaglie di retroguardia appannamento del senso più autentico del nostro ‘esserci’…

martedì 21 ottobre 2014

C’è chi si fa bello in tv e chi è costretto a “chiudere”: quest’anno sono già fallite 11.103 aziende...


tratto da Secolo d'Italia
La cura Renzi non funziona. Anzi, le condizioni del malato peggiorano mentre lui si fa bello in tv. Nei primi nove mesi dell’anno in Italia sono fallite 11.103 imprese, con un aumento del 13 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013. In media sono fallite 61 aziende ogni giorno (sabato e festivi esclusi), più di due imprese ogni ora. Lo afferma una ricerca della Cribis D&b basata su dati delle Camere di commercio: secondo lo studio i default sono 3.002 solamente nel terzo trimestre, record negativo storico del periodo, e risaltano le difficoltà del settore del commercio e dell’edilizia.
Dal 2009 a oggi si contano 70.673 imprese che hanno portato i libri in tribunale, «numeri che sottolineano uno scenario economico ancora preoccupante», afferma la società del Gruppo Crif specializzata nella business information. «I dati relativi al terzo trimestre 2014 mostrano una situazione ancora molto preoccupante per le nostre imprese, con dati che testimoniano le difficoltà delle realtà imprenditoriali: in particolare – commenta Marco Preti, Amministratore Delegato di Cribis D&b – emerge la difficoltà del settore del commercio, al dettaglio e all’ingrosso, oltre che dell’edilizia. Entrambi i settori hanno infatti superato le 3.000 imprese che hanno portato i libri in tribunale solo nei primi nove mesi dell’anno». Nel primo semestre la Lombardia si è confermata la Regione nella quale si registra il maggior numero di fallimenti, con 2.457 casi, pari al 22,1% del totale nazionale. Dal 2009 ad oggi si contano 15.656 imprese lombarde fallite. La seconda Regione più colpita è il Lazio, con 1.164 imprese chiuse nel 2014 e un’incidenza sul totale Italia del 10,5%. Segue la Campania con 966 casi e incidenza dell’8,7%. In difficoltà anche il Veneto con 933 fallimenti. Per completare le prime dieci posizioni seguono il Piemonte (836), la Toscana (810), l’Emilia Romagna (806), la Sicilia (656), la Puglia (565) e le Marche (379). Come detto, il commercio e l’edilizia sono i macrosettori più colpiti nei primi nove mesi: il primo ha registrato 3.340 fallimenti mentre il secondo 3.022. Più nel dettaglio il comparto in maggiore sofferenza è quello della «costruzione di edifici», in cui si registrano 1.357 fallimenti, seguito da 929 installatori. Seguono il commercio all’ingrosso dei beni durevoli con 868 fallimenti, i servizi commerciali con 668 e la locazione immobiliare con 637. Poi sono falliti 620 distributori all’ingrosso di beni non durevoli, 512 ristoranti e bar, 411 negozi di abbigliamento e accessori, 188 negozi alimentari e 167 negozi di arredamento e articoli per la casa.

venerdì 17 ottobre 2014

Evita Perón: il significato di un simbolo dell’Argentina moderna...


di Francesca Penza

Sono trascorsi duecento anni dalla formazione del Primer Gobierno Patrio, il primo governo indipendente della storia dell’Argentina, seguito alla Revolución de Mayo – la Rivoluzione di Maggio – guidata dal creolo Manuel Belgrano. Duecento anni in cui si sono succeduti presidenti, dittatori e giunte militari, così come sono cambiate, negli anni, le forme di governo e la stessa nomenclatura dell’attuale Nazione Argentina.

E l’Argentina sceglie un simbolo per festeggiare la sua indipendenza. Un personaggio, una donna amata e contestata: Evita Perón.

Maria Eva Duarte de Perón nacque il 7 maggio del 1919. Figlia illegittima di Juan Duarte, piccolo proprietario terriero, conobbe già da bambina stenti e miseria che superò soltanto quando con la famiglia – sua madre ed altri quattro fratelli – si trasferì a Junin, in seguito alla morte di Duarte. La relativa serenità economica non le impedì di sviluppare una personalità curiosa ed intraprendente che la portò, quindicenne, a trasferirsi a Buenos Aires, dove conobbe Agustín Magaldi, il cantante di tango che la aiutò a divenire attrice per la radio e per il cinema. Proprio mentre registrava una telenovela radiofonica conobbe il futuro presidente, il generale Juan Domingo Perón. Le nozze si celebrarono nel 1945. Quello stesso anno Evita guidò una manifestazione per la liberazione di Perón, arrestato in ottobre per le sue attività contrapposte agli interessi militari. Fu la consacrazione politica di Evita. Per i successivi sette anni il Presidente poté fare affidamento sul suo carisma e le sue capacità. Nel 1957, dopo aver lottato a lungo con un cancro al collo dell’utero, Eva morì.

Non è difficile comprendere come mai si parli ancora di lei.

È facile paragonare la sua vita a quella dell’eroina di un romanzo d’appendice: origini illegittime e modeste che la portarono ad affrontare i pregiudizi dell’alta borghesia argentina, ma anche a schierarsi con le classi meno abbienti; una carriera nel mondo dello spettacolo con un contorno di relazioni più o meno torbide, testimonianza del suo innegabile fascino; l’aver sposato un uomo e una causa, dando fondo a tutte le sue risorse per sostenerli; l’essere morta prematuramente, sconfitta da un male moderno e “democratico”.

I descamisados – termine che vuol dire scamiciati e che viene usato per indicare i lavoratori che manifestarono davanti al palazzo presidenziale per il rientro di Perón dal confino – videro in Evita una paladina, un personaggio vicino alla politica che finalmente si mostrava interessata alle vicende del popolo.

La classe politica vedeva in Evita l’incarnazione del giustizialismo peronista.

Nonostante la vita coniugale subisse alti e bassi, Evita non mancò mai di collaborare allo sviluppo del programma di governo del Presidente e non perse mai di vista i temi sociali: creò la Fondazione che porta tutt’ora il suo nome, attraverso la quale si fece carico di diffondere istruzione e salute.

Il ramo femminile del Partido Justicialista – Partito Giustizialista (parola derivata dalla fusione di “giustizia” e “socialismo”) fondato dallo stesso Perón nel 1947 – riscosse con Evita il suo più grande successo ottenendo il suffragio universale: ai lavoratori che già nel 1946 avevano appoggiato Perón, nel 1951 si aggiunsero le donne.

Tuttavia non possiamo ignorare come gran parte degli impegni politici e sociali di Evita siano nati da impeti personali e da un orgoglio fuori dal comune.

La stessa Fondazione Eva Perón nacque perché le dame dell’Organizzazione di Beneficenza Argentina rifiutarono a Evita il ruolo di presidentessa, da sempre assegnato alla First Lady.

Anche dopo aver investito milioni di dollari della Fondazione in opere destinate a migliorare le condizioni sociali, sanitarie e culturali del popolo argentino Evita non guadagnò le simpatie dei molti esponenti dell’alta società argentina, per lo più contrari alla politica peronista, che la ritenevano un’arrivista, poco più di una prostituta, impegnata soltanto nell’affabulare il popolo.

Nemmeno dopo la sua morte ebbe pace: la sua salma fu più volte traslata e sepolta in diversi luoghi – anche in Italia – con un nome fittizio.

Da Joan Baez a Madonna, il cinema e la musica l’hanno ricordata e omaggiata. Spesso la si sente nominare insieme a Margaret Thatcher e Indira Gandhi e sempre quando si tratta di ricordare donne che hanno “portato i pantaloni”, amate per questo e contestate per lo stesso motivo.

Ma che significato ha, nell’Argentina moderna, la scelta di Evita Perón come simbolo dell’indipendenza? Per rispondere a questa domanda è necessario considerare una molteplicità di fattori economici, politici e sociali.

I circa quaranta milioni di abitanti, distribuiti sui quasi tre milioni di chilometri quadrati che costituiscono il territorio argentino, hanno alle spalle non solo il retaggio coloniale tipico dei paesi del Sud America, ma anche una situazione economica altalenante e spesso disastrosa: difficile dimenticare il tasso di inflazione nel 1983 pari al 3000% o il grande tracollo finanziario del 2001. Tutto questo nonostante la quantità di petrolio estratto – che rende l’Argentina indipendente sotto il profilo energetico – e le ingenti esportazioni di prodotti agricoli e alimentari evidenzino la grande ricchezza di risorse del paese.

La situazione politica argentina è sempre stata complessa e soggetta all’ingerenza delle forze militari, responsabili dell’epurazione di centinaia di oppositori del regime instaurato dal generale Jorge Raphael Videla nel 1976: il buio capitolo dei desaparecidos, che si concluse solo nel 1983, quando oltre 30mila dissidenti, di cui si era persa ogni traccia, furono dichiarati morti. Sempre nel 1983 il neo presidente Raúl Alfonsin, dell’Unión Civica Radical – Unione Civica Radicale, partito di centro-sinistra – annunciò l’inizio dei procedimenti giudiziari a carico dei militari responsabili della violazione dei diritti umani durante gli anni della dittatura.

Se consideriamo la storia dell’Argentina dal 1862, anno in cui diviene Nazione Argentina, possiamo contare trentadue governi provvisori e dodici dittature militari su un totale di cinquantuno legislature, dato sufficiente a comprendere la natura fragile dei governi costituiti.

Il 1983 è l’inizio di una serie di governi di sinistra che guideranno il paese sotto la bandiera del giustizialismo.

Questo successo del populismo peronista, che deve molto all’impegno e al carisma della stessa Evita, è da ricercarsi prevalentemente nei rapporti tra il peronismo e la classe operaia dovuti alla nascita di una nuova fascia sociale che affondava le proprie radici nella cultura rurale priva di ideali politici forti tali da impedire a questi “nuovi operai” di essere affascinati dalla figura piuttosto paternalistica di Perón, che per certi versi ricalcava il modello sociale mussoliniano, che lo stesso Presidente e sua moglie dichiararono in più occasioni di apprezzare.

Il populismo di Perón sembra quindi derivare dallo sfaldarsi dei normali flussi di commercio e dalla crisi del comparto agro-alimentare. Da questo la crescita del proletariato urbano che vede nella moglie del Presidente uno spirito affine, quel proletariato che ha fatto di Perón l’antesignano del populismo più moderno e spicciolo.

È una scelta colma di significati quella di riversare su Evita Perón un enorme carico simbolico. Alla luce degli sviluppi interni all’Argentina, l’immagine di Evita offre un esempio di abnegazione ai ruoli istituzionali e di attenzione verso tutti gli strati sociali che erano stati il cuore pulsante del giustizialismo.

Evita, simbolo e voce dell’indipendenza argentina: una chiara rivendicazione dell’equità del giustizialismo; una figura moderna soprattutto perché donna; un’immagine in cui forse gran parte dell’Argentina vorrebbe tornare a specchiarsi.

*Francesca Penza, dottoressa in Scienze della comunicazione, collabora con “Eurasia”

mercoledì 15 ottobre 2014

Alla fine ha vinto Marx.Siamo tutti uguali:individualisti e nichilisti...




di Marcello Veneziani

Marx ha vinto e vive con noi. Non è una boutade o un paradosso, è la realtà. Il marxismo separato dal comunismo -e la sua utopia scissa dalla sua profezia - è lo spirito del nostro tempo. Viviamo in piena epoca marxista. Non mi riferisco solo alla crisi economica presente né solo al fenomeno previsto da Marx ed ora effettivamente avverato della ricchezza concentrata in poche mani, con una minoranza sempre più ricca e ristretta e una maggioranza sempre più vasta e povera.

Dobbiamo rifare i conti con Marx, e non solo perché ci siamo formati in un’epoca - come scrive Dürrenmatt - in cui «essere marxisti era una specie di dovere» - un dovere che noi trasgredimmo. Ma soprattutto perché il marxismo impregna il nostro oggi. Scrive Marx nel Manifesto: «Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti». È la prefigurazione più precisa della nostra epoca. Il marxismo fu il più potente anatema scagliato contro Dio e il sacro, la patria e il radicamento, la famiglia e i legami con la tradizione; una teoria che si fece prassi pervasiva. Fu una deviazione la sua realizzazione in paesi premoderni, come la Russia e la Cina, la CAMBOGIA o Cuba. Contrariamente a quel che si pensa, il marxismo non si è realizzato nei paesi che hanno abbracciato il comunismo, dove invece ha fallito e ha resistito attraverso l’imposizione poliziesca e totalitaria; si è invece realizzato nel suo spirito laddove nacque e si rivolse, nell’Occidente del capitalismo avanzato.

Non scardinò il sistema capitalistico, ma fu l’assistente sociale e culturale nel passaggio dalla vecchia società cristiano-borghese al neocapitalismo nichilista E GLOBALE. La società dei consumi, dei desideri e dei mondi virtuali ha realizzato, nella libertà, il compito e la definizione che Marx dava del comunismo: «è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». L’utopia comunista è stata realizzata a livello planetario, ma sul piano individuale e non collettivo, come invece pensava Marx. Nel segno dell’individualismo di massa e non del comunismo e della sua abolizione dello Stato, della proprietà privata o delle diseguaglianze. Non sconcerti questa lettura individualistica di Marx. Nell’Ideologia tedesca, Marx dichiara che il fine supremo del comunismo «è la liberazione di ogni singolo individuo» dai limiti locali e nazionali, famigliari e religiosi, economici e proprietari. Il giovane Marx onora un solo santo nel suo calendario: Prometeo, l’individuo eroico e liberatore. Uno dei primi scopritori dell’essenza individualistica che si celava dentro la buccia collettivista di Marx fu Louis Dumont in Homo aequalis.

La società capitalistica globale ha realizzato le principali promesse del marxismo, seppur distorcendole: nella globalizzazione ha realizzato l’internazionalismo contro le patrie; nell’uniformità e nell’omologazione ha inverato l’uguaglianza e il livellamento universale; nel dominio globale del mercato ha riconosciuto il primato mondiale dell’economia posto da Marx; nell’ateismo pratico e nell’irreligione ha realizzato l’ateismo marxiano e la sua critica alla religione; nel primato dei rapporti materiali, pratici e utilitaristici rispetto ai valori spirituali, morali e tradizionali ha realizzato il materialismo marxiano; nella liberazione da ogni legame organico e naturale ha realizzato il prometeismo marxista nella sfera individuale; nella società libertina e permissiva ha inverato la liberazione marxiana dai vincoli famigliari e matrimoniali; e come Marx voleva, ha realizzato il primato della prassi sul pensiero. Il marxismo, fallito come apparato repressivo a Est, si è realizzato come radicalismo permissivo a Occidente, separandosi dal comunismo anticapitalista, messianico e profetico. E ora si realizza anche nell’Estremo Oriente, in Cina e Corea, nella forma del mao-capitalismo, il comunismo liberista.

La spinta ideologica del marxismo si condensa in forma di mentalità; la sua avanguardia intellettuale assume il controllo del potere culturale, come una setta giacobina che vigila sulla conformità al politically correct; mentre nei rapporti sociali ed economici, il marxismo si conforma alla società globale e neocapitalistica di massa. Di cui è stato in definitiva la Guardia Rossa, a presidio della rimozione della Tradizione. Lo spirito del marxismo si realizza in Occidente, facendosi ideologicamente radical, economicamente liberal. Ha perso i toni violenti del marxismo - la cruenta lotta di classe e la dittatura del proletariato - lasciati alle rivoluzioni del Terzo Mondo e frange estreme d’Occidente; ma con essi ha perso anche l’anelito alla giustizia sociale e il radicamento nel proletariato e nella classe operaia. La società di massa dell’Occidente ha portato a compimento la previsione di Marx: la proletarizzazione dei ceti medi ma dopo l’imborghesimento del proletariato. La borghesia si universalizza come stile di vita e modello, ma il suo allargamento coincide col suo abbassamento di status socio-economico al rango proletario.

Quel che Marx non aveva capito era che il disincanto, la secolarizzazione, l’ateismo non avrebbero risparmiato nemmeno il comunismo e la sua vena escatologica e profetica. Arrivo a dire che il comunismo dell’est è stato sconfitto dal marxismo occidentale, col suo materialismo pratico, la sua irreligione e il suo primato dell’economia che hanno sradicato più che nelle società comuniste il seme vitale dei principi e degli assetti tradizionali. Non a caso i marxisti d’Occidente si sono convertiti allo spirito radical e liberal, all’individualismo, al mercato e alla liberazione sessuale, dismettendo la liberazione sociale. La lotta di classe ha ceduto alla lotta di bioclasse nel nome dell’antisessismo e l’antirazzismo. Anche la difesa egualitaria delle masse di poveri ha ceduto alla tutela prioritaria dei «diversi».

Il marxismo resta attivo sotto falso nome e falsa identità, quasi in forma transgenica, come spirito dissolutivo della realtà e del suo senso, del sacro e del fondamento, dei principi e delle strutture su cui si è fondata la società tradizionale. La fine del marxismo, a lungo enunciata, è un caso di morte apparente.

lunedì 13 ottobre 2014

Non uomini ma gregge...

 di Diego Fusaro
La disperazione generale si traduce in condizione religiosa da cui si attende la salvezza. Anziché lottare per rovesciare la condizione che necessita dello sfruttamento e della permanente mortificazione della dignità umana, gli offesi del pianeta, in preda allo stesso cinismo dei dominanti, cercano in ogni modo un’inclusione entro i confini blindati del regime dell’alienazione planetaria.

Li abbiamo visti, pochi giorni fa. Li abbiamo visti perché, come sempre, clero giornalistico e circo mediatico hanno saturato lo spazio dell’informazione con la notizia. Alludo al gregge amorfo di ultimi uomini, adepti della religione della forma MERCE, in coda per acquistare l’i-Phone 6. In coda per ore, in attesa di entrare in possesso dell’agognata merce, ultima frontiera della reificazione in atto.
È quella che, nel mio lavoro “Il futuro è nostro” (Bompiani, 2014), ho qualificato nei termini di “religione della MERCE perfetta”. Di tale religione si sostanzia la civiltà dei consumi con il suo costante rilancio dei desideri gravidi di alienazione: ne scaturiscono scene di ordinaria postmodernità, quale quella del gregge amorfo degli ultimi uomini in coda per l’I-Phone 6. Tutte le passioni individuali vengono depoliticizzate, anestetizzate e impegnate nel culto reificato del raggiungimento sempre differito della merce perfetta, il meglio che il capitalismo possa vendere ai suoi sudditi coatti. Consumo, ergo sum: è questo il macabro motto dell’uomo contemporaneo, rovesciamento dell’adagio cartesiano con cui si era inaugurata la civiltà moderna.
La svolta epocale introdotta dall’avvento della religione del CAPITALE si evince anche dal fatto che la salvezza dall’angoscia e dal dolore di esistere cessa di essere perseguita tramite la via delle religioni tradizionali, come fuga mundi. La sola salvezza possibile, nel tempo dell’Apocalisse economica e del “diluvio universale” della LIQUIDITÀglobale, diventa il consumo smisurato e, dunque, la perdita di sé nell’insensatezza divenuta mondo. Essa pone in essere quella schiavitù del soggetto al potere assoluto dell’oggetto. L’astuzia della produzione risiede nel generare l’illusione che nell’oggetto-merce riposi la possibile salvezza e, insieme, nel fare sì che esso sia caratterizzato da una strutturale vacuità di fondo: l’oggetto-merce si dissolve rapidamente, nell’atto stesso con cui viene consumato. All’I-Phone 3, segue il 4, e poi il 5, il 6, secondo le logiche illogiche del cattivo infinito del fanatismo dell’economia.
In tale maniera, nell’ordine della religione del capitale l’illusione di salvezza è puntualmente vanificata dalla vacuità dell’oggetto e, insieme, risorge sempre da capo uguale a se stessa, in una danse macabre di merci che si estinguono nel consumo per poi risorgere sempre di nuovo.
È su questo circuito perverso che si regge il segreto della liturgia consumistica come ricerca costante di salvezza in un oggetto che continuamente sparisce nel consumo e sempre riappare nella circolazione. L’oggetto-merce, anziché salvare, continua a generare ex novo la circolarità funesta che prometteva di spezzare. Per questo, il godimento che il discorso del capitalista propina è senza soddisfazione.
E mentre questo incantesimo tiene feticisticamente paralizzata l’umanità, in balia dei prodotti della sua mano, la domanda da porsi resa sempre la stessa: perché, anziché battersi per la propria emancipazione, gli uomini lottano per la loro schiavitù? Perché, anziché combattere per rovesciare il sistema dell’alienazione e dello sfruttamento planetari, essi si battono in difesa delle loro stesse catene? Perché, in altri termini, preferiscono la schiavitù alla libertà? Stiamo vivendo – superfluo ricordarlo – nella SOCIETÀ più diseguale della storia: è la società in cui il differenziale di ricchezza e di potere è sempre più marcato e ha per condizione la necessaria miseria di una parte dell’umanità. In questo scenario, ogni pancia vuota dovrebbe costituire un argomento contro il mos oeconomicus egemonico: e, invece, anche al netto dell’ultima sconvolgente crisi, si assiste alla persistenza generalizzata di una folle fede – spesso anche da parte di chi ne trae solo svantaggi – nel sistema dell’irrazionalità dilagante elevata asummum bonum dalle omelie neoliberiste. La disperazione generale si traduce in condizione religiosa da cui si attende la salvezza. Anziché lottare per rovesciare la condizione che necessita dello sfruttamento e della permanente mortificazione della dignità umana, gli offesi del pianeta, in preda allo stesso cinismo dei dominanti, cercano in ogni modo un’inclusione entro i confini blindati del regime dell’alienazione planetaria. Anziché battersi per rovesciare il sistema che li rende sfruttati e disoccupati, alienati e precari, preferiscono mettersi placidamente in coda per acquistare l’I-Phone 6, il meglio che la civiltà dei consumi possa vendere loro.

venerdì 10 ottobre 2014

Veneziani: “Non è la moneta a fare l’Europa”...

Marcello_Veneziani
di Emanuele Ricucci (Barbadillo.it)

Marcello Veneziani, di che salute gode l’Europa, soprattutto alla luce dei fatti che coinvolgono l’asse Russia-Ucraina-Usa, tra sanzioni ed affari, all’alba di quella che potrebbe essere, il condizionale è d’obbligo, una nuova, possibile guerra fredda?
L’Europa non ha una visione strategica del mondo e procede tra cieche convenienze di corto respiro o interessi finanziari che prescindono da interessi popolari, egoismi ed egemonie nazionali che danneggiano altri paesi europei… Lo si vide con la primavera araba, con le crisi in medio oriente, con l’immigrazione, lo si vede con la Russia…
Dai Baschi ai Catalani, dai Bretoni alla Corsica, dai Tirolesi ai Veneti, passando per la Sardegna, dai Fiamminghi alla Scozia, ultima in ordine cronologico ed altri. Si sogna una nuova nazione nella  nazione, incastonata, a sua volta, in una sovranazionalità sempre maggiore ed in una sovranità propria, sempre più assottigliata e ristretta.  Sono segnali che l’Europa deve cogliere o rimangono capricci secessionisti con il miraggio del ritorno a proprie visioni economiche e proprie regole, ad una autodeterminazione pura?
Reputo importante la difesa delle identità e delle comunità locali e nazionali ma non riesco a vederle che all’interno di un sistema di cerchi concentrici in cui la patria locale ‘ dentro la patria regionale, che è dentro la patria nazionale, che è dentro la patria europea… E’ assurdo sognare lo smembramento, in forma di secessione, non porta da nessuna parte e rende ancora più fragile la difesa dai nemici interni e dai poteri multinazionali interni.
Si può parlare ancora di Europa Nazione o stiamo transitando verso la fine degli stati nazionali immaginati e concretizzatisi negli ultimi due secoli?
L’Europa nazione era il sogno della gioventù nazionale e rivoluzionaria di destra ma non è mai stato il progetto europeo; come l’Europa delle patrie sognata da de Gaulle… Ma il fallimento politico, culturale e popolare dell’Europa è la dimostrazione che la strada seguita era sbagliata, non è l’economia, non è la moneta che può fare l’Europa…
Dove corre l’Europa, verso un blocco completo, compatto, definitivo o ad un ritorno verso il suo medioevo costellato di stati, regni e granducati? A suo avviso, potrebbe configurarsi questa possibilità?
Sono possibili più esiti, ma allo stato attuale non mi sembra probabile l’autoscioglimento dell’Europa. Il problema è fare un deciso passo avanti o un deciso passo indietro e non restare in mezzo al guado: ovvero o nasce un’Europa politica, unita sul piano militare e strategico, capace di una sua politica estera e in grado di fronteggiare la colonizzazione finanziaria, la concorrenza asiatica e l’immigrazione selvaggia, oppure meglio tornare alle realtà nazionali.
Patrick Buchanan, uno dei padri del paleoconservatorismo americano, di per sé molto affine al nazional-conservatorismo europeo, afferma in suo recente articolo:” La decomposizione delle nazioni della vecchia Europa è il trionfo del tribalismo sul transnazionalismo. Il richiamo del sangue, la storia, la fede, la cultura e la memoria sta vincendo la lotta contro l’economismo, l’ideologia materialista occidentale che sostiene che il desiderio di denaro e delle cose è ciò che motiva in definitiva l’umanità”. E’ d’accordo con Buchanan?
Non ha torto Buchanan. Quando si trascurano i bisogni spirituali, simbolici e ideali di un popolo da un verso si lascia incontrastato il dominio del materialismo e dall’altro si eccita una reazione selvaggia, un’esplosione incontrollata di sentimenti repressi che poi dà luogo a forme radicali, estreme e fanatiche
Su questa base, potrebbe iniziare a montare un sentimento ed una volontà di frazionamento auto protettivo delle identità e delle culture, di restaurazione dei dettami originari, seppur ammodernati, delle colonne su cui si fondano le civiltà europee? Che si inizi ad essere fieri, in questo grande Villaggio Globale, di essere o tornare ad essere una minoranza che salvaguarda se stessa ed interpreta l’avvenire  secondo i propri schemi, le proprie peculiarità, le proprie visioni?
La difesa delle identità non va però concepita come una chiusura a contesti più ampi. Bisogna saper progettare l’idea di una comunità aperta, cioè legata alle proprie radici, identità e tradizioni ma non chiusa al mondo e alle diversità, reclusa e ostile rispetto a ogni altra differenza.
Datosi che la sovranità di un popolo nella sua terra costituisce base fondante per la definizione stessa di “stato-nazione”, lo spirito sovranazionale Europeo, sempre più stringente, che si manifesta nelle strutture e nelle scelte politiche ed ancor più in quelle economiche, potrebbe contribuire al frazionamento nazionale del Vecchio Continente?
Io non vedo “lo spirito sovranazionale europeo”, vedo poteri sovranazionali che nel nome astratto dell’Europa e del mercato, mortificano le realtà locali e nazionali e in questo mondo rischiano di alimentare frustrazioni fino a provocare reazioni imprevedibili…
Qquale indirizzo dovrebbe seguire, sempre su questa scia di considerazioni, la contemporanea destra Europea? Seguire una linea di tutela “tradizionale”, quindi sostenere un blocco Europeo fondato su dettami culturali definiti, identitari, legati alle radici, alla memoria del Vecchio Continente o dovrebbe essere di rottura coi vecchi schemi, accogliendo di buon occhio questa decomposizione come vera ed innovativa forma di salvaguardia delle integrità culturali e nazionali?
Ribadisco quel che ho detto agli esordi, a proposito di un’Europa dei cerchi concentrici. La via da seguire è concepire l’Europa come una realtà sinfonica, armoniosa nelle sue differenze, che sappia integrare e non dis-integrare le patrie locali e nazionali in un’entità sovraordinata. Una specie di piramide che non cancella né deprime le sue basi ma che poi raggiunge la sua sintesi in alto. Diversità in basso, unità in alto. Un arcipelago di patrie che animano una civiltà.