sabato 30 marzo 2013

LIBERIAMO I MARO' E TORNIAMO AD ESSERE NAZIONE!



La faccenda dei due marò, dal primo giorno fino ad oggi, ha mostrato senza mezzi termini l’inadeguatezza del governo Monti, che ha calpestato la dignità nazionale del nostro paese rendendolo una caricatura della peggiore inefficienza burocratica.

Il ritratto puntuale e svilente di un’Italietta asservita, incapace di alzare la testa, piegata agli interessi economici e  inerme dinanzi al silenzio dell’Europa e della Nato. Una vicenda iniziata accettando il sequestro di due nostri soldati, accusati di un crimine - sul quale si nutrono forti dubbi – che sarebbe avvenuto in acque internazionali e proseguita con una fallimentare opera diplomatica, fatta di tentennamenti, annunci disattesi, presunte pene di morte, carcerazione, ricatti economici, pressioni, rientro a casa e successivo ritorno in India, dimissioni, incapacità di comunicazione tra i vari organi di governo.

La nostra Italia è un’altra. E’ un paese fiero, capace di camminare a testa alta. E’ una Comunità Nazionale che non lascia indietro nessuno. E’ una Nazione in grado di assumersi delle responsabilità, di difendere una credibilità, di riconquistare una dignità perduta. La nostra Italia non abbandona i propri soldati, ma li difende. Senza paura.

Tante Comunità, ma una sola voce:
LIBERIAMO I NOSTRI MARO’. TORNIAMO AD ESSERE NAZIONE.

CASAGGI’ FIRENZE, NES ITALIA, LABORATORIO ASLAN, AREZZOZERO, CASAGGI’ MILAZZO, SPAZIO HELIOS, CASAGGI’ CAGLIARI, RONIN PISA, CASAGGI’ VALLE PELIGNA, 
SUR LES MURS PISTOIA, CASAGGI’ SASSARI, CASAGGI’ EMPOLI, CASAGGI’ VALDICHIANA, CASAGGI’ GROSSETO, NUCLEO PRATESE, CASAGGI’ VERSILIA, 
LA CITTA’ NUOVA MASSA, TRISKELYS SIENA

giovedì 28 marzo 2013

Bersagli seduti...


di Mario Michele Merlino (ereticamente.net)
Nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941 il sommergibile italiano Scirè, comandato dal Tenente di Vascello MOVM Junio Valerio Borghese, si porta all’imboccatura del porto di Alessandria, alla cui fonda sono ancorate due corrazzate inglesi ed altro naviglio militare e mercantile. Tre ‘maiali’ con due piloti ciascuno superano la rete d’acciaio a protezione ed infliggono la più pesante sconfitta nel Mediterraneo alla flotta britannica. Sei piloti, sei medaglie d’oro. La settima al sommergibile. Una impresa entrata nella leggenda, invidiata, ineguagliata. Il principe Borghese la descrive in Decima Flottiglia Mas, libro entrato in adozione e di studio nelle Accademie militari di gran parte degli Stati nel mondo. Non in Italia, va da sé. Quando a Yuri Gagarin, il primo astronauta sovietico, fu chiesto quale libro italiano conoscesse, rispose senza esitazione ‘quello del Comandante Borghese’. Con imbarazzo dei cronisti accompagnatori autorità.
Libro che si conclude, dopo aver ricordato come avesse appreso casualmente, accendendo la radio ‘dalla gracchiante voce’, dell’armistizio: ‘Nessuno dei miei numerosi superiori diretti o indiretti aveva ritenuto necessario darmene, sia pure riservatamente, preventiva comunicazione. Mi sembrò strano’ (E con questa espressione il libro tutto diviene poesia, come gli riconosceva il poeta americano e fra i più grandi del Novecento Ezra Pound).
La Marina italiana, nell’anniversario di quell’impresa, sessantatre anni dopo, ne ha voluto farne perenne ricordo dando il nome di Scirè, appunto, ad un nuovo sommergibile. Madrina del varo Elisabetta, figlia di Emilio Bianchi, allora novantaduenne ed ultimo ancora in vita di quella pattuglia di ardimentosi. Per l’occasione, con una lettera alla stampa, l’Ammiraglio di Squadra Sergio Biraghi, Capo di Stato Maggiore della Marina, ha ricordato l’avvenimento. Ebbene: accanto a tutta una serie di proposizioni di dubbia interpretazione, non una volta ha citato il Comandante Borghese che di quella impresa fu animatore e guida. Timoroso, forse, di ricordare chi, dopo l’8 settembre del ’43, volle mantenere alto sul pennone della caserma di San Bartolomeo, a La Spezia, quello stesso tricolore frettolosamente ammainato dal re e il suo sodale Pietro Badoglio in fuga. Nessuna novità, si badi bene, nessuno scandalo. L’Ammiraglio Biraghi fa il suo mestiere, in un Paese dove la memoria collettiva è monca e, di conseguenza, anche le Forze Armate rappresentano questa divisione. (Non tornerò su la mia lezione alla scuola di fanteria a Cesano).
Mi piace, però, a commento, raccontare questo episodio, raccolto dalla viva voce del Comandante. Anni dopo la guerra egli e sua moglie, la principessa russa Donna Daria, durante un viaggio in Inghilterra, furono invitati nell’esclusivo Club dell’Ammiragliato inglese. Al termine della cena l’Ammiraglio Cunningham, presidente del Club e già Comandante della flotta inglese dal 1940 al 1942 nel Mediterraneo, levò il bicchiere per il tradizionale brindisi all’ospite. E aggiungendo queste testuali parole: ‘Comandante Borghese, quando sapevamo che Lei e i Suoi uomini eravate in mare, ci sentivamo dei sitting ducks’ (dei bersagli seduti che, in gergo della marina equivale ad essere sotto tiro e senza difesa alcuna).
Vorrei sottolineare che, certo, fu gesto di cortesia, ma anche – e soprattutto – un atto di sincero riconoscimento al valore e al merito verso l’avversario d’allora. E Cunningham non poteva ignorare come Borghese avesse combattuto anche dopo l’armistizio, nella RSI, in nome della fedeltà alla parola data e all’Onore, che divenne il motto della Decima, accanto all’alleato tedesco. Un atto di cortesia; un gesto di nobile cavalleria tra vecchi avversari. Di stile, appunto, di quello stile che, con la sua sciocca omissione, è mancato all’Ammiraglio Sergio Biraghi.
Episodio questo, nel suo complesso, che m’è tornato a mente ascoltando (anch’io casualmente) la radio l’altro giorno. Alla Camera parlano della vergognosa vicenda dei due marò, La Torre e Girone, il Ministro degli Esteri Terzi e quello della Difesa l’Ammiraglio Di Paola (quanti, purtroppo, ammiragli abbiamo avuto… a cominciare da quel Carlo Pellion di Persano che si dimostrò incompetente e imbelle nella battaglia di Lissa il 20 luglio del 1866, passando per Franco Maugeri che, al termine del conflitto, venne decorato di alta onorificenza USA per il contributo fornito alla causa degli alleati). Quest’ultimo, in contrasto con il dimissionario Terzi, dichiara di restare sulla nave fino all’ultimo…
Ed io penso a quegli ufficiali, questi sì eredi e testimoni d’antiche virtù marinaresche, che vollero e seppero restare sulla loro nave e con essa immergersi nelle acque mortali di una notte senza stelle. Penso, ad esempio, al comandante del sommergibile Tazzoli, Carlo Fecia di Cossato, che per fedeltà al Re aveva obbedito e portata la sua nuova unità, l’avviso-scorta Aliseo, a Malta dopo l’8 settembre. Resosi conto, però, di essere stato ‘indegnamente’ tradito e d’aver commesso ‘un gesto ignobile’, si suicidava a Napoli il 28 agosto ’44. ‘Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto è più con loro che con i traditori e i ladruncoli che ci circondano’(dalla lettera indirizzata alla madre e datata il 21 agosto). Quei traditori e quei ladruncoli che abbiamo imparato a conoscere e disprezzare fuori e dentro le istituzioni…

sabato 23 marzo 2013

La società dei “pueri aetherni”: la deresponsabilizzazione ai tempi della crisi


“Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane” Italo Calvino
Gioventù che vive di studio e di sogni, di inadeguatezza e insoddisfazione. Quella gioventù simbolo di ideali, lotta per conquistarsi un posto nel mondo, ma al contempo quella buona dose di spensieratezza senz’altro assente negli anni più maturi, sembra oggi durare più a lungo che un tempo. Anche se non fisiologicamente, vari fattori stanno contribuendo a spostare sempre più in avanti l’asse di demarcazione tra gioventù e maturità, in riferimento a quello che caratterizza un vero e proprio status etico, economico,  sociale, degli individui della nostra società.
Viene da pensare alla sindrome, formulata dallo Junghiano Hillman,  del puer aethernus, più nota come sindrome di Peter Pan, che affligge chi rifiuta categoricamente di entrare in quel mondo degli adulti considerato grigio e ostico e anacronisticamente, si sforza di restare bambino, in una sorta di infantilismo forzato in un corpo all’ apparenza maturo. Il puer preferisce così rinchiudersi nella gabbia dorata e artificiale  di una prolungata fanciullezza, in una sorta di Eden in cui regna un ottimismo che altro non è che illusione, negazione della realtà. In questo modo, inconsciamente, il Peter Pan di turno si fa scudo dalla vita e dal dolore, dalle responsabilità, dalla maturità che è crescita ma anche perdita di innocenza. Precludendosi il passaggio obbligato da infanzia a maturità, non presenta possibilità di evoluzione, ma solo di degenerazione. La sua eterna gioventù si rompe quando egli precipita in quello stato definito da Hillman senex -esattamente opposto a quello del puer- in cui precipita nel materialismo più nero, nella disillusione, nella fragilità dello scoprire quanto sia amaro lo scontro con la realtà.
“Per forza il puer è debole sulla terra, egli non appartiene alla terra. (…) Egli non è destinato a camminare, ma  a volare.”
J.Hillman
Davvero la nostra società è costituita da pueri eterni? Sono davvero solo “ragazzi un po’ invecchiati” i trentacinquenni/quarantenni di oggi, quelli che magari si incontrano il sabato sera nei locali “giovani” delle città, quelli che si atteggiano a improbabili gran viveur confusi qua e là tra ventenni, convincendosi di far parte di quella massa informe  e giovane? Sarà la crisi dei valori, il conformismo che per forza d’inerzia propaga la vuotezza di un’età; eppure la questione è più complessa di come appare.
Che differenza c’è oggi, tra un ventenne e un quarantenne di media cultura e di media condizione sociale? L’uno studia, l’altro ha studiato. Entrambi, per riprendere l’esempio, si possono vedere in locali il sabato sera, intenti a distrarsi. Ma un ventenne forse può alienarsi almeno per una sera, può far finta di dimenticare e far finta di trovarsi, come nel Candido di Voltaire “nel migliore dei mondi possibili”, può concedersi il lusso di accantonare tutto e lasciare  spazio al divertimento e alla follia, perché il ventenne fa questo oggi e lo faceva ieri. Ma nella società di ieri un quarantenne era sposato, era padre di famiglia, era impiegato o libero professionista, aveva, pur con i problemi di sempre, la propria vita in mano e non pensava di certo a distrazioni di una non troppo remota gioventù. Questa deresponsabilizzazione che investe molti elementi della generazione precedente alla nostra; questa incapacità di essere qualcuno al mondo; questa non localizzazione all’ interno della società; la disoccupazione dilagante, la non raggiunta indipendenza totale talvolta anche in età avanzata, sembra così sfociare in quello stigmatizzato divertissement – dal latino de vertere, cioè “deviare, allontanarsi da qualcosa”.
L’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. 
Pascal
Ma perché, allontanarsi dalle proprie responsabilità?
Questo apparente disimpegno, non dilaga soltanto per conformismo e inerzia. Forse non si tratta solo di voler essere giovani per forza, non si parla solo di immaturità. Non si tratta di volersi allontanare dalle proprie responsabilità, quanto di non possederle affatto e di comportarsi perciò, di conseguenza. Ecco cosa affligge queste vittime di una società che costringe all’ immaturità perché non fornisce mezzi per maturare i propri obiettivi, la propria professionalità e dunque la propria condizione economica, la propria vita di singolo e di componente della famiglia. Molti sono costretti a rimanere eterni coinquilini dei propri genitori, eterni figli, eterni studenti o laureati in cerca di ventura. Se vero è che il lavoro nobilita l’uomo, è forse l’assenza di impiego che relega l’uomo moderno allo stadio primitivo, incapace di varcare la soglia della maturità della propria vita. Non si tratta allora di prendere in considerazione eterni immaturi che rifuggono le proprie responsabilità, quanto di individui che ne sono totalmente privi. E’ quello che potrebbe configurarsi tra gli altri motivi come conseguenza degenerativa  dell’immobilismo, dell’insufficienza di opportunità, di un abbassamento di livello quantitativo di personale richiesto e innalzamento del livello di competenze oggettivamente in contro tendenza ad un sistema universitario che non forma eccellenze ma sforna dottori e dottorini che contribuiscono, con la loro mancata collocazione, a far salire gli indici di disoccupazione … mentre il futuro, è sempre più lontano.

mercoledì 20 marzo 2013

Ma che bel mondo di merda che vi siete costruiti...

A Livorno pochi giorni fa 4 paracadutisti sono stati pestati: 30 teppistelli dei centri sociali di sinistra li hanno notati fuori da un locale e li hanno aggrediti. 30 contro 4. Un gesto vile e vigliacco. I militari sono stati colpiti alle spalle -senza alcuna possibilità di difendersi - con l'accusa di essere fascisti. Rieccola la parolina magica: Fascista!
Un po' di anni fa i professionisti della democrazia - gli stessi che peró contemporaneamente riuscivano a vedere nell'URSS e nella Cina "del controllo delle nascite" il Paradiso Terrestre (sic!) - dicevano che "uccidere un Fascista non è un reato". Erano dei sicari di una giustizia comunista fai-da-te. Boia al servizio della monarchia anti-fascista. In nome di questa falsa democrazia persero la vita ragazzi giovani che amavano l'Italia. Meriterebbero di essere ricordati tutti quanti, ma ci limitiamo a ricordare il pisano Vittorio Ferri; ammazzato e linciato quando aveva soltanto 19 anni.
L'odio profondo nei confronti del nemico è stata una costante nella vita politica della nostra Nazione -specialmente nelle fila dei militanti della sinistra extra-parlamentare. Così anche l'aggressione accaduta a Livorno è significativa per descrivere l'atteggiamento di chi crede di dover abbattere il "nemico", invece di confrontarsi. L'attacco subìto dai paracadutisti, oltre ad essere vergognoso e vile, è del tutto e completamente immotivato; infatti i 4 militari sono stati colpiti unicamente perchè appartenenti all'esercito. I militari, secondo i beceri companeros, hanno un'unica grande colpa, quella di rappresentare lo Stato e difenderlo. Cosa c'è di male? Assolutamente nulla, purtroppo i soliti professoroni dell'anti-fascismo (sempre giustificati - o meglio coperti- da politici, giornalisti, intellettuali) hanno fatto dell'anti-nazionalismo il loro cavallo di battaglia. Così noi ci esaltiamo davanti al Tricolore e loro lo bruciano. Noi ci commuoviamo di fronte alla bellezza dell'Italia e loro invece si vergognano delle loro radici e della loro appartenenza. In questo senso l'aggressione vile nei confronti dei militari deve essere letta come un attacco a tutti noi che l'Italia l'amiamo. Il pestaggio subìto dai 4 militari non è che il pavido sfogo di chi crede che per fare funzionare la sua amata democrazia debbano essere prima eliminati tutti coloro che non si omologano al pensiero dominante. Più "crazia" che "demos", direi..
Una vecchia canzone descriveva questi anti-italiani come "un branco di iene" che ha sempre avuto come simbolo un uomo che muore; evidentemente non hanno ancora capito che il nostro amor patrio non puó finire mai: gli uomini passano, ma le idee restano. Onore ai nostri Parà che tutti i giorni si sacrificano per onorare il Tricolore.

martedì 19 marzo 2013

Quel Vate per tutti e per nessuno


Gabriele D'Annunzio fu il più grandioso nocchiero che traghettò l'Italia dall'Ottocento al Novecento, dalla piccola borghesia di provincia alla nazionalizzazione delle masse, dalla Belle Époque alla guerra, dalla galanteria all'eros, dalla morale all'estetica, dal cavallo al velivolo e al sommergibile, dal culto romantico del genio e dell'eroe al culto moderno del superuomo, ardito trascinatore delle folle.
Restano in lui vivi i tratti del secolo in cui nacque, quel 12 marzo di 150 anni fa, e restano le tracce di quell'Italia provinciale che sognava il passaggio dalla piccola borghesia alla nobiltà imperiale di Roma o di Parigi, dal decoro alla gloria. D'Annunzio trasfigura quelle origini borghesi e ottocentesche nella modernità impetuosa e guerriera.
«In Italia ci sono soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini, D'Annunzio e Marinetti», disse il massimo intenditore di rivoluzioni, Vladimir Illich Ulianov, detto Lenin. Era finita da poco la prima guerra mondiale e il leader del comunismo mondiale aveva ricevuto a Mosca una delegazione socialista italiana. Ma nessuno dei tre indicati da Lenin era socialista e tutti e tre potevano definirsi, in varia misura, figli di Nietzsche più che di Marx. Ma gli altri due erano poeti e artisti... Questo spiega perché fu Mussolini a fare quella (mezza) rivoluzione. 
D'Annunzio fu il più famoso anticipatore del fascismo, il suo «san Giovanni Battista». Ma ne fu anche il più grande dissidente. Non si comprende il fascismo, l'estetizzazione della politica, il rituale fascista, il saluto romano, il culto della bella morte e la retorica militare e cameratesca, senza D'Annunzio. Non si può capire la sintesi tra radicalismo di destra e radicalismo di sinistra, tra sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo eroico, senza passare per l'opera, i discorsi e la vita di D'Annunzio (che fu parlamentare di destra, poi passò a sinistra - vado verso la vita - e non fu rieletto).
La fusione tra paganesimo e cristianesimo della liturgia fascista è di stampo dannunziano; l'eja eja alalà, il discorso dal balcone, il superuomo affacciato sulle folle, gli arditi, il mito del duce (che D'Annunzio rilanciò nel 1912 in un saggio su Cola di Rienzo). D'Annunzio crea l'habitat in cui prende corpo la mitologia fascista e da cui attinge la sua maggiore fascinazione rispetto alla rivoluzione socialista. Il mito della guerra attraversa tutta l'epoca e permea le intelligenze più vive del tempo; ma D'Annunzio, tra le varie anime letterarie e militari che alimentano il fascismo, è quello che le incarna di più. Stretto è pure il nesso tra fiumanesimo dannunziano e sansepolcrismo fascista; e tracce di D'Annunzio si ritrovano nell'estremo fascismo di Salò, che risente non solo geograficamente della suggestione estetico-eroico-mortuaria del Vittoriale, ormai disabitato del suo capriccioso signore, morto nel '38. Certo, il fascismo fu anche molto altro, e D'Annunzio fu sicuramente molte altre cose, oltre che precursore del fascismo. Di estetica politica in D'Annunzio parlò Thomas Mann, poi Hofmannsthal che ne rimase incantato; ma sarà Walter Benjamin a cogliere l'estetizzazione della politica poi ereditata dal fascismo. Il suo conterraneo abruzzese Gioacchino Volpe, in un saggio sul D'Annunzio politico e combattente, lo considerò creatore di poesia totale, intesa come «arte eroica al servizio della nazione».
Il rapporto fra D'Annunzio e il fascismo-regime fu controverso, fatto di slanci e prove di amicizia ma anche di netto dissenso, a volte taciuto, a volte filtrato, fino alla tentazione antifascista. Che in alcuni dannunziani prese corpo con l'esperienza breve di Alleanza Nazionale (corsi e ricorsi onomastici). Il rapporto fra D'Annunzio e il regime non fu diverso da quello di un altro esteta e combattente famoso, Ernst Jünger, rispetto al nazismo. Jünger, più di D'Annunzio, non amò gli aspetti volgari e torbidi del nazismo, detestò Hitler e partecipò perfino alla congiura anti-hitleriana; ma la sua fama di precursore e scrittore di guerra, il suo prestigio come eroe di guerra (aveva avuto l'onorificenza militare massima) fermarono Hitler dal proposito di punirlo. O, se vogliamo cambiar tempo, luogo e versante ideologico, lo stesso rapporto di amore e timore tra il Vate e il Duce ci fu tra Castro e Che Guevara, anch'egli come D'Annunzio appellato «il Comandante»: la sua morte prematura fu una salvezza per Castro che diventò amministratore delegato del Mito e si liberò di un ingombrante Compagno scontento. Così accadde con D'Annunzio.
Ma l'ultimo D'Annunzio sostenne il fascismo dopo l'impresa africana e le sanzioni: i copiosi doni alla patria, la retorica della guerra che riaffiorava sulle sue labbra, la missione civilizzatrice italiana in Africa, la polemica con la «perfida Albione», il dono alla Patria della croce militare avuta dalla corona britannica. Nel '37 accettò di presiedere l'Accademia d'Italia. Non fu solo ipocrita il carteggio cameratesco e a tratti pomposamente cordiale con Mussolini. L'ultimo D'Annunzio non condivise l'alleanza con la Germania, non solo perché estraneo al razzismo e al fanatismo hitleriano, ma anche perché vedeva in Parigi la grande sorella latina e nei teutonici i grandi nemici dell'Italia irredenta. E in questo era perfettamente in sintonia con Mussolini, anch'egli di formazione filofrancese e antitedesco fino alle Sanzioni.
D'Annunzio non fu mai fascista e tantomeno antifascista, ma restò sempre dannunziano, egli amava se stesso e la propria opera sopra ogni cosa, non si può irregimentare in nessun regime ma solo farsi adorare, e non si sente intellettuale organico a nessun partito. La sua vera aspirazione fu elevare la vita al rango di opera d'arte. Il suo dissenso dal regime, notò Volpe, nasceva dalla sua riduzione da protagonista a testimone della Nuova Italia. Nutriva il polemico rimpianto che la rivoluzione italiana avrebbe dovuto farla lui. La sua impresa fiumana fu l'antefatto del Sessantotto: vitalismo, trasgressione e immaginazione al potere furono celebrati là, nella prima rivoluzione estetica. Quei ragazzi dai capelli lunghi di mezzo secolo dopo erano gli inconsapevoli nipoti di quelle teste pelate: D'Annunzio, Marinetti, Mussolini (e Lenin). D'Annunzio visse più vite in una sola e più epoche in una vita. Servì nella religione della parola e della vita, della patria e della bellezza, un solo dio: Imago sui, l'immagine di sé.
di Marcello Veneziani (ilgiornale.it)

giovedì 14 marzo 2013

Il caso. Perché quattro parà vittime di una brutale aggressione a Livorno non fanno notizia


di Michele De Feudis (Barbadillo)

Aggrediti e pestati “perché militari”, fuori ad una discoteca di Livorno, mentre erano con le fidanzate. Una vigliaccata condita dalle grida “fascisti, fascisti”. Nell’Italia buonista di Saviano-Fazio la brutale aggressione subita da quattro carabinieri paracadutisti del Tuscania non fa notizia. Repubblica dedica all’avvenimento cinque righe in cronaca. Gli altri grandi giornali nemmeno quelle.

Questa la ricostruzione delle forze dell’ordine intervenute nei pressi della discoteca livornese “The Cage”: i quattro sono stati aggrediti perché militati “dopo che uno di loro, livornese, era stato riconosciuto all’interno da un altro frequentatore del locale”. L’aggressione, hanno spiegato gli investigatori, è avvenuta all’esterno del locale: almeno 30 persone hanno accerchiato i 4 militari, che erano in compagnia delle loro fidanzate, e subito dopo li hanno colpiti con cinghie e bastoni. “Durante il pestaggio i carabinieri sono stati insultati al grido di «fascisti». I loro aggressori si sono poi dileguati appena udito il suono delle sirene, prima che le pattuglie giungessero sul posto”: così si chiude il dispaccio di agenzia.

Mazze, bastoni, insulti politici a quattro parà con le loro ragazze nella Toscana avvelenata dall’odio ideologico – per i Soloni del giornalismo benpensante – non meritano una breve. Vi immaginate le paginate e le trasmissioni tv ad hoc se un episodio di violenza gratuita e feroce come questo avesse avuto un colore politico differente? I fatti di Livorno sono invece la cifra di un’Italia che non ci piace, nella quale risuonano tetre le parole d’ordine di un pericoloso oscurantismo ideologico. Sul quale non bisogna abbassare la guardia.

martedì 12 marzo 2013

Quando D’Annunzio difendeva il genio Wagner dagli attacchi di Nietzsche


di Annalisa Terranova

Del D’Annunzio poeta è stato scritto molto, e così anche del D’Annunzio soldato, e ancora del D’Annunzio politico, di quello decadente, dell’amatore, dell’esteta. Nella sua vita turbinosa anche la musica aveva uno spazio sovrabbondante. Nello Statuto della libera città di Fiume si legge che “la musica è l’esaltatrice dell’opera di vita”. E invitando Toscanini a Fiume per tenervi un concerto D’Annunzio scrive: “Venga a Fiume d’Italia se può. È qui la più risonante aria del mondo”. 

Tra il luglio e l’agosto del 1893 sul quotidiano romano La TribunaD’Annunzio scrisse tre articoli difendendo Wagner, il “nume di Bayreuth”, dagli attacchi di Nietzsche. Sono scritti – oggi riproposti da Elliot con il titolo Il caso Wagner (pp. 64, €7,50) – dai quali si intuisce il particolare rapporto del poeta con la musica. “Quello del poeta per Wagner – scrive Paola Sorge nell’introduzione – fu vero amore. Esplose a Napoli negli anni Novanta, ebbe il suo culmine durante la composizione del Trionfo della Morte e delle Vergini delle rocce, conobbe il dcelino con Il Fuoco; come tutti i grandi amori, lasciò un’impronta indelebile nello spirito e nella produzione del poeta e portò con sé una lunga scia di aspirazioni e di desideri irrealizzati come quello del Teatro di Albano e della “Rotonda” di Fiume”. 

D’Annunzio riassume per i suoi lettori le accuse che Nietzsche rivolge a Wagner, bollato come artista della decadenza, mentre per l’autore de Il Piacere egli è l’artista completo, che ha saputo esprimere i sogni “che nascono dalla profondità della malinconia moderna, i pensieri indefiniti, i desiderii senza limiti, le ansie senza causa, tutti i turbamenti più oscuri e più angosciosi”. Wagner è l’interprete di un “bisogno metafisico”. Colui che scopre i segreti della vita intima degli uomini. 

 D’Annunzio che pure apprezzava Nietzsche, anche se lo conosceva solo superficialemnte, rimase dolorosamente colpito dalle critiche rivolte a Wagner, che egli considerava un possente genio moderno. Nei suoi articoli dunque prese le distanze da Nietzsche, giudicò “vane” le ragioni della sua ira antiwagneriana. Indicato superficialmente dalla critica come cultore della morale del superuomo, D’Annunzio invece più che essere sedotto Nietzsche seguì in modo appassionato il modello Wagner, e in particolare la sua idea di creare una nuova grande arte in cui tutte le altre venissero fuse. Fu letteralmente folgorato, e non si trattò di una moda passeggera, dalla magnifica ambizione dell’opera totale.

lunedì 11 marzo 2013

Non dobbiamo adeguarci al pensiero unico



Abbiamo intervistato Marco Tarchi, professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze ma anche animatore delle riviste Diorama Letterario 
( www.diorama.it) e Trasgressioni. Buona lettura.
Professor Tarchi, Lei sin dalla giovane età si è occupato di politica, prima come militante poi come studioso. Cos'è cambiato nel panorama politico dagli anni settanta ad oggi?
Prima di tutto, è cambiata un’atmosfera. Si è modificato un clima psicologico. Gli anni Settanta sono stati l’epoca delle speranze, delle utopie, delle illusioni. Un tempo in cui alla politica veniva assegnato un ruolo salvifico. Solo negli ambienti più radicali, di diverso segno, si ambiva a fare della militanza uno stile di vita, ma nelle società di molti paesi una qualche aspirazione alla modifica – attraverso la politica – della situazione esistente era ampiamente diffusa. Oggi viviamo l’era della rassegnazione, del pragmatismo spicciolo, del piccolo cabotaggio. Si dà per scontato un po’ ovunque che debba essere l’economia, con i suoi postulati e i corrispondenti imperativi, a guidare le mosse della classe politica. Lo spirito del tempo induce i più a credere che stiamo vivendo nel migliore dei mondi possibili, e che tutto quel che dobbiamo fare è salvaguardarlo. L’obiettivo a cui si guarda è rendere eterno il presente, cercando soltanto di rappezzarne qualche toppa. Nel Sessantotto si esagerava, sognando di mandare la fantasia al potere, ma adesso si esagera in senso inverso, riducendo la politica alla mera amministrazione di risorse materiali più o meno scarse.
Cosa è successo alle ideologie? Che fine hanno fatto le folle che riempivano le strade e si impegnavano per vedere l'affermazione delle idee in cui credevano? 
Quelle folle di giovani, come più d’uno a suo tempo aveva previsto, hanno “messo la testa a posto” in tempo per prendere l’ascensore di una dinamica sociale che, fino a una quindicina di anni fa, ha consentito un ricambio generazionale a somma positiva. È fin troppo scontato fare il censimento delle posizioni di vertice cui sono approdati, in vari settori, tanti animatori della contestazione del ’68 e del ’77. Può darsi che credessero davvero che sarebbero riusciti a scardinare il “sistema” e a costruire quello che i colti definivano “un altro orizzonte di senso”. Resta il fatto che, non appena si sono resi conto che non ce l’avrebbero fatta – o che provarci sul serio fino in fondo era troppo faticoso o rischioso – in quel sistema si sono scavati una comoda nicchia. Certo, ci sono stati anche i combattenti e i perdenti, ma su di loro è calato l’oblio, mentre i capetti più furbi continuano a pontificare, in pieno stile borghese, su temi molto meno “pericolosi” di quelli difesi un tempo. Dalla dittatura del proletariato sono passati ai “diritti dell’uomo”, dal rovesciamento della piramide sociale alla difesa dei matrimoni omosessuali, dal terzomondismo all’elogio dell’american dream. Sanno fiutare il vento e lo alimentano col loro fiato. Ma non tutte le ideologie sono scomparse. Una – il liberalismo – ha sbaragliato il campo, si è fatta paradigma di idee, opinioni e comportamenti e, proiettata e protetta dalla potenza statunitense (che è fatta, come si è intelligentemente notato, del soft power informativo e culturale non meno che dell’hard power delle armi), prospera indisturbata, stigmatizzando e penalizzando ogni punto di vista non “politicamente corretto”.
Deluso dallo scarso spessore dell'uomo? 

Ogni volta che lo ammetto, qualche grillo parlante, in genere un ex “non conformista” avido di visibilità mediatica e incarognito per non essere riuscito ad ottenerla o conservarla, mi assesta una bacchettata, proclamando che la politica è un gioco per duri e chi non vince non può dare la colpa agli altri e recitare la parte dell’incompreso. Ma, ad onta di questa banali osservazioni, che non sono certo state coniate da questi improvvisati maestri del pensiero, ci troviamo di fronte ad un dato ineludibile: la mentalità collettiva alimentata da un certo generico progressismo, frutto del matrimonio di interesse fra il postmarxismo in ritirata dopo la caduta del Muro di Berlino e il materialismo pratico del liberalismo individualista, ha reso impermeabile l’uomo medio ad ogni tentazione di uscire dal sistema oggi vigente.

Nonostante, tutto però continua a condurre la sua battaglia culturale, no? 
Sì, anche se senza illusioni e fra molte delusioni. Lo considero un dovere, perché chi coltiva credenze e le collega a visioni del mondo coerenti, come a me accade, non può paragonare il compito degli “uomini di idee” (la definizione è, fra gli altri, di Norberto Bobbio, e dà un’immagine meno arida e stereotipata degli intellettuali) con quello degli esponenti di un partito. I secondi, da quando è in auge il marketing politico-elettorale, sanno che, per conquistare consensi, devono adattare il proprio prodotto alle aspettative che in quel momento sono diffuse fra i potenziali sostenitori. Se tentano di “convertirli”, di farli ragionare, di stimolarne il senso critico (e quindi, letteralmente, di “mettere in crisi” le loro convinzioni preesistenti), sono condannati all’insuccesso. I consulenti politici professionali lo insegnano, e hanno buone ragioni. Ma chi vuol diffondere idee deve svolgere proprio quella funzione che poco fa ho indicato: non deve adeguarsi a ciò che pensano gli altri, ma convincere loro della bontà di ciò che propone. Poi, certo, c’è il fattore logoramento umano ad entrare in gioco. Passano gli anni, i lustri e i decenni, e a forza di non raggiungere gli obiettivi sperati cresce la tentazione di gettare la spugna. Io la sento da un pezzo. Fin qui sono stati l’autostima, l’orgoglio e il senso del dovere verso ciò che resta dell’ambiente che si è a suo tempo creato attorno al progetto metapolitico che attraverso convegni, conferenze, dibattiti, interviste, libri e riviste (due delle quali, “Diorama” e “Trasgressioni”, tuttora vive) mi sono sforzato, con altri amici, di animare, ad impedirmi di mollare.

Vede spiragli per una nuova era? 
Pochi. Sarà l’età, con il suo pesante carico, sarà il mio carattere troppo incline a lasciare a briglia sciolta gli entusiasmi, ma ho l’impressione che quanti si riconoscono nell’attuale sistema politico e, soprattutto, culturale, alimentandolo e dirigendolo, lo abbiano efficacemente blindato. Alcuni amici continuano a ripetermi che a cambiare le cose sarà l’evoluzione degli scenari internazionali, perché la “grande politica” da sempre da lì trae la propria linfa. Può darsi, ma non mi faccio illusioni. Mi pare che l’unico elemento del panorama che, pur con molti difetti e almeno altrettante ingenuità, non sia del tutto integrabile nello stato di cose esistente sia il tanto vituperato populismo. Ovvero quella mentalità che contrappone le virtù idealizzato del popolo alle élites corrotte e autoreferenziali e fa appello alla rigenerazione di alcuni valori del “buon tempo antico”. In forme diverse, il fenomeno sta facendosi strada, e per ora il cordone sanitario della denigrazione, che gli è stato teso immediatamente attorno, non lo ha domato. Staremo a vedere cosa ne sortirà.
Cosa pensa della frase di Heidegger, "solo un Dio ci può salvare"??
Se non la si assume come mero farmaco autoconsolatorio, è una massima acuta. Che ci lascia una traccia di speranza.

                                                                           A cura di Sergio Terzaghi

sabato 9 marzo 2013

FIRENZE: A CENTINAIA SOTTO LA PIOGGIA PER I MARTIRI DELLE FOIBE




Un fiume composto di tricolori ha colorato le strade della città, nonostante le minacce, la quasi totale assenza delle adesioni istituzionali e il clima di odio montato ad arte da una certa sinistra, la stessa che come sempre ha sfilato con una contromanifestazione di pochi sconfitti dalla storia, condita dai soliti vessilli titini e sovietici, che quest’anno si è anche presa la briga di cacciare a calci alcuni dei partigiani dell’Anpi e buona parte della sinistra “moderata”. Erano scesi in piazza invocando le lotte partigiane e sono finiti col rinnegarne la presenza stessa: il triste epilogo di un antifascismo che non ha più alcun senso di esistere.

Anche quest’anno, nonostante le mille avversità, la Comunità umana e politica della destra fiorentina ha dato una magnifica prova di mobilitazione e capacità organizzativa, chiamando a raccolta centinaia di persone e mostrando una compostezza degna di elogio e una maturità politica che ha saputo anteporre il bene di una battaglia trasversale alle logiche di partito o di movimento, con un risultato finale che non lascia alcun dubbio sulla necessità di fare quadrato attorno a quei punti fermi che per tutti rappresentano un patrimonio condiviso.

La nostra presenza in piazza, era doverosa: lo era per quelle migliaia di italiani massacrati senza colpa alcuna, se non quella di non aver voluto rinnegare il proprio senso di appartenenza. Lo era per le migliaia di esuli, alcuni dei quali ci hanno onorato della loro presenza, che sono stati costretti a fuggire dalle proprie case e che in Italia sono stati feriti una seconda volta dall’odio cieco di chi ha pensato bene di umiliarli e farli sentire degli ospiti indesiderati. Lo era per quel senso di orgoglio e di nobiltà che proviamo ogni volta che mille tricolori si alzano al cielo e ogni volta che il nostro inno nazionale viene cantato all’unisono da migliaia di voci in coro. Lo era per quel pezzo di storia dimenticato e lasciato da parte, per non far torto ad una parte di paese che aveva contribuito ad un eccidio senza senso. Lo era per questa nostra terra, martoriata e umiliata, spesso anche da chi vi è nato, ma non ha saputo coglierne la grandezza a causa di una cecità ideologica priva di slancio. Lo era perché crediamo che la memoria condivisa, quella che ogni popolo degno di questo nome dovrebbe avere, sia un traguardo ancora lontano. Lo era per non lasciare la piazza nelle mani di chi non prova vergogna nell’osannare dei carnefici.

Per questo e per mille altri motivi ci siamo schierati. Perché potranno minacciarci in ogni modo, ma saremo sempre lì, con le nostre bandiere e con i nostri sorrisi, con la nostra identità e con la nostra storia. Ci siamo e ci saremo, oggi come ieri. 







martedì 5 marzo 2013

Il genio di Hergé e le avventure di Tintin, eroe del fumetto ispirato a Degrelle...

di Giorgio Ballario (Barbadillo)

Trent’anni fa, il 3 marzo del 1983, se ne andava un personaggio della cultura popolare del Novecento (può sembrare una definizione esagerata, ma non è così), che ancor oggi, in Belgio, è considerato una specie di padre della patria. E questo malgrado negli ultimi anni si siano moltiplicati gli anatemi contro Hergé, il disegnatore che nel 1929 creò la figura di Tintin, uno degli eroi a fumetti più famosi di tutti i tempi. Accusato in vita di esser stato fascista, reazionario, antisemita e collaborazionista (e finito anche in carcere, sia pure per poco, alla fine della II guerra mondiale); a molti anni dalla sua morte ha dovuto incassare pure l’accusa postuma di razzismo, con tanto di richiesta di sequestro di uno dei suoi albi, “Tintin in Congo”.

Una denuncia presentata al Tribunale penale di Bruxelles tre anni fa da un cittadino congolese che vive da anni in Belgio, secondo il quale l’episodio della serie a fumetti, uscito in bianco e nero a puntate tra il giugno 1930 e il giugno 1931, sarebbe razzista e offenderebbe apertamente i cittadini dell’ex colonia belga. «L’aiutante di colore di Tintin è presentato come una persona stupida e senza alcuna qualità – ha scritto nell’esposto – E ciò induce i lettori a pensare che i neri siano persone poco evolute». Un altro passo incriminato è quello in cui si vede una donna di colore genuflettersi davanti al giovane reporter belga, protagonista del fumetto, e poi esclamare: «L’uomo bianco è davvero grande. Il padrone bianco è una persona con poteri superiori».

Uno dei tanti frutti avvelenati della “correttezza politica”, si dirà. Della follia di chi pretende di intervenire in modo censorio persino sulla cultura del passato, così come chi vuole riscrivere le fiabe dei fratelli Grimm o l’opera di Dante, che nella Divina Commedia colloca Maometto all’inferno. Anche se, conoscendo l’efferatezza di un regime coloniale fra i più crudeli, spietati e predoni d’ogni epoca (altro che “Faccetta nera”…), c’è da pensare che il Congo belga narrato da Hergé non fosse proprio un esempio di fratellanza fra i popoli. Ma non è questo il punto.

Il creatore di quello che avrebbe dovuto essere soltanto uno strumento di divertimento per i ragazzini belgi, sia pure influenzato dallo “spirito dei tempi”, ha sempre avuto una vita difficile. E non solo per i suoi problemi personali, ad esempio la depressione che l’ha accompagnato per tutta l’esistenza, costringendolo spesso a lunghi periodi di inattività.

Nato nel 1907, Georges Prosper Remi (lo pseudonimo Hergé deriva dalle sue iniziali rovesciate: R. G.) entra giovanissimo nel giornalismo e collabora con il quotidiano Le Vingtième Siècle, un foglio cattolico, nazionalista e anticomunista. Il direttore lo incarica di ideare un inserto per fanciulli, Le Petit Vingtième. Ed è sulle pagine di questo supplemento che, il 10 gennaio del 1929, compare per la prima volta la figura di Tintin, giovanissimo reporter che viaggia per il mondo in compagnia del suo cagnolino Milou.

L’avventura di debutto è, non casualmente, ambientata in Unione Sovietica, il “regno di Satana” per la vulgata dell’epoca: una parodia non troppo innocua, ma al tempo stesso piuttosto realistica, del comunismo, con beceri funzionari-poliziotti, masse asservite, scene di soprusi e miseria. Tintin è quindi di destra, anzi, visto il periodo, fascista e nazista? Non proprio, anche se in un altro episodio – L’Etoile mystérieuse – gli amici di Tintin provengono tutti dai paesi dell’Asse e i nemici sono smaccatamente americani. In realtà la maggior parte delle sceneggiature di Hergé non sono dissimili da molte altre dell’epoca, in cui c’è un eroe positivo che affronta una movimentata avventura contro i cattivi.

Di certo è che la biografia di Hergé parla chiaro. E il disegnatore belga non solo era un cattolico, nazionalista e anticomunista, ma aveva una spiccata simpatia per le varie forme di fascismo che negli anni Venti e Trenta si andavano affermando un po’ in tutta Europa. C’è poi un particolare ormai accertato: al quotidiano Le Vingtième Sièclecollaborava anche Léon Degrelle, ex scout, che sarà poi fondatore del partito fascista belga, amico personale di Hitler e combattente sul fronte orientale a capo delle SS Wallonie, una divisione formata da volontari belgi. Secondo alcune testimonianze, fra cui un libro scritto all’inizio degli Anni Novanta dallo stesso Degrelle, per creare la figura di Tintin Georges Remi si sarebbe ispirato proprio al suo amico e coetaneo Léon, all’epoca reporter d’assalto.

Hergé, a dire il vero, non ha mai ammesso l’identificazione tra Tintin e Degrelle: anzi, sosteneva di aver ideato il suo personaggio semplicemente perché lavorava in un giornale e nel disegnarlo aveva seguito le indicazioni del suo capo, l’abate Norbert Wallez, che gli aveva chiesto un giovane eroe «dans l’esprit catholique», con un piccolo cane come compagno di avventure. Ma nel volume autobiografico “Tintin, mon copain!”, uscito nel 1992 in Spagna (dove era riparato alla fine della guerra), Degrelle non solo conferma di aver ispirato il personaggio di Hergé, ma per provarlo pubblica lettere private, foto e persino bozzetti di disegni – mai usciti -in cui Tintin indossa l’uniforme delle SS Wallonie. Il suo vecchio amico Georges, però, è già morto da nove anni e non può smentire né confermare.

La nomea di fumettista fascista, tuttavia, l’ha sempre accompagnato; anche perché nel periodo dell’invasione tedesca Hergé lavora attivamente per Le Soir, quotidiano collaborazionista schierato con gli occupanti. Pur essendosi limitato a disegnare fumetti, dopo la guerra viene arrestato per alcuni giorni, incluso nelle liste dei collaborazionisti, quasi mandato a processo ed epurato per lungo tempo. Fino alla riabilitazione completa da parte di Raymond Leblanc, eroe della resistenza belga, che diventa suo editore, affidandogli la direzione del settimanale intitolato appunto “Tintin”.

Superata la fase oscura del secondo Dopoguerra, per il “papà” di Tintin gli anni Cinquanta e Sessanta sono quelli del successo internazionale. Il piccolo reporter con i pantaloni alla zuava conquista innanzi tutto il pubblico francese e poi deborda in tutt’Europa, tanto da indurre il presidente De Gaulle ad affermare scherzosamente: «Tintin è il mio unico rivale internazionale». Le accuse di fascismo e collaborazionismo sono ormai lontane, Hergé mette in piedi una vera squadra di disegnatori (gli Studios Hergé) per realizzare la rivista e in breve il suo personaggio diventa pure un eroe dei cartoni animati.

Quando Georges Remi si spegne nel 1983, la sua ormai cinquantaquattrenne creatura non gli sopravvive, a conferma di ciò che il disegnatore belga andava sostenendo da tempo: «Tintin sono io». Infine è recente la versione per il grande schermo: Steven Spielberg e Peter Jackson, regista de “Il Signore degli anelli”, hanno realizzato un film d’animazione sul piccolo reporter belga e il suo cagnolino Milou, “Le avventure di Tintin e il segreto dell’Unicorno” (2011).