giovedì 31 ottobre 2013

Chi ha paura del museo del Pci? Tra le cose che l’Italia teme di più c’è proprio la memoria storica...


di Annamaria Gravinò (Secolo d'Italia)

La prima reazione è di sorpresa: davvero non c’è nessuno che vuole fare un museo del Pci? A raccontare la storia di Mauro Roda, custode di memoria e memorabilia del defunto partito comunista, è Repubblica di oggi. Il bolognese Roda, che oggi ha un piccolo ufficio nella sede cittadina del Pd, presiede la “Fondazione 2000″, una delle fondazioni a cui, quando nacque il Pd, furono conferiti i beni del vecchio partito. Beni materiali, ai quali si aggiunsero i beni della memoria quando le sedi furono messe in dismissione e Roda e altri come lui si preoccuparono di metterne in salvo il contenuto. Manifesti, documenti, bandiere, fotografie, volantini, poster, giornali, lettere che raccontano la storia, come quelle di Togliatti o di don Dossetti. C’è perfino, in questo enorme e multiforme archivio, il torchio con cui durante il fascismo veniva stampato clandestinamentel’Unità. «Ho bussato a molte porte. Molte. Nessuna risposta», ha raccontato a Repubblica Roda, spiegando che i no sono stati motivati con un «non è ancora il momento», ma senza indicare esattamente chi ha declinato l’offerta. È il quotidiano diretto da Ezio Mauro a fare delle ipotesi: «Grandi cooperative, associazioni di sinistra».


Sorpresa, si diceva, perché finora siamo stati tartassati da messaggi per cui se una storia non si poteva raccontare era quella della destra. Messaggi proposti proprio da quella sinistra che ora applica la stessa logica anche a se stessa.


Cosa accade, dunque? In realtà, a rifletterci appena un attimo, nulla di sorprendente. Perché, a rifletterci appena un attimo, tutto torna: ormai non è più questione di parte, ormai ci troviamo di fronte a una politica che, seppure con gradazioni diverse, ha paura della storia tout court. Gli indicatori di questa situazione sono molti e l’ultimo, macroscopico, è quanto accaduto intorno alla morte di Erich Priebke, dai funerali alla legge sul negazionismo che proprio per un deciso intervento degli storici non è andata in porto. Ma di esempi se ne potrebbero fare a decine, a partire da quelli tutto sommato di piccolo calibro come le contese sulla toponomastica per arrivare al fatto che la legge del 2007 che pone 30 anni come limite ai segreti di Stato resta sostanzialmente disattesa.


La vicenda del museo del Pci non fa che confermare, dunque, che il nostro Paese ha una sua intrinseca difficoltà a storicizzare, di cui molto si è già discusso e si continuerà a discutere. Ma mentre questo dibattito può (forse) avere un senso quando si parla di rivelare fatti che hanno a che vedere con la ragion di Stato e la sicurezza, molto meno sembra averlo quando si traduce nella volontà di negare una storia come quella dei partiti che è stata sotto gli occhi di tutti e che, nel bene e nel male, è stata anche storia di popolo e storia del Paese a pienissimo titolo. In questo caso si finisce in quella forma di censura col torcicollo che, negli anni, la sinistra ha esercitato con tale convinzione da farla diventare in fine anche autocensura.


mercoledì 30 ottobre 2013

Non c’è pace in Irlanda del Nord e cresce la tentazione della lotta armata...


di Tommaso della Longa (barbadillo.it)



Alzi la mano chi considera il Nord Irlanda pacificato. Alzi la mano chi conosce il significato storico della parola “troubles”. E ancora, alzi la mano chi invece pensa che le Sei Contee irlandesi del nord vivano ancora un periodo di violenza.

Ecco, se si facesse una prova del genere in mezzo a gente comune, la grande maggioranza si chiederebbe, “perché cosa succede da quelle parti?”. Qualcuno forse si ricorderebbe degli scontri tra filo-irlandesi cattolici e filo-inglesi protestanti negli anni ’70-’80. In molti assocerebbero l’Irlanda alla famosa birra nera “Guinness”.
Eppure la situazione è tutt’altro che pacificata. Sì è vero, ci sono stati agli accordi di pace nel 1998 ed è partita la smilitarizzazione dei gruppi armati, Irish Repubblican Army (IRA) per la parte irlandese-repubblicana e Ulster Volunteer Force (UVF) per parte inglese-unionista. Ed è anche vero che la vita quotidiana odierna a Belfast e Derry non è lontanamente paragonabile a quello che si viveva vent’anni fa. Però, le promesse che erano state fatte dopo gli accordi, ovvero pace, prosperità, crescita e sviluppo, ancora non sono diventate realtà per tutta la popolazione.

In Nord Irlanda ancora esistono decine di muri che separano fisicamente le comunità. Ancora esistono ghetti che non dialogano tra di loro, dove basta attraversare una strada per cambiare mondo: visivamente lo si capisce solo perché dal tricolore irlandese si passa a una Union Jack britannica. La percentuale di disoccupazione è ancora alta, le scuole biconfessionali si contano sulle punta delle dita, le due comunità fanno ancora vita a sé e l’essere cattolici ancora preclude molte posizioni di comando. Per non parlare della percentuale di suicidi nella generazione post-conflitto che fa a dir poco paura.
Quello che più stupisce è la grande operazione di comunicazione fatta, Belfast città del futuro, città degli MTV awards europei, città in movimento, che ha praticamente cancellato il racconto delle violenze, degli scontri che si moltiplicano, del ritorno alle armi, delle bombe disinnescate, degli attacchi settari. La notte tra il 13 e il 14 ottobre, tre uomini armati con il volto coperto dai passamontagna hanno fatto irruzione in un pub Belfast, nella zona nord, leggendo un comunicato dove l’IRA ammette di aver giustiziato il capo di un’organizzazione di spacciatori di droga e avverte alcuni suoi “complici” di lasciare al più presto la città. L’IRA si sa non ammette l’uso e lo spaccio di droga. Per due notti consecutive, negli ultimi giorni, ci sono stati scontri tra unionisti e polizia per difendere una bandiera. A Belfast Ovest sono stati ritrovati due ordigni disinnescati dalle forze dell’ordine.

Sono solo esempi legati all’attualità degli ultimi giorni, ma che rendono chiara l’idea. In Nord Irlanda, grazie anche alla crisi, le giovani generazioni stanno tornando verso la lotta armata: la percentuale non è paragonabile agli anni dei troubles, ma è in crescita costante e preoccupante. Nelle carceri nordirlandesi esistono ancora repubblicani incarcerati solo per reati di opinione, i cosiddetti prigionieri politici: evidentemente la causa irlandese fa ancora paura agli inglesi. Strutture dove si moltiplicano le denunce delle organizzazioni dei famigliari dei prigionieri per le condizioni inumane in cui sono costretti a vivere.

Ecco, di tutto questo bisognerebbe ricominciare a parlarne in maniera più approfondita, ricordandosi che in Nord Irlanda c’è qualcosa di importante da raccontare: il nuovo che c’è in questo angolo di mondo, ma anche il ritorno al passato e alla contrapposizione tra chi si sente irlandese e chi è legato a Sua Maestà. Una “questione irlandese” ancora insoluta e che non può e non deve essere dimenticata da tutti noi.

martedì 29 ottobre 2013

IN RICORDO DI MARIO ZICCHIERI...



Pubblichiamo, per ricordare il sacrificio di Mario Zicchieri nell'anniversario della sua morte, un articolo uscito lo scorso anno, proprio in questo giorno, su Il Secolo d'Italia. Una bella testimonianza, che inquadra al meglio il clima dell'epoca e i tanti piccoli eroici gesti dei nostri ragazzi. 
L'Ultimo sorriso di Mario Zicchieri
Mario Zicchieri era un ragazzo di sedici anni che fu assassinato 37 anni fa, nel quartiere Prenestino a Roma, da un commando di terroristi vicini alle Brigate Rosse. Oggi avrebbe 53 anni, se quel 29 ottobre fosse scampato all’agguato davanti alla sezione del Msi del popolare quartiere. 
Per il suo omicidio non è mai stato punito nessuno. I brigatisti rossi Morucci, Seghetti e Maccari, indicati come coinvolti nella vicenda da un pentito nel 1982, sono stati assolti in appello. E così la morte di “Cremino” è rimasta impunita, come per tanti, troppi, giovani attivisti missini degli anni ‘70: Angelo Mancia, Paolo Di Nella, Francesco Cecchin… Erano morti di serie B, hanno accusato in questi anni i familiari di Zicchieri, e non valeva la pena indagare troppo a fondo. Forse è così, perché in quegli anni era vero che uccidere un fascista non era reato. Anzi, per qualcuno, anche un titolo di merito. Sì, perché quegli anni non furono affatto formidabili, ma terribili: quando i terroristi dell’estrema sinistra avevano il loro battesimo del fuoco sparando su inermi ragazzi davanti alle sezioni dei “nemici”, come accadde ad Acca Larentia, in via Zabarella a Padova, al Prenestino, vuol dire che si sono persi di vista tutti i punti di riferimento politici, morali e sociali. Era come se una gigantesca ubriacatura si fosse impadronita delle frange estreme della sinistra, che nel suo delirio coinvolgeva anche fasce di giovani tendenzialmente più moderati. Ma allora l’antifascismo era un collante che funzionava sempre, specie se condito col furore quasi religioso di chi crede solo alla sua ragione. E allora attentati, manifestazioni, assalti, agguati, colpi di pistola e di mitra, bombe contro coloro che erano dipinti come l’incarnazione del male, gli esponenti del Msi. E l’odio diventava tanto più cieco quando i militanti missini, come nel caso del quartiere Prenestino, non accennavano a mollare, persistendo nella loro permanenza fisica e nell’attività politica e sociale in una zona che per definizione doveva essere “rossa”. Non piaceva a chi controllava il territorio: i “fascisti” dovevano sparire, soprattutto se stavano facendo un buon lavoro.
E quel giorno i terroristi decisero di colpire: spararono con fucili a canne mozze ai tre giovanissimi che stavano davanti alla sezione di via Gattamelata. Claudio Lombardi era uno di questi giovani, che insieme ai suoi coetanei Mario Zicchieri e Marco Luchetti stava presidiando la sede in attesa che fosse ripristinata la porta blindata fatta saltare in un attentato avvenuto pochi giorni prima. Dentro i locali c’era un operaio che stava ripristinando una grata interna dalla quale ignoti avevano tentato di entrare la notte precedente. «Sì, mi ricordo ancora tutto di quel pomeriggio – racconta Claudio Lombardi in procinto di andare alla commemorazione per Mario che ogni anno si svolge al Prenestino – Eravamo solo noi tre, che stavamo aspettando il fabbro per rimontare il portone. Oggi stupisce pensare che per fare attività politica ci fosse bisogno di una porta blindata, ma allora le cose andavano così: ci venivano a cercare per eliminarci fisicamente di notte e di giorno, la sera spesso non potevamo rientrare in casa perché ci aspettavano, la sede era oggetto di attentati frequentissimi – ricorda Lombardi – E non solo la sede veniva colpita, ma anche le case, le automobili, gli esercizi commerciali degli iscritti al Msi o dei frequentatori della sezione, come sa bene il ferramenta all’angolo…». Ma quel 29 ottobre, secondo una strategia che secondo Lombardi era pianificata, lo scontro si sarebbe dovuto alzare di livello: «Saranno state le cinque, io ero al centro davanti la porta, Marco Luchetti alla mia destra appoggiato all’ingresso e Mario Zicchieri alla mia sinistra. Arrivò questa 128 chiara e ne scesero due persone che indossavano un trench, con scoppole e occhiali da sole. Scesero, estrassero i fucili e si apprestarono a sparare. Sono vivo soltanto perché ci sottoposero a un fuoco incrociato: ossia ognuno sparava in diagonale, con il risultato che Mario e Marco vennero colpiti in pieno, mentre io mi salvai tuffandomi letteralmente dentro i locali della sezione». E continua: «Mentre ero per terra sentii sette od otto boati fortissimi, i colpi dei fucili, poi entrò Marco massacrato di pallettoni, perdeva moltissimo sangue, tanto che un poliziotto in borghese si sfilò la cintura per fermare l’emorragia alle gambe. Io uscii, in stato di choc, vidi Mario per terra colpito al basso ventre, mi chinai su di lui, gli presi la mano… ricordo solo, e lo ricorderò per tutta la vita, che sorrideva e scuoteva la testa come per dire “no, no”… Forse voleva rassicurarmi che stava bene, che non gli avevano fatto niente, non saprei dirlo. Ricordo solo quel sorriso dolce…». Lombardi fermò immediatamente una macchina che passava per fare condurre i feriti all’ospedale. In capo a pochi minuti sul posto si radunarono centinaia di missini, tra cui lo stesso segretario della sezione Luigi D’Addio, forse il vero bersaglio dell’attentato, come è stato scritto in questi anni, ma nessuno potrà mai dirlo. «Eravamo tutto sconvolti», conclude. Dopo l’omicidio ci furono scontri, sia con la vicina sezione del Pci sia con la polizia, e la tensione rimase altissima per molti giorni nel quartiere.
Negli anni successivi la famiglia di Mario lottò con tutte le sue forze per conoscere la verità, per avere giustizia, ma mai chiedendo vendetta né odiando, nonostante le successive persecuzioni cui furono sottoposte la madre, che perse il posto di lavoro, e le giovani sorelle, che avevano 12 e 13 anni, che in seguito a questo dovettero addirittura cambiare scuola. Ma a oggi non c’è ancora chiarezza su questo e su altri omicidi politici, nonostanti numerosi appelli della mamma agli esponenti delle Brigate Rosse affinché rivelassero una buona volta la verità su quella stagione di sangue e di odio. Erano morti di serie B i missini. Si sarebbero dovuti attendere 36 anni, ossia il 2011, prima che un’amministrazione, quella del sindaco Alemanno, decidesse di dedicare un giardino a Mario Zicchieri, al Pigneto, a meno di 200 metri da dove fu ammazzato. «Mario – aggiunge il suo antico amico – andava in palestra, era uno scout, frequentava la chiesa del Pigneto, si impegnava per gli altri, aveva il senso della comunità…». Ma soprattutto aveva 16 anni.

venerdì 25 ottobre 2013

FIRENZE: BLOCCO DELLA PUBERTA' E CAMBIO SESSO PER I BIMBI CON "DISFORIA DI GENERE"...

Non è la trama di un pessimo film di fantascienza, ma quanto sta accadendo a Firenze. Il reparto di Medicina della sessualità e andrologia di Careggi ha chiesto alla Regione di poter diagnosticare il disturbo della “disforia di genere” sui bimbi. Nel caso in cui, quindi, un bambino maschio presentasse comportamenti tipicamente femminili, o viceversa, si potrebbero applicare delle cure atte a bloccarne la pubertà e ad avviare un percorso ormonale in grado di evitare, in futuro, il ricorso alla chirurgia. I medici hanno spiegato ai giornali che “ci sono farmaci che bloccano la pubertà precoce e abbiamo chiesto di estenderli anche sulla pubertà inadeguata, in modo da indirizzare subito la pubertà verso il sesso che veramente sente il paziente”. Riteniamo di una gravità assoluta la possibilità di intervenire in modo invasivo su dei bimbi che non hanno alcuna colpa, se non quella di manifestare dei comportamenti diversi da quelli dei loro coetanei. Riteniamo incivile la volontà di stabilire, attraverso una cura, il destino di una persona, senza che questa ne abbia coscienza. Riteniamo ignobile l’utilizzo della scienza per simili esperimenti. Riteniamo discutibile il parere di chi, non si sa su quali basi, andrebbe a diagnosticare dei disturbi del genere in pazienti di così giovane età. Siamo convinti che con queste pratiche si sia superato il limite della decenza e si sia confuso l’abuso con il diritto, in nome di una libertà che ha offuscato il buon senso. Una cosa è certa: ci opporremo.

giovedì 24 ottobre 2013

NSA, le mani sugli account...

di Michele Paris


Una nuova serie di documenti riservati dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) pubblicati martedì dal Washington Post hanno rivelato un’ulteriore attività dell’ente governativo con sede a Fort Meade, nel Maryland, che conferma l’avanzato stato di degrado dei diritti democratici negli Stati Uniti. La più recente rivelazione apparsa grazie all’ex contractor della stessa NSA, Edward Snowden, riguarda questa volta la raccolta massiccia e indiscriminata delle liste dei contatti e-mail contenuti negli account personali di posta elettronica e in quelli di messaggistica istantanea di utenti in tutto il mondo, Stati Uniti compresi.


Questa operazione non è mai stata resa nota in precedenza e i documenti forniti da Snowden indicano come l’NSA sia in grado di appropriarsi illegalmente di dati riservati intercettandoli nel momento in cui essi “si muovono attraverso collegamenti globali”, ad esempio quando un utente effettua un log-in, compone un messaggio oppure “sincronizza un computer o un telefono cellulare con le informazioni archiviate su server remoti”.


Come accade regolarmente con gli altri programmi di intercettazione di dati telefonici e traffico internet, anche in questo caso l’NSA non procede con la raccolta mirata di informazioni in caso di utenti sospetti, ma entra in possesso delle liste di contatti in maniera indiscriminata.


La quantità dei dati così ottenuti è perciò impressionante. La sezione dell’NSA denominata Special Source Operations in un singolo giorno ha messo le mani su 444.743 indirizzi e-mail provenenti da account Yahoo, 105.068 da Hotmail, 82.857 da Facebook, 33.697 da Gmail e quasi 23 mila da altri provider. Numeri simili indicano come l’NSA entri in possesso mediamente in un anno di oltre 250 milioni di indirizzi di posta elettronica contenuti nelle liste degli utenti di tutto il mondo.


Secondo quanto riportato dal Washington Post, il metodo con cui l’NSA raccoglie questi dati rende superflua qualsiasi notifica alle compagnie informatiche che li ospitano. Portavoce di Google, Microsoft e Facebook si sono infatti affrettati a dichiarare la loro estraneità al più recente programma di intercettazione di dati riservati rivelato da Snowden.


Tuttavia, come spiega ugualmente il quotidiano della capitale americana, la capacità dell’NSA di avere accesso alle liste di contatti “dipende da accordi segreti con compagnie di telecomunicazioni straniere o servizi di intelligence di paesi alleati” degli Stati Uniti.


Teoricamente, l’NSA avrebbe facoltà di raccogliere informazioni solo su cittadini stranieri, ma nella rete dell’agenzia cadono anche in questo caso numerosi contatti conservati nelle liste di utenti americani. Questo genere di dati, d’altra parte, offre preziose informazioni per l’intelligence d’oltreoceano, visto che gli elenchi dei contatti contengono spesso non solo nomi e indirizzi e-mail ma anche numeri di telefono, indirizzi postali e altro ancora.


Assieme ai dati telefonici e a quelli sul comportamento degli utenti su internet, questi ultimi permettono così agli agenti dell’NSA di delineare una mappa esaustiva della vita delle persone intercettate, comprese le loro frequentazioni e le opinioni politiche.


Questo sistema di controllo pervasivo smentisce dunque in maniera clamorosa le ripetute rassicurazioni da parte del governo americano circa le intenzioni dell’NSA, la quale opererebbe in questo modo solo per trovare informazioni legate ad attività terroristiche, mentre non ci sarebbe alcun interesse per le informazioni personali dei cittadini.


Le stesse debolissime regole create appositamente per dare una parvenza di legalità a sistemi da stato di polizia vengono inoltre puntualmente aggirate dall’NSA, dal momento che per ammissione dei vertici dell’intelligence questa agenzia non ha alcuna autorizzazione formale per raccogliere in massa liste di e-mail, così come altri dati informatici o telefonici, di cittadini americani.


L’NSA, tuttavia, ottiene le informazioni in questione da “punti di accesso in tutto il mondo”, da cui transitano appunto anche i dati degli americani, visto che compagnie come Google o Facebook utilizzano impianti situati fisicamente in svariati paesi esteri.


Queste ultime rivelazioni contribuiscono dunque a mostrare la totale assenza di scrupoli democratici del governo americano nelle proprie attività di controllo del dissenso interno e delle minacce agli interessi della propria classe dirigente in ogni angolo del pianeta.


La conoscenza da parte dell’opinione pubblica di simili operazioni non dipende, come è ovvio, dalla trasparenza del governo di Washington, bensì dal coraggio di persone come Snowden, le quali, per le loro azioni che forniscono un servizio di grandissimo valore vengono spesso perseguiti in maniera feroce.


A mettere in luce i metodi punitivi adottati dall’amministrazione Obama contro i propri critici e i cosiddetti “whistleblowers”, cioè coloro che dall’interno del governo rivelano abusi e crimini a cui hanno assistito in prima persona, è stata una recente indagine del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), un’organizzazione che promuove la libertà di stampa con sede a New York.


Secondo l’autore del rapporto, il docente di giornalismo presso l’università statale dell’Arizona Leonard Downie, “la guerra lanciata dall’amministrazione Obama contro le fughe di notizie e i suoi sforzi per controllare l’informazione non hanno precedenti per aggressività”.


Dalle testimonianze raccolte dal CPJ sulla questione, appaiono evidenti, tra l’altro, i tentativi di impedire l’accesso da parte dei giornalisti alle fonti interne al governo, le intimidazioni contro le testate e i singoli reporter e il controllo del flusso di informazioni alla stampa a seconda dei propri interessi.


Il quadro che emerge appare più consono ad una dittatura che ad un paese democratico e questo scenario risulta ancora più allarmante alla luce della promessa di assoluta trasparenza fatta nel 2008 in campagna elettorale da Barack Obama dopo l’eccessiva segretezza dell’amministrazione Bush.


Appena installato alla Casa Bianca, infatti, lo stesso Obama si è rapidamente adeguato ai sistemi ormai consolidati dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, adottando addirittura misure ben più severe del suo predecessore, in linea con le crescenti necessità di controllo delle informazioni di un regime sempre più screditato e impopolare.

mercoledì 23 ottobre 2013

AVANTI RAGAZZI DI BUDA, AVANTI RAGAZZI DI PEST!

Il 23 Ottobre 1956, le scintille di libertà accesesi in Polonia, infiammano la fiaccola della riscossa ungherese contro la durissima occupazione. Sono generose mani di studenti ad impugnare quella fiaccola.
A quei giovani, con un moto che si propaga spontaneo e fulmineo nella grande metropoli, si affiancano migliaia e migliaia di operai, impiegati, professionisti, anziani e persino bambini.
L'intera Budapest reclama che al Paese vengano restituite la dignità di nazione e l'indipendenza. Con sublime eroismo, il popolo si scaglia a contrastare l'avanzata dei carri armati sovietici: per il popolo d'Ungheria, infiammato dal magnifico Sogno della Libertà, la parola "resa" non ha alcun significato.
I cingoli dei carri armati bolscevichi, non potranno mai più cancellare la parola Libertà, che gli eroici figli d'Ungheria hanno scritto col loro sangue sul suolo della Patria.

martedì 22 ottobre 2013

Katyn, la Corte di Strasburgo non rende giustizia ai familiari delle vittime di Stalin...

 di Antonio Pannullo (Secolo d'Italia)

Quando si dice lavarsene le mani. La Corte di Strasburgo ha scritto la parola fine al ricorso portato dai familiari di 12 prigionieri polacchi uccisi, assieme ad altri circa 22mila connazionali, dai militari sovietici dell’Armata Rossa nel maggio 1940 nei pressi della foresta di Katyn. La sentenza emessa toglie ogni speranza ai ricorrenti di vedersi riconoscere lo status di vittime dalle attuali autorità russe per le decisioni che presero nel 2004 di mettere fine all’inchiesta sul massacro di Katyn e di secretare tutti i documenti relativi a questa decisione. I giudici di Strasburgo, da un lato, hanno dichiarato di «non essere competenti» per giudicare sull’inchiesta condotta dalle autorità russe sul massacro, essendo questo avvenuto dieci anni prima che entrasse in vigore la Convenzione europea dei diritti umani. Dall’altro hanno stabilito che, essendoci la sicurezza della morte dei prigionieri, i loro familiari non possono essere considerati vittime di un trattamento inumano e degradante da parte delle autorità sovietiche, come lo sono coloro che nulla sanno di cosa è successo a un loro parente scomparso, e su cui possa esserci incertezza sulla sorte. L’unico punto su cui la Corte si è pronunciata criticando Mosca, è la mancanza di collaborazione di quest’ultima nel fornire tutta la documentazione richiesta. I giudici ritengono che nessuna delle spiegazioni date da Mosca per la mancata consegna alla Corte di Strasburgo dei documenti inerenti la decisione sulla chiusura dell’inchiesta sul massacro di Katyn sia valida. Neanche quella che questi documenti sono coperti dal segreto di Stato. Non si capisce per quale motivo Mosca avrebbe dovuto fornire documentazione intanto ad una corte “incompetente”, e poi su fatti che sono stati acclarati sin dal 1990, quando il Cremlino ammise la responsabilità della strage che fino a quel momento era stata falsamente attribuita ai soliti tedeschi. Per la verità, fu proprio Radio Berlino a denunciare per prima al mondo l’ennesima atrocità di Stalin, che fece massacrare militari e civili polacchi dai suoi soldati. Oggi l’Europa decide di non accettare la storia, dichiarandosi non competente e preferendo scaricare le responsabilità su Mosca, che invece la vicenda del massacro comunista l’ha chiarita da tempo.

lunedì 21 ottobre 2013

Adriano Olivetti un “riformista” al di là della destra e della sinistra?

di Mario Bozzi Sentieri (Barbadillo)


Arriva sul piccolo schermo (Rai1 il 28 e 29 ottobre)  Adriano Olivetti. La forza di un sogno, miniserie coprodotta  da Rai Fiction e Casanova Multimedia. Ad interpretare l’eccentrico imprenditore di Ivrea è Luca Zingaretti, sotto la regia di Michele Soavi, nipote, da parte di madre,  dello stesso Olivetti  e figlio di Giorgio, intellettuale  raffinato, poeta e giornalista (tra i fondatori de “il Giornale”), in gioventù  soldato della Repubblica Sociale Italiana,  da cui disertò, trasferendo il suo dramma interiore nel libro Un banco di nebbia.
 
Nel titolo della fiction, La forza di un sogno,  c’è la sintesi di una storia, quella  di chi ha provato a coniugare capitalismo e profitto con bellezza, cultura e solidarietà sociale.  Ingegnere  chimico, erede di una ricca dinastia imprenditoriale, con sede ad  Ivrea, di religione valdese, ma convertitosi al cattolicesimo nel 1949,  antifascista di orientamento azionista, ma vicino al fascismo “intellettuale”, quello di Giuseppe Bottai e dell’architettura razionalista , a cui legò i progetti del suo nuovo stabilimento,  Adriano Olivetti è, nel dopoguerra, l’imprenditore-politico che immagina  la fabbrica-mezzo, non solo dispensatrice di profitti, ma anche di cultura e di servizi, cuore della comunità, in cui realizzare un’autentica, concreta solidarietà, base di un’ idea nuova  di Stato: “Voglio  che la Olivetti non sia solo una fabbrica  – afferma  – ma un modello, uno stile di vita. Voglio che produca libertà e bellezza perché saranno libertà e bellezza a dirci come essere felici”. Ecco allora la fabbrica aperta alla luce, in cui gli orari sono ridotti ed i salari aumentati, i lavoratori vengono incentivati a studiare e a leggere, i loro figli hanno asili nido – si direbbe oggi  – “di prossimità” e l’assistenza sanitaria è gratuita.
 
Non è stato, quello di Olivetti, un impegno solo intellettuale e sociale. Nel 1948, proprio per dare sostanza politica alle sue analisi (è del 1945 L’ordine politico delle Comunità che va considerato la base teorica per una nuova idea dello Stato, dove accanto alla Camera politica, espressione delle comunità, ci sia anche un Senato della tecnica e delle competenze), Olivetti fonda il Movimento Comunità, con l’ambizione di costituire una terza forza, fra  la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista. I tempi non erano evidentemente maturi. L’idea di una politica “nuova”, al di là del capitalismo e del socialismo,  si scontrava con i “blocchi” dell’epoca e da essi venne schiacciata.  Parlando della fine  di quella esperienza , “l’Unità”, organo del Pci, scrisse, nel 1958,  di “fallimento di tutte le teorie della collaborazione di classe e delle strane elucubrazioni che attorno a Comunità si sono venute enucleando”.
 
Per anni su quell’esperienza e sul suo protagonista calò il silenzio. Grazie anche alla fiction con Luca Zingaretti ora è bene che il discorso venga riaperto, evitando – ci auguriamo – di fare del personaggio un innocuo santino, ma chiedendo piuttosto: nel gioco delle scomposizioni-ricomposizioni post ideologiche che ruolo può occupare Adriano Olivetti ?  Il tema del “comunitarismo” ha visto crescere, negli ultimi anni, interessi diversi, legati alle scuole d’oltreceano, che fanno capo a Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Michael Sandel, Robert N. Bellah, Michael Walzer.
 
Bisogna però anche ricordare che è stata la Nuova Destra italiana, sul finire degli Anni Settanta, a farne uno dei suoi temi distintivi. Nel primo numero di “Elementi”, uscito nell’autunno 1978, è Alain de Benoist a firmare un lungo articolo (“’Comunità’ e ‘società’”) dedicato al sociologo Ferdinand Tonnies e alle sue teorie organicistiche. Tra le immagini che integravano quell’articolo c’era anche la copertina della prima edizione  di Comunità e società, pubblicata nei classici della sociologia delle Edizioni di Comunità, le edizioni volute da Olivetti, griffate con quella campana ed il motto “Humana Civilitas” che era stato il suo simbolo politico. Una consonanza che ci piace sottolineare, invitando a leggere finalmente l’esperienza olivettiana liberi da qualsiasi schematizzazione ideologica, e cercando di  comprendere nel profondo la  “forza di un sogno”. Con in più la consapevolezza che, oggi, di tornare a sognare abbiamo tutti un grande bisogno.

venerdì 18 ottobre 2013

«Crimini di guerra»: alla sbarra un ex ministro comunista in Ungheria (ma non fa notizia…)

di Girolamo Fragalà (Secolo d'Italia)


«Criminale di guerra». Ma stavolta non si tratta di un ex nazista. I riflettori sono puntati su Béla Biszku, uno dei principali responsabili della sanguinosa repressione dei patrioti di Budapest che, nell’ottobre del 1956, si ribellarono al regime comunista. Durante la rivolta – è bene ricordarlo – morirono quasi tremila ungheresi, furono migliaia i feriti e circa 250mila persone lasciarono il proprio Paese per rifugiarsi in Occidente. 


Da quel momento il sostegno alle idee del comunismo fu ridotto al lumicino. E di sicuro adesso qualche anima buona della sinistra dirà che l’attuale governo ungherese è vendicativo e magari anche fascista, perché colpisce Biszku. E proprio perché si tratta di un ex dirigente comunista, la vicenda probabilmente passerà in secondo piano e molti giornali le dedicheranno uno spazio molto ridotto. L’uomo, oggi novantaduenne, era stato arrestato a settembre dell’anno scorso, dopo che il governo conservatore di Viktor Orban aveva modificato il quadro legislativo, per perseguire le persone sospettate di rappresaglie dopo la Rivoluzione ungherese. 


Molti deputati di destra avevano, dunque, denunciato Biszku che, in un’intervista televisiva, aveva dichiarato di non aver nulla da rimproverarsi. L’uomo è accusato di crimini di guerra per due fucilazioni, una nella stazione Ovest di Budapest e un’altra al confine con la Slovacchia, che fecero 51 morti. Deve rispondere anche di “complicità in atti criminali”, per aver coperto atti di rappresaglia dopo la repressione della rivolta popolare. Rischia l’ergastolo.


Negli anni Novanta, dopo la svolta democratica in Ungheria, il primo governo eletto voleva processare gli ex dirigenti comunisti, ma la Corte costituzionale abrogò la legge relativa perché a suo giudizio i reati erano caduti in prescrizione. L’incriminazione attuale parla di “crimini di guerra”, che non cadono in prescrizione.

mercoledì 16 ottobre 2013

Pietas l’è morta...


di Alessandra Colla
 
Mi ero ripromessa di non scrivere neppure una riga su quello che ormai è il “caso Priebke”. Ma dopo le scene di ieri ad Albano Laziale, mi smentisco volentieri.
 
È dai tempi di Omero che l’oltraggio al cadavere viene ritenuto biasimevole: Achille che trascina nella polvere il cadavere di Ettore vinto non ci fa una bella figura; e su Antigone che spiega alla sorella Ismene perché è disposta a morire per dare sepoltura al fratello Polinice, condannato dalle nuove leggi a finire in pasto ai corvi, ha scritto mirabilmente Sofocle (chissà se a scuola lo si studia ancora).
 
[...] ma il corpo
di Polinice, che perí di misera
morte, per ordine indiscusso vieta
che sia sepolto o pianto da nessuno,
ma, senza tomba e illacrimato resti
caro ambìto tesoro agli occhi ingordi
degli uccelli, che possano cibarsene.
Questo col bando impose il buon Creonte
a te, dicono, e a me — capisci? a me! —
e verrà qui per proclamarlo chiaro
a chi l’ignora; e che non prenda l’ordine
nessuno alla leggera; e il trasgressore
lapidato morir dovrà dal popolo
della città. Son questi i fatti.
[...]
Sepolcro io gli darò; bella, se l’opera
avrò compiuta, mi parrà la morte.
E cara giacerò presso a lui caro,
d’un pio misfatto rea: poiché piacere
piú lungo tempo a quelli di laggiú
debbo, che a quelli che qui sono. Là
giacer debbo in eterno. E tu, se credi,
disprezza pure ciò che i Numi pregiano.


Impedire un gesto di pietas, impedire ai familiari di chicchessia di onorare il proprio defunto con una degna sepoltura mi pare un sopruso inaccettabile; e infierire su un morto — che sia chiuso in una cassa o steso sul selciato non ha nessuna importanza — è per me la cosa più vile che un essere umano possa fare. Penso ovviamente a piazzale Loreto (Ferruccio Parri definì l’accaduto “esibizione da macelleria messicana”, e Sandro Pertini imputò a quell’atto di aver “disonorato l’insurrezione”), ma penso anche a scempi più recenti — i coniugi Ceasusescu, Saddam Hussein, Muammar Gheddafi, Osama bin Laden (o il suo simulacro).
 
E poi, vogliamo ricordare cosa dice il Codice Penale?
 
Capo I: DEI DELITTI CONTRO LA RELIGIONE DELLO STATO E I CULTI AMMESSI
Art. 405 Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico
Chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto cattolico, le quali si compiano con l’assistenza di un ministro del culto medesimo o in un luogo destinato al culto, o in un luogo pubblico o aperto al pubblico, e’ punito con la reclusione fino a due anni. Se concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia, si applica la reclusione fino a tre anni.

Capo II: DEI DELITTI CONTRO LA PIETA’ DEI DEFUNTI
Art. 409 Turbamento di un funerale o servizio funebre
Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 405, impedisce o turba un funerale o un servizio funebre e’ punito con la reclusione fino a un anno.

La gestione del “caso Priebke” è l’ennesima riprova di quanto in basso sia caduto questo sciagurato Paese, che niente e nessuno potrà indurmi a chiamare Stato o Nazione. E tutti voi che avete sputato sul carro funebre, o avete plaudito a chi l’ha fatto, o avete lasciato che si creassero le condizioni per poterlo fare, o sornionamente avete fatto finta di nulla perché la cosa non vi riguardava (ma “per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”, come avrebbe detto il Faber) — tutti voi, nessuno escluso, mi fate profondamente schifo.

martedì 15 ottobre 2013

Venerdì un anno di Casaggì Valdichiana: conferenza sulla Siria e apericena...

Da mesi, gli Stati Uniti, stanno finanziando le truppe dei cosiddetti “ribelli”, mercenari provenienti da tutto il mondo e al soldo di Al Qaeda che, unendo gli interessi del fondamentalismo islamico a quelli delle potenze occidentali, stanno cercando di destabilizzare il governo siriano presieduto da Assad. 
 
La sovranità e la libertà della Siria, paese con una posizione geopolitica strategica e con un governo legittimo, hanno subito un pericoloso attacco, che però non ha minato il consenso e la tenacia dei siriani. In queste ultime settimane, complice l’impasse dei “ribelli”, il premio nobel per la pace Obama ha deciso di intervenire direttamente, minacciando di attaccare militarmente la Siria. Gli Stati Uniti, da decenni i “guardiani del mondo”, spingono per prendere parte all’ennesima guerra. 
 
Dopo le fallimentari campagne militari nella ex Jugoslavia, in Iraq e in Afghanistan; dopo l’attacco alla Libia, dopo l’appoggio ai bombardamenti israeliani in Palestina e i tanti conflitti foraggiati sotto banco e fatti combattere ad altri, si cercano nuovi nemici. Le motivazioni, come al solito, sono buone per il cabaret: Assad è un dittatore cattivo e usa i gas contro i “ribelli”. La realtà è un’altra: l’utilizzo dei gas è stato fatto da parte dei “ribelli” e, non a caso, Assad è un Presidente che ha azzerato la disoccupazione, migliorato i servizi, rifiutato le ingerenze del Fondo Monetario Internazionale e sviluppato una politica fondata sulla sovranità, poco avvezza al servilismo verso Washington. Schierati con noi al fianco del popolo siriano, contro l’egemonia imperialista americana, per il rispetto della sovranità, della libertà e dell’identità.
 
A Casaggì Valdichiana verrà analizzata la situazione siriana. L'evento con dibattito e proiezioni verrà condotto da Giovanni Feola,responsabile del Fronte Europeo per la Siria - associazione nata nel 2013 che raccoglie tutti i sostenitori e simpatizzanti europei della causa siriana - e Ouday Ramadan,rappresentante della comunità siriana in Italia.
La proiezione di documentari d'eccezione servirà per meglio comprendere le dinamiche della guerra civile siriana,la condizione dei civili e l'oscurantismo dei mas media occidentali. 
Casaggì Valdichiana, nel giorno in cui festeggia il suo primo anno di attività,a partire dalle ore 18 affronterà le ragioni e le conseguenze di un conflitto che ha coinvolto e tuttora coinvolge l'intera Comunità internazionale.
VENERDì 18 OTTOBRE
DALLE 18 APERITIVO
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A SEGUIRE DIBATTITO E PROIEZIONI 
CON OUDAY RAMADAN E GIOVANNI FEOLA:
LA SIRIA: AVAMPOSTO DI LIBERTA'
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CASAGGì VALDICHIANA - VIA DEL POGGIOLO 3
Montepulciano (Siena)

lunedì 14 ottobre 2013

In alto i cuori, i gagliardetti al vento...



di Mario M. Merlino (ereticamente.net)
Già Ernst von Salomon, ne I Proscritti, aveva narrato con pagine di forte impatto descrittivo l’ostilità del proletariato berlinese verso gli uomini dei diversi movimenti nazionali, Corpi Franchi o dei vari tentativi di colpo di stato. Con la Battaglia di Berlino Joseph Goebbels ci fornisce privilegiata testimonianza di quei sette anni in cui, giorno dopo giorno, si mosse e crebbe e vinse il Partito Nazionalsocialista, conquistando prima la capitale, città refrattaria e cosmopolita, e poi consegnando il potere al Fuehrer. Perché – e lo scrive appunto lo stesso futuro ministro della propaganda – chi fa sua la piazza dominerà il cuore stesso dello stato. E fu impresa epica anche perché, nella metà degli anni ’20, esso era fenomeno tipicamente bavarese. Qui era nato il Partito Operaio Tedesco e qui Hitler aveva tentato, nel novembre del ’23, il putsch di Monaco. E fu proprio Goebbels, superata la diffidenza e i contrasti con Hitler, che si adoperò, tanto simile a un missionario al servizio dell’Idea, a imporre il verbo nazionalsocialista al di fuori del bastione meridionale.
Dunque un libro di memorie d’un tempo eroico con il partito ridotto nei ranghi e diviso in interna contesa, sprezzante e ostile a farsi comandare da uno sconosciuto capo la cui origine austriaca e il risiedere a Monaco non giocavano a suo favore. (Tuttora oggi permane un certo disprezzo verso i tedeschi del Sud, i bavaresi, con accenti e ironia che ricordano tanto certe forme legate al costume intorno alla nostra ‘questione meridionale’…). Quell’essere in pochi a volere, comunque e nonostante tutto, andare oltre la miseria del presente perché i grandi sogni si vivono ad occhi aperti (lo ricordava Lawrence d’Arabia) e in strada (lo ricordava Céline), induce il dottor Goebbels a dedicare il libro, questa sorta di diario appassionato ed esaltante, ‘alla vecchia guardia berlinese’. Un doveroso omaggio perché il sangue versato – furono in 170 i caduti della Rivoluzione – l’impegno e il sacrificio quotidiano divengano lavacro purificatore e scuola di formazione per le future giovani generazioni.

(Doverosa parentesi, io credo. Le rivoluzioni nazionali del XX secolo non si lasciano ingabbiare nella prigione ideologica dove, come scriveva uno dei tanti intellettuali vittime dell’illusione e inganno comunista, si finisce per identificare una sardina con un possente cavallo da corsa. E sarebbe interessante, aggiungo io inoltre, quanto proponeva Carlo Marx, ormai in rotta con la sinistra hegeliana, in quell’opera, intitolata proprio l’Ideologia Tedesca, abbandonata dopo il decreto di espulsione nei suoi confronti dal governo francese del Guizot alla vigilia del ’48 e venuta alla luce in un polveroso baule ai primi del ‘900 all’università di Monaco. Qui essa, cioè l’ideologia, viene espressamente definita quale ‘mistificazione della realtà’, ulteriore segno del divario tra il pensiero dell’ebreo di Treviri e dei suoi estimatori. Le rivoluzioni nazionali propongono delle testimonianze, degli esempi, la stele dei ‘camerati’ caduti in combattimento sotto il piombo comunista, come avvertiva Robert Brasillach durante uno dei suoi viaggi in Germania. La dottrina nasce solo attraverso l’azione, ‘in quantità di sacrificio ed amore’ e il Fascismo italiano, tramite lo squadrismo, fu anche in questo principio).

Vi era un eroe della causa nazionale e di quella socialista: il capitano, già combattente della Grande Guerra e poi dei Corpi Franchi in Alta Slesia, Albert Leo Schlageter catturato e condannato a morte dai soldati francesi al tempo dell’occupazione della Ruhr, il 26 maggio del 1923 nei pressi di Duesseldorf. Egli era stato elevato ad eroe e martire sia dalle formazioni nazionaliste e sia dai comunisti (nella comune visione della difesa del territorio nazionale e della lotta contro le potenze del capitale tese a strozzare la Germania prostrata).
Ad esso Goebbels seppe affiancare e farne mito principale della propaganda dei sentimenti della visione eroica della vita ben spesa per l’idea nazionalsocialista un giovane caduto proprio nella lotta per la conquista di Berlino, Horst Wessel, di anni 19, militante delle SA. E il suo nome diede il titolo a quel canto divenuto inno ufficiale dietro lo sventolio delle bandiere il rullo dei tamburi il passo cadenzato di uomini giovani e donne in marcia volti a far proprio il domani…
‘Die Fahne hoch die Reihen fest geschlossen – SA marschiert mit ruhig festem Schritt – Kam’raden die Rotfront und Reaktion erschossen – marschier’n im Geist in unsern Reihen mit’. Horst Wessel era nato nel 1907 a Bielefeld, piccola località nel cuore della foresta di Tautoburgo dove si narra che Arminio avesse sterminato tre legioni romane nell’anno 9 d.C., da padre pastore luterano e trasferito a guidare la parrocchia di San Nicola a Berlino. Nel 1926 Horst, dopo regolari studi scolastici, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza Friedrich Wilhelm sul viale più famoso della capitale del Reich, l’Unter den Linden.
 
Fin da giovanissimo egli aveva aderito a formazioni nazionaliste e con tanto ardore che la madre, timorosa per quel figlio sempre pronto a buttarsi nella mischia, l’aveva inviato a studiare a Vienna. La morte del fratello in un incidente di montagna lo riportò a Berlino e a rinnovare il suo impegno politico. L’incontro con Goebbels lo porta a divenire uno dei responsabili più attivi dei vari reparti d’assalto ( Sturmabteilung da cui SA) nella zona della centralissima Alexanderplatz, luogo di vita frenetica ove prostitute e bordelli ne rappresentavano bene il clima (più tardi la sinistra si sforzerà di gettare fango sulla sua figura insinuando come egli fosse un protettore e la sua compagna Erna come una puttana).
 
Fu una cellula del Fronte Rosso che decise di punire la sua attività a favore del Nazional-socialismo. La mattina del 14 gennaio 1930 un gruppo di comunisti riuscì a farsi aprire la porta di casa e gli sparò contro senza che egli avesse il tempo di mettersi in piedi e reagire, colpendolo mortalmente alla mandibola. Trasportato in ospedale l’agonia durò fino alle ore 6,30 del mattino del 23 febbraio. 
Il tempo la guerra la sconfitta la demonizzazione… a noi rimangono quei versi, quel ritmo cadenzato e severo (nel pomeriggio di quel 12 dicembre 1969, mentre le bombe scoppiavano a Milano e Roma e si predisponevano intrighi losche strategie infamia di quella stagione, ascoltavo Riccardo suonare proprio la Horst Wessellied in un arrangiamento sincopato al pianoforte…). E ci rimane l’invito a vedere quale nemico di sempre non più tanto il fronte rosso, ormai in declino e ridotto in becero antifascismo, ma quella reazione di cui la globalizzazione il potere monetario e la bandiera a stelle e strisce ne impersonano l’imperio...

sabato 12 ottobre 2013

Una grande serata con il "Che" a Casaggì...



Sala piena e tanta gente in piedi. Quello sul "Che" era un evento atteso: curiosità, stupore e confronto hanno animato dal primo all'ultimo momento un evento che Gabriele Adinolfi ha saputo gestire al meglio, tracciando un profilo inedito del guerrigliero argentino e rispondendo con precisione alle domande e alle critiche del pubblico. 
Qualcuno si era stupito, perchè non avrebbe mai immaginato che anche a destra si potesse parlare di quella che, invece, certa sinistra, ha ridotto ad un'icona pop. Ma qualcuno non sa che, senza alcun complesso di inferiorità, il nostro mondo è stato il primo a tributare omaggi a Guevara. Lo fecero gli artisti del Bagaglino con la canzone "Addio Che"; lo fecero i fascisti che parteciparono al primo sessantotto; lo fecero tanti movimenti in tutta Europa; lo hanno fatto e lo fanno tante figure e tante realtà che animano questa parte politica. Lo continua a fare chi riconosce, pur senza dimenticarne la collocazione di fondo, l'abnegazione e il romanticismo del Che, il suo continentalismo, la sua capacità di andare a cercar la bella morte...
Una serata di sintesi e di scambio, un momento ricco, di libertà totale e di superamento di schemi preconcetti, pregiudizi e frasi fatte. Il senso dell'evento è chiaro: anteporre l'analisi al giudizio e allargare la mente, rifuggendo ciò che è scontato, banale e configurabile a priori. Del resto, una tradizione identitaria che sa tributare i giusti onori a chi lotta, non avrebbe potuto fare altrimenti.

giovedì 10 ottobre 2013

L’Accademia ceca candida all’Oscar “Burning bush” il film su Jan Palach...

 tratto da Barbadillo.it

L’Accademia cinematografica della Repubblica ceca ha candidato all’Oscar il film sul martire per la libera Jan Palach intitolato “Burning bush”. La pellicola sintetizza una serie tv ispirata alla morte dello studente di Praga, diretta dalla regista Agnieszka Holland. E’ proprio la Holland è stata l’anima di questo progetto avendo vissuto in prima persona le vicende della repressione sovietica in Cecoslovacchia: al tempo, nel 1968, studiava cinema a Praga e partecipò alle manifestazioni di piazza contro l’Urss.
Oltre alla morte di Palach, l’opera racconta la figura di Dagmar Buresova, l’avvocato che difesa in tribunale il gesto dello studente, preservandone coraggiosamente la memoria dagli schizzi di fango della propaganda che lo voleva far apparire una spia occidentale o un pazzo: tanto la donna quanto il fratello di Jan sono vivi e hanno apprezzato lo sceneggiato che adesso concorrerà per l’Oscar.
La serie “Burning bush” sarà trasmessa anche in Italia: i diritti sono stati acquistati dalla Rai e le puntate della fiction saranno programmate su RaiTre.


mercoledì 9 ottobre 2013

Il ribelle Che Guevara e il tributo musicale ‘da destra’ di Ferri-Pingitore nel ’68...

 di Giorgio Ballario (Barbadillo.it)

Quarantasei anni fa a La Higuera, un minuscolo villaggio sulle montagne boliviane, alcuni colpi d’arma da fuoco misero fine alla vita intensa, avventurosa, generosa e controversa di Ernesto “Che” Guevara. A sparargli, mentre era ferito e prigioniero, furono i soldati delle forze antiguerriglia boliviane, ma il colpo di grazia, pare, venne dato da Felix Rodriguez, un agente della Cia.

A quasi mezzo secolo di distanza è difficile scrivere senza retorica di un uomo che è diventato un’icona della seconda metà del XX secolo, e ancor oggi rappresenta un simbolo universale. E come tutti i simboli è stato sfruttato e distorto a destra e manca, per ragioni politiche, culturali e finanche commerciali. A cominciare dai suoi ex compagni di lotta, Fidel Castro e i dirigenti della rivoluzione cubana, che pur essendo entrati in contrasto con Guevara su molti punti, approfittarono della sua morte per trasformarlo in un “santo” laico, così come era già stato fatto con Camilo Cienfuegos.

Non è rimasto molto dei sogni e degli ideali che animarono la vita del “Che”: la rivoluzione cubana e il progetto, forse ingenuo, di dar vita a una sollevazione totale dell’America Latina contro lo scomodo vicino yanqui. Eppure la figura del ribelle argentino – perché questo era il giovane Ernesto, prima ancora che un guerrigliero rivoluzionario – continua ad affascinare le giovani generazioni.

Un fascino pre-politico, romantico e universale. Perché Ernesto Guevara, al di là di ogni considerazione storica, politica e ideologica, rappresenta a suo modo l’archetipo dell’eroe. Dell’uomo che assume su di sé un compito, un’impresa collettiva, e cerca in modo disinteressato di portarla a termine, costi quel che costi. Nel caso, pagando anche con la propria vita.
«Beato il popolo che non ha bisogno di eroi», scriveva Bertolt Brecht. E si sbagliava. Perché da che mondo è mondo tutti i popoli hanno avuto bisogno di eroi. E quando vengono meno questi ultimi, è segno che il popolo stesso si sta disgregando, sta marcendo o è già mezzo putrefatto. Pronto per finire nel dimenticatoio della storia ed esser sostituito da altri popoli.
l'altro cheÈ per questo motivo che la figura simbolica di Ernesto Guevara è sopravvissuta alla sua morte, alla fine del comunismo, al lento disfacimento della rivoluzione cubana e al crollo delle ideologie. Ed è per lo stesso motivo che il guerrillero heroìco viene ricordato persino da chi, apparentemente, si trova agli antipodi della sua parabola politica. Come ha sottolineato anni fa Mario La Ferla nel volume “L’altro Che” (Stampa Alternativa), già da molti anni gruppi culturali e formazioni politiche di destra hanno rivalutato la figura del guerrigliero argentino.

 E non è un caso che già nel 1968, a pochi mesi dalla sua morte, il primo omaggio italiano a Guevara provenne dalla compagnia teatrale del Bagaglino, notoriamente schierata a destra. Fu Gabriella Ferri a interpretare la canzone “Addio Che”, con testo di Pier Francesco Pingitore e musica di Dimitri Gribanovski. Le parole dicevano: «Addio Che, la gente come te non muore nel suo letto, non crepa di vecchiaia. Addio Che, sei morto nella valle e non vedrai morire la tua rivoluzione. (…) Addio Che, come volevi tu, sei morto un giorno solo e non poco per volta. Addio Che, a piangere per te verremo di nascosto le notti senza luna. Addio Che». Era il “lato B” del singolo “Il mercenario di Lucera”, interpretato da Pino Caruso.

martedì 8 ottobre 2013

Foibe. Addio a Licia Cossetto, sorella di Norma: raccontò l’orrore dei comunisti slavi...

da barbadillo.it


Licia Cossetto è deceduta durante un viaggio verso Trieste per commemorare il 70° anniversario della morte della sorella Norma, la studentessa seviziata e uccisa nel 1943 dai partigiani jugoslavi in Istria e gettata nella foiba di Villa Surani di Antignana (attualmente Tinjan in territorio croato).
 

Licia Cossetto vedova del capitano dell’Aeronautica Tarantola, 90 anni, si è spenta attorno a mezzogiorno di sabato nei bagni dell’autogrill di Calstorta Sud, al confine tra le province di Venezia e di Treviso, sull’autostrada A4. L’anziana maestra era partita alle 7,30 dalla sua abitazione di via Pascoli a Ghemme in compagnia della docente liceale Rossana Mondoni (biografa di Norma) e del marito Daniele Comero. “Erano diretti a Trieste – dice la vicina di casa Angela Tosi – per partecipare alla commemorazione per la morte della sorella Norma che per una tragica coincidenza era morta infoibata nella notte tra il 4 e 5 ottobre 1943. Ogni anno in questi giorni si rattristava perché il peso dei ricordi per quei traumatici eventi si faceva sentire“.
 

“Non smise mai di chiedere a gran voce un giusto riconoscimento per tutti gli istriani, fiumani e dalmati e naturalmente per la sorella Norma, seviziata, uccisa e infoibata da una banda di titini”: lo ha affermato in una nota l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. “Ricevette – ha scritto il presidente Antonio Ballarin – dal Presidente Ciampi la Medaglia d’oro per Norma, con la motivazione: “Giovane studentessa istriana… imprigionata dai partigiani slavi, veniva lungamente seviziata e violentata dai suoi carcerieri e poi barbaramente gettata in una foiba. Luminosa testimonianza di coraggio e di Amor patrio”. La figura e l’esempio della signora Licia, instancabile testimone del martirio della sorella Norma e del padre Giuseppe, restano e resteranno impressi indelebilmente nei cuori e nello spirito degli esuli”.
 

Unanime cordoglio anche dagli esponenti di tutte le associazioni: “In un anno sono mancati Ottavio Missoni, Maria Pasquinelli, altri e ora Licia Cossetto, testimoni di un mondo che il tempo sta dissolvendo ma che non dimentica, anche grazie al testimone consegnato alle nuove generazioni“, ha puntualizzato Renzo Codarin.
 

L’intervista a La Padania


Così Licia Cossetto raccontò a Barbara Mapelli la persecuzione etica subita dalla sua famiglia dai partigiani comunisti slavi: ”Noi abitavamo a Santa Domenica di Visinada, un piccolo paesino dell’Istria. Mio padre, Giuseppe Cossetto, era stato commissario governativo delle casse rurali per la Provincia, ufficiale della Milizia e podestà per molti anni. Fino all’8 settembre del 1943 non avevamo mai avuto problemi, tutti ci volevano bene. Dopo l’8 settembre, i comunisti del paese cominciarono a ribellarsi, a spaccare e a rubare ogni cosa. Armi in pugno, entrarono in casa nostra e ci portarono via tutto, tra insulti e minacce. Eravamo terrorizzate. Mio padre non c’era perché era stato richiamato a Trieste, quindi ero rimasta sola con mia madre e mia sorella Norma. E proprio sua sorella divenne preda dei banditi… Sì, nei giorni successivi cominciarono a tormentarla. Avevano messo gli occhi su di lei, anche perché era una bella ragazza. Vennero a prenderla due o tre volte, per poi rilasciarla e rimandarla a casa. Le prime volte no; cercarono di lusingarla in modo subdolo. Le promisero libertà e mansioni direttive se avesse accettato di aggregarsi a loro, ma Norma ha sempre risposto che era italiana e voleva rimanere tale. Vennero a prenderla per l’ultima volta il 26 settembre del 1943. L’arrestarono e la portarono nella ex caserma dei carabinieri, successivamente la trasferirono a Parenzo, nella ex caserma della Guardia di Finanza. Assieme a Norma, catturarono anche altri miei parenti, conoscenti e amici. Incarcerarono anche me, ma grazie ad un mio compagno di scuola riuscii ad uscire. Con mio cugino, Pino Cossetto, andai a Parenzo dov’era incarcerata Norma. La trovai molto provata, in lacrime. Parlai con uno dei carcerieri dicendogli che mia mamma era disposta a pagare purché lasciassero libera mia sorella. Lui mi rispose: “Non si preoccupi, questa sera li liberiamo tutti”. Invece? Era una bugia. Quella stessa sera portarono i prigionieri ad Antignana, all’interno di una scuola e fecero fare quella orrenda fine a mia sorella. Dapprima, la rinchiusero in una stanza da sola, la legarono ad un tavolo con delle corde o del filo di ferro e la violentarono. Pensate, abusarono di lei 17 persone! A “divertimento” finito, la gettarono nella foiba di Villa Surani. Quando recuperarono il corpo martoriato di Norma, una signora si avvicinò a me e mi disse che aveva visto ogni cosa dagli spioncini delle finestre. L’aveva sentita piangere, chiedere dell’acqua e chiamare la mamma”.

lunedì 7 ottobre 2013

Pecore e lupi...



di Marco Cedolin (il Corrosivo)
 
 
Chiunque abbia avuto la sventura di vivere in Italia gli ultimi decenni è stato costretto a sperimentare sulla propria pelle il progressivo sgretolamento di un paese, smantellato pezzo per pezzo da una classe dirigente interessata unicamente al mantenimento del proprio status quo.
 
Anno dopo anno, prima lentamente, poi a ritmo sempre più incalzante, si è assistito all’annientamento dei diritti dei cittadini, all’eutanasia del sistema lavoro, allo smantellamento di un sistema sociale consolidato, alla precarizzazione di qualsiasi rapporto esistente fra l’essere umano e la realtà nella quale egli si trova ad interagire....
I risultati di questo lungo percorso a ritroso, imposto agli italiani attraverso l’uso del bastone e della carota, dovrebbero essere ormai chiari agli occhi di tutti.
 
I giovani si ritrovano oggi nell’impossibilità di costruire un futuro, sulla falsariga di quanto hanno fatto i loro nonni ed i loro genitori. Manca qualsiasi prospettiva occupazionale che consenta loro di aspirare alla creazione di una famiglia e alla realizzazione di una vita autonoma, e molto spesso una volta terminati gli studi inizia un calvario composto da occupazioni occasionali mal retribuite, frustrazione e senso d’impotenza, destinato a protrarsi indefinitamente nel tempo. 
 
Larga parte degli adulti non vive sicuramente una situazione migliore, deprivata com’è di tutte quelle sicurezze che avevano contribuito alla stabilità delle generazioni precedenti. La mancanza della capacità di costruire un reddito sufficiente per fare fronte alle proprie responsabilità, il terrore di venire risucchiati insieme alla propria famiglia nel tunnel della povertà e dell’indigenza, la progressiva sparizione di qualsiasi punto di riferimento concreto al quale aggrapparsi, rendono sempre più la vita di troppe persone simile ad un calvario dal quale non esiste modo di affrancarsi. 
 
Anche gli anziani, ormai giunti nella fase finale della propria esistenza, si ritrovano a vivere una situazione carica di angoscia. Determinata in molti casi non solamente dalla necessità di sopravvivere con una pensione spesso insufficiente a garantire un’esistenza dignitosa, ma anche dalla frustrazione derivante dal vedere arrancare i propri figli ed i propri nipoti, all’interno di esistenze precarie, deprivate di ogni prospettiva. Alla luce di questa situazione contingente non si può evitare di domandarsi come sia stato possibile arrivare fino a qui, senza che gli italiani abbiano manifestato durante il percorso una qualche reazione, senza che abbiano sentito la necessità di ribellarsi a qualcosa che veniva impropriamente spacciato come ineluttabile pur non essendolo affatto, senza che diventasse un bisogno immanente la necessità di dire basta.
 
“Una nazione di pecore non può che avere un governo di lupi”, recita una celebre frase del giornalista americano Edward R Murrow. Non esistono sicuramente dubbi sulla natura dei lupi che ci hanno condotto dove siamo adesso, così come è forte la consapevolezza che la scelta suicida di “farsi pecore” da parte degli italiani sia stata fra tutte quelle possibili in assoluto la più scellerata.

sabato 5 ottobre 2013

Urbanistica fascista: il caso Apuania, la provincia scomparsa...

di Marco Valle, Secolo d'Italia
 
 
Qualche anno fa Paolo Nicoloso, studioso di storia dell’architettura del Novecento, nel suo “Mussolini architetto, propaganda e paesaggio urbano nell’Italia fascista” (Einaudi) — un lavoro importante, critico e non inutilmente fazioso —, fu costretto ad ammettere che: «in Italia, il senso di appartenenza a una comunità nazionale è assai debole e il patrimonio architettonico è una straordinaria risorsa su cui costruire le basi dell’identità. Ma proprio a questo scopo l’architettura è stata utilizzata dal fascismo in modo eccellente, come mai nessuna nazione moderna aveva fatto… di nuovo, “l’arcana potenza” di quest’arte ritorna a produrre suggestioni collettive. Alla fine, il disegno di Mussolini, di parlare ai posteri del fascismo attraverso l’architettura, appare dunque vincente».
 
 
Una valutazione forte che sollevò a sinistra — la destra, come al solito, era in altre cose affaccendata…—  un dibattito importante. Su “Liberazione” Lucia De Vezio scrisse una densa recensione dell’opera di Nicoloso, significativamente intitolata “Sta vincendo Mussolini?” ricordando, in primis, che già «Piero Della Seta e Roberto Della Seta in un testo fondamentale (“I suoli di Roma”, Editori riuniti, 1988) hanno analizzato approfonditamente la politica fondiaria del fascismo, smentendo le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica fascista e quella dei governi democristiani, arrivando a concludere che “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”. L’emancipazione dagli interessi speculativi è stata evidentemente una condizione essenziale per consentire all’architettura di svolgere al meglio quella funzione rappresentativa e simbolica che Mussolini le attribuiva». La De Vezio concludeva, concordando con l’autore, che «amaramente si registra una sorta di rivincita del fascismo, a partire proprio dall’architettura. È in sostanza la presa d’atto di una più generale crisi della cultura e della politica (a cominciare da quelle di sinistra) che non hanno saputo fornire all’opinione pubblica italiana, e ai giovani soprattutto, un’alternativa efficace alla “fascinazione” fascista».
 
 
Qualche tempo dopo, Paolo Portoghesi — antico incendiario postmoderno e oggi pompiere accademico —, ammise in un suo articolo su “L’Osservatore Romano” — sic transit…— non solo il valore del libro di Nicoloso ma anche, con qualche inevitabile banalità, le ragioni di Mussolini “architetto e urbanista” e soprattutto riconoscendo, finalmente, che «i razionalisti italiani, i critici come Bardi, Bontempelli, Belli e gli architetti come Pagano, Terragni, Moretti, erano dei convinti fascisti e tentavano la difficile impresa di italianizzare e quindi fascistizzare il razionalismo puntando sulla radice “mediterranea” e sulla vocazione mistica dell’astrattismo. Alcuni, come Michelucci, Cosenza e anche Pagano, cercavano radici e archetipi nella modernità della tradizione popolare dell’architettura senza architetti».
 
 
Insomma, una rivalutazione imbarazzata ma piena del grande sforzo modernizzatore dell’esperienza mussoliniana che, come ricorda proprio Portoghesi, ha rivelato «la capacità di definire una forma urbana che, nonostante la magniloquenza, si è rivelata adatta alle esigenze della vita collettiva assai più di certi quartieri del dopoguerra, ispirati dalla retorica collettivista».
 
 
Al tempo stesso, sulla scia del successo dei libri di Pennacchi sulle bonifiche pontine e le “città di fondazione” e, soprattutto, della sua lettura, magari confusa ma innovativa, della dialettica città-campagna, ruralismo-industrializzazione del sulfureo ventennio, la polemica sui meriti o demeriti della politica architettonica e urbanistica del regime si è ravvivata e arricchita. Ma non solo. In questi anni — nel silenzio dell’ex destra di governo, imbarazzata dinanzi a questa inattesa “rivincita mussoliniana” — sempre più storici hanno iniziato, con gran disappunto di vetero azionisti torinesi come De Luna e Revelli, ad indagare i tanti aspetti misconosciuti della modernizzazione autoritaria italiana. Senza sconti e senza paraocchi.
 
 
Pensiamo, ad esempio, ai saggi di Eugenio di Rienzo ed Emilio Gin sulla diplomazia fascista e le intricate problematiche del periodo bellico, ai lavori di Marino Ruzzenenti e Mauro Canali sulle politiche energetiche mussoliniane o alla ricerca di Stefano Pisu sulla cinematografia e i rapporti culturali italo-sovietici.
 
 
Un laboratorio futurista tra le Apuane e il Tirreno
 
 
L’elenco potrebbe continuare ma preferiamo fermarci e riflettere su un libro decisamente interessante: “Apuania, provincia di fondazione” di Paolo Camaiora (Eclettica edizioni, Massa, 2013. Ppgg. 200 – euro 25,00). L’autore, carrarese Doc, è un architetto innamorato del razionalismo e della sua terra e, fortunatamente, poco attento ai dettami del “politicamente corretto”. Supportato da un ricco apparato iconografico e documentale, Camaiora ha indagato, intrecciandoli — in un viaggio interdisciplinare, secondo l’insegnamento di Bloch e Braudel — i mutamenti sociali e politici e le politiche urbanistiche e amministrative della provincia di Massa e Carrara nel periodo tra le due guerre. Una scelta adeguata e intelligente, purtroppo appesantita un eccesso di vis polemica che rischia di penalizzare inutilmente un lavoro altresì serio e importante.
In ogni caso, ripercorrendo le vicende di questo frammento d’Italia il lettore di cultura non ovvia, accanto e oltre alla storia locale, troverà ulteriori lenti per comprendere le logiche e le dinamiche che sottintesero l’imponente sforzo di modernizzazione e razionalizzazione dell’Italia attuato dal regime.
 
 
Facciamo un passo indietro. Negli anni Venti, complice la grande crisi mondiale, l’antico dominio estense si era ridotto ad un’area depressa, terribilmente povera e sempre incatenata all’oscillante economia marmifera. Per di più, nonostante i mutamenti politici, il territorio rimaneva straziato dalle tensioni municipaliste tra Massa e Carrara e avvelenato da solidi rancori sociali. Una situazione insostenibile per l’Italia “fascista e proletaria”.
 
 
Su impulso di Renato Ricci, capofila del fascismo locale e allora Presidente dell’Opera Nazionale Balilla, e di Osvaldo Sebastiani, nel 1937 fu decisa la realizzazione di una grande zona industriale — il piano Sebastiani —  a cavallo tra le due città e, nel ’38, venne istituita la ZIA (Zona Industriale Apuana). In tempi record furono sistemati e bonificati i terreni, canalizzati fiumi e torrenti, posati binari, costruite banchine e, subito dopo, innalzati gli stabilimenti. Nell’arco di pochi anni, circa sessanta aziende — attratte dai generosi sgravi fiscali — s’impiantarono nel distretto e ottomila persone trovarono lavoro.
Un successo pieno a cui corrispose un parallelo piano urbanistico che prevedeva la fusione dei tre centri interessati — Carrara, Massa e Montignoso — in un unico nuovo comune, Apuania. Come sottolinea l’autore «nel caso specifico, l’ambizioso progetto di sviluppo non prevedeva soltanto quello industriale, ma anche quello abitativo. La fusione delle tre città in una sola, la realizzazione dei viali a mare e dei viali perpendicolari alla costa, le reti viarie secondarie, altro non erano che assi di demarcazione dello sviluppo urbano del territorio dove, però, ferree erano le disposizioni in materia di costruzione e di edificabilità».
 
 
Sotto la supervisione di Ricci — che, da uomo intelligente, si avvalse dei consigli di Enrico del Debbio, l’architetto del Foro Mussolini a Roma, e dallo scultore Arturo Dazzi — il paesaggio cambiò volto e fisionomia. Il piano regolatore dell’epoca, parzialmente realizzato e nel dopoguerra stravolto, esprimeva «insieme con una visione moderna dell’assetto territoriale, anche un’idea dei rapporti sociali: le case economiche localizzate in aree vicine alle attività produttive o nelle fasce più interne, mentre villini e palazzine collocate sugli assi viari principali». Gran parte dei progetti rimasero sulla carta, ma gli edifici realizzati a Carrara — il Palazzo delle Poste e la sede della Gioventù Italiana del Littorio — e a Massa — i grandi stabilimenti della Zona Industriale—, le colonie marine sulla costa e i nuovi borghi delle zone bonificate, testimoniano tutt’oggi l’ampiezza e la forza innovativa del progetto.
 
 
Nel 1938, a sigillo e garanzia del piano di sviluppo, il governo fascista volle chiudere in modo drastico le diatribe municipaliste e decise non solo d’unificare, come sopra accennato, i tre centri maggiori in un unico grande Comune, ma di fondare una nuova Provincia, anch’essa di nome Apuania. Una scelta coraggiosa che seppelliva polemiche passatiste, razionalizzava funzioni e servizi e formava un’area socio-economica organica e funzionale al sistema Italia. Come nota Camaiori, Apuania fu «la risultante di un’operazione futurista, cioè proiettata nel futuro, partendo dal risolvere il dato oggettivo, sociale, della povertà che affliggeva la popolazione».
 
 
L’esperienza ebbe vita breve. Nel 1946, uno degli ultimi atti d’Umberto di Savoia fu proprio la cancellazione dell’effimera “Provincia di Fondazione”. Da allora, sotto le Apuane si tornò all’ordinamento post unitario e il vecchio, misero municipalismo — un impasto di grettezza, invidie e “pensieri corti” — ritrovò da spazio e fiato.
 
 
Di quel tempo ormai lontano e irripetibile restano, in Toscana come ovunque in Italia e nelle antiche colonie, le architetture. Gli edifici, le opere. Sono simboli potenti, che sfidano gli anni, i secoli. Come teme Nicolosi «le loro forme sono concepite per non essere consumate come moda passeggera, bensì per resistere nel tempo ed essere attuali “anche tra 400 anni”. L’architettura “con la sua costante presenza, modifica a poco a poco il carattere delle generazioni”, si legge nel Dizionario del fascismo, testo ufficiale del PNF. Essa dovrà ravvivare, per chi la vede, al tempo di Mussolini o tra qualche centinaio d’anni, un sentimento di appartenenza a una civiltà italiana e fascista, antica e superiore». Parole su cui riflettere.