lunedì 29 settembre 2014

PIL tra canne, bombe e transgender...


di Lorenzo Lipparelli (L'Intellettuale Dissidente)

Quello architettato, come sostiene l'ISTAT, “l'aiutino concesso”, non è che un ulteriore doping al già dopato ed ormai esausto cavallo tante volte ricordato da Massimo Fini. Oltre a ingozzare dibattiti sterili, acquisire (per loro uso) informazioni economiche e sociali, e sollevare il PIL di qualche punto percentuale procrastinando per altri mesi-anni l'imminente franata dell'establishment europeo, a poco altro si rende utile l'ennesimo buffonesco tentativo di autoconservazione.

Eccoci. Se alcuni ancora dubitavano, la buffonata del PIL può togliere, oggi, qualsiasi dubbio rimasto. Traffico di droga, prostituzione, e contrabbando di sigarette e alcol dovranno essere inseriti nel conto economico dell’Italia. Ed è quello che l’Istat farà dal prossimo 3 ottobre, attuando le linee guida dell’ l’ufficio statistico della UE. In autunno, infatti, entrerà in vigore in tutta Europa l’ESA 2010 un nuovo sistema di contabilità pubblica destinato ad avere effetti positivi sul valore del prodotto interno lordo di gran parte dei Paesi dell’Unione. L’obiettivo è arrivare a “un’applicazione omogenea degli standard già esistenti”. L’attività illegale invero già da tempo veniva calcolata (come per es. il lavoro nero), tra poco si inizierà solo ad “armonizzarla” nel senso che entrerà propriamente nelle voci del bilancio, assieme ad altre attività come “ricerca e sviluppo”. L’Istat recita: “le nuove regole europee che fanno conteggiare diversamente alcuni aggregati. Tra questi, la parte del leone la fanno le spese in ricerca e sviluppo, ma non c’è un ruolo piccolo anche nelle armi. Pagare un ricercatore o produrre un sottomarino prima era considerato un “costo intermedio”, adesso è un “investimento”, dunque fa PIL.” (regole facenti parte il SEC 2010).
Dunque droghe, armi, e prostitute nei conti pubblici, e l’Istat vince il premio IgNobel, per la ricerca più ‘folle e comica’ in campo economico. Va detto, che ogni pretesto è colto all’estero come buona occasione per deridere l’Italia, infatti, come accennato, il calcolo esteso, oltre ad essere attuato per decisioni europee, sovranazionali, già avveniva da svariati anni sia a livello nazionale (l’Istat per esempio calcola il sommerso economico nel PIL – nel 2008 contribuiva con circa 260 MLD) sia a livello europeo, e anzi in molti paesi oltr’Alpe già si contavano attività illegali o simili. Bisogna inoltre ricordare che ampie parti non verranno ancora calcolate La magia contabile nell’alzare il PIL così biecamente sfacciata costituisce solo un aspetto della faccenda. La realtà è che in un sistema sempre più organizzato e regolarizzato, globalizzato, frenetico, c’è necessità (dall’alto) di avere tutte le informazioni necessarie per muovere le fila da dietro le quinte, come si sa, se questa è l’era del capitalismo, del denaro, del debito, e dei combustibili fossili è certo anche che sia quella dell’informazione. Questa è oggi fondamentale, in tutti i suoi ordini e ambiti. Al riguardo, la struttura europea conta decine e decine di comitati e agenzie fungenti da database di controllo.
Il passaggio dal “legale” “all’illegale” è puramente contabile, economico, freddo: da fuori bilancio a voce di bilancio. Non esistono questioni morali o di etica – queste semmai fungono al mainstream mediatico per ciarlare e ciarlare settimane intere (l’esempio lampante è oggi l’art.18) rincoglionendo tutti coloro i quali ne danno adito – negli Stati nazionali odierni si è solo costretti a eseguire compiti e direttive, e nel tempo libero accaparrarsi la propria fetta, niente di più. A chi proclama in ciò una vittoria, ossia la fine di censure e bigottismi inutili che finalmente faranno emergere situazioni illegali, aumentando addirittura il PIL, c’è ben poco da dire: 1. I dati di chi truffa e di chi paga ben li conoscono chi è autorizzato a conoscerli (infatti dal 2000 al 2012 sono stati accertati – quindi si sa chi e come – 800 MLD di evasione di cui solo 69 effettivamente recepiti); 2. Non sarebbe allora più coerente ed efficacie legalizzarle? La contraddizione è difatti surreale e a poco conta dibatterne – meglio lasciar spazio ai Talk. Infine non esistono, per ora, possibilità di ripresa economica, già lo scorso anno, un documento della Commissione Europea suonava chiaro: andamenti grafici della produzione industriale e della ricchezza dal 2013 al 2023 completamente piatti.
Quello architettato, come sostiene l’ISTAT, “l’aiutino concesso”, non è che un ulteriore doping al già dopato ed ormai esausto cavallo tante volte ricordato da Massimo Fini. Oltre a ingozzare dibattiti sterili, acquisire (per loro uso) informazioni economiche e sociali, e sollevare il PIL di qualche punto percentuale procrastinando per altri mesi-anni l’imminente franata dell’establishment europeo, a poco altro si rende utile l’ennesimo buffonesco tentativo di autoconservazione. Il cambiamento antropologico della società avvenuto riassume in sé ogni diversità, l’immaginario della maggioranza è ormai permeato a pieno nella mentalità Star System assolutizzante gli opposti: apatica e perversa, bigotta e sfacciata insieme; tutto diviene legittimo entrando nel flusso del caos.

venerdì 26 settembre 2014

La caduta dei migliori...


di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

Sin dal tempo delle prime polis greche, l'aristocrazia ed i suoi valori positivi hanno guidato gli affari della cosa pubblica, facendo rispettare la dike (giustizia) e punendo l'hybris (la tracotanza), esercitando così una pressione al tempo morale e al tempo estetizzante sugli altri ceti, che continuamente dovevano rapportarsi e confrontarsi con questi "migliori".

“Noi fummo i gattopardi i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra” (Il Gattopardo, 1963)
La rovina antropologica dovuta ad un certo tipo di sviluppo, oltre ad essere una realtà cittadina e metropolitana, è divenuta prerogativa delle coscienza provinciali. Questo processo etico, ha un suo corrispettivo estetico, un declino, figlio del Novecento, che Pasolini imputava alla Dc. Così come in città si è assistito ad un degrado urbanistico, il paesaggio provinciale è stato deturpato dalla costruzione, negli anni del dopoguerra, di sobborghi in cemento armato che cingono i centri storici sino a soffocarli. L’ammasso seriale e il risparmio sui materiali come costanti dell’architettura moderna hanno creato un’alterazione delle vedute che si stagliano sui fianchi delle colline, mentre sulle alture si slanciano timidi i campanili medievali che raccontano di storie antiche. A questo conflitto tra sacro e profano si aggiunge un attrito intergenerazionale tra vecchi contadini, bottegai, negozianti, parroci e braccianti, e una gioventù americanizzata, più newyorkese che non rurale, vestita di felpe, tute, jeans griffati, con chewingum, peircing, cuffie, cellulari, capigliature identiche a quelle di vip e calciatori, distaccata dalla realtà in cui vive e immersa nel sogno che la tv regala e che la vita ostinatamente toglie. A questi giovani hanno preso tutto o quasi.
La cultura ufficiale ha creato il disprezzo per sé stessi e le proprie radici, ha chiamato tutti al cambiamento, ha derubato le ultime generazioni di quell’armonia che legava in nome della sacralità il contadino alla terra, e che donava a quest’ultimo un naturale istinto mimetico, la simmetria perfetta con il luogo in cui la vita è scandita in base al sole, ai cicli lunari, alle stagioni. Si è tolta loro anche la gestualità, divenuta meccanica, seriale, goffa, mentre il paesano sembra una statua scolpita irrevocabilmente per essere parte essenziale di quell’universo. Eppure questi giovani pur avendo l’immaginario costellato di miti cosmopoliti, metropolitani, surreali, mantengono ancora vivi valori che in città, in cui la corsa al sogno è tremendamente più violenta, sono andati sicuramente perduti prima, tra cui la generosità, l’ospitalità, la pazienza, il sacrificio e in certi casi la devozione. Ma venendo forse il loro mondo sempre più deturpato da quel fenomeno urbanistico che citavamo prima, si è anche incentivata questa fuga immaginaria che si scontra con la realtà sino a creare forme disarmoniche, stonate.
Alle origini di questo fenomeno si situa la recente estinzione, o la caduta, degli aristoi, dei migliori. Se la fine dell’egemonia politica ed economica della nobiltà terriera feudale avviene in Francia con la caduta dell’Ancien Régime durante la rivoluzione francese, e giunge sino a noi un secolo dopo, finalmente l’aristocrazia nel contesto contadino, divenuta piccola nobiltà, ha esercitato, ancora fino alla prima metà dello scorso secolo, un’influenza notevole nelle provincie, partecipando alla vita quotidiana locale. Sin dal tempo delle prime polis greche, l’aristocrazia ed i suoi valori positivi hanno guidato gli affari della cosa pubblica, facendo rispettare la dike (giustizia) e punendo l’hybris (la tracotanza). Così la nobiltà tellurica, ben radicata nel contesto provinciale, ne era parte integrata, come patrona, da un lato, servendo da modello, esempio e simbolo, e serva, dall’altro, obbligata a garantire l’ordine sociale e i valori della comunità.
Il possidente terriero era uomo attivo, partecipe da vicino alle attività agricole e alle festività religiose – spettava a lui, ad esempio, la piantagione degli alberi o la celebrazione delle commemorazioni; era cultore del bello, difensore di un’etica civile, rappresentante di valori positivi, quali la magnanimità, la generosità, il coraggio, esercitando così una pressione al tempo morale e al tempo estetizzante sugli altri ceti, che continuamente dovevano rapportarsi e confrontarsi con questi “migliori”. Da questo confronto si impedivano le derive di cui siamo oggi spettatori, per la crescita intrinseca ad un rapporto di reciprocità verticalizzato. Pensiamo appunto a Don Fabrizio del Gattopardo, o alla nobiltà descritta ne Il rosso e il nero di Stendhal. Con la recente sostituzione del mercante, del palazzinaro e del costruttore all’agathos, il rapporto diviene inevitabilmente orizzontale, immobile, e con la perdita di slancio, con l’appiattimento dell’etica alla “ragione economica”, si sono distrutti i canoni estetici e morali, si è cambiata in definitiva l’antropologia delle nuove generazioni, sempre meno rispettose delle proprie origini, sempre più estranee a sé stesse.

giovedì 25 settembre 2014

Marino finanzia gli immigrati: 900 euro al mese a chi li ospita...


di Emanuela Fontana (Il Giornale)

Il sindaco di Roma sposa la trovata-choc del Viminale: "Fino a 30 euro al giorno per accogliere figli di stranieri"

Roma - Con i centri per clandestini occupati all'eccesso, quelli per i minori che non si trovano e un numero di sbarchi che non accenna a diminuire, al ministero dell'Interno stanno pensando a una soluzione estrema: proporre alle famiglie l'accoglienza degli extracomunitari in casa.
Trenta euro al giorno per ospitare un rifugiato. Bambino, ma anche adulto. Il rimborso è pagato dello Stato, ed è pari al costo medio di un immigrato nelle strutture di accoglienza del Paese. L'idea sta già sollevando un vespaio di polemiche: molte famiglie bisognose potrebbero accettare la proposta per arrivare alla fine del mese con un quasi stipendio (900 euro) pagato con le finanze pubbliche. Il problema dell'immigrazione non si può risolvere con un affitto di Stato. Chi controllerà le famiglie accoglienti è un altro quesito che si pone. Comunque il progetto ha già un luogo pilota da cui partire.
La proposta è stata rivolta dal sottosegretario all'Interno Domenico Manzione al sindaco di Roma Ignazio Marino, che l'ha accolta con entusiasmo. Roma potrebbe quindi essere la città pilota di un piano di accoglienza casalinga dei rifugiati estendibile a tutta Italia.
La prima emergenza, si è convenuto, riguarda i minori. I ragazzi non accompagnati, che arrivano sui barconi senza genitori, stanno aumentando fino a raggiungere cifre ingestibili: secondo i dati di Amnesty International , su 59.400 migranti sbarcati dal primo gennaio al 22 giugno 2014, più di 9.300 erano minori, dei quali oltre 6.000 non accompagnati. Significa che ogni mese arrivano in Italia dal mare mille bimbi senza genitori, 30 al giorno. I Paesi di origine sono in prevalenza l'Eritrea, la Somalia e l'Egitto. I ragazzini scappano da guerre o da Nazioni dove una bocciatura a scuola significa il servizio militare a vita.
A Roma arrivano tramite passeur di terra, più spesso attraverso associazioni che cercano di condurli in comunità per minori.
Molti da Roma, attraverso altri «Caronti» a pagamento, raggiungono il Nord Europa, o sono trascinati nella rete del lavoro nero, soprattutto nel settore ortofrutticolo, e della prostituzione, a partire dalle stazioni della Capitale.
Il progetto romano prevede quindi l'accoglienza a pagamento da parte delle famiglie in prima battuta dei minori, ma non in via esclusiva: «Insieme al sottosegretario Manzione - ha spiegato ieri il sindaco Marino - abbiamo immaginato la proposta che oltre all'affido di minori, ci possa essere l'affido alle famiglie anche degli adulti, con una partecipazione economica da parte del governo di 30 euro al giorno per l'ospitalità di un migrante adulto nelle nostre città».
In questo momento a Roma sono assistiti 5.112 immigrati tra richiedenti asilo e rifugiati. Marino ha aggiornato i dati sugli ingressi illegali in Italia dopo aver partecipato al vertice di martedì sull'immigrazione al Viminale: a dicembre si teme di arrivare a livello nazionale a quota «150mila»: «Pensiamo che senza alterare il bilancio dello Stato, perché i soldi investiti per ogni migrante sono 900 euro al mese - ha insistito - il fatto di poterli affidare a una famiglia che decide di ospitare un migrante possa creare una situazione di maggiore integrazione sociale». Come avverrà la scelta delle famiglie che eventualmente si proporranno per l'ospitalità è questione tutta da definire. Le prime polemiche non sono tardate: «Lo Stato italiano - scrive su Facebook Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia - non ti dà 30 euro al giorno per mantenere tuo figlio se è disoccupato. La mia proposta è: la Ue paghi l'accoglienza». I 900 euro al mese vadano «alle centinaia di migliaia di italiani disperati». Così si rischia di scatenare, avverte l'ex sindaco Gianni Alemanno, «una guerra tra poveri. Il governo punta sulla disperazione delle famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese».

mercoledì 24 settembre 2014

La parola alle Banche: "bolle e bombe nucleari monetarie"...


di Valerio Lo Monaco (Il Ribelle.com)

A quanto pare anche due soggetti di un certo calibro hanno gettato la maschera. Nei giorni addietro, in rapida sequenza tanto da far sembrare il tutto quasi una messa in scena (a favore di cosa lo vedremo), Deutsche Bank e Mediobanca, rispettivamente, hanno pubblicato i risultati di ampi studi fatti dai loro sedicenti macro-esperti e offerto delle dichiarazioni per sentenziare una cosa di non poco conto: solo una bolla ci può salvare. E non solo.
Per la precisione, la prima Banca ha condotto uno studio sui rendimenti di alcune diverse classi di attivi sui mercati finanziari, e ha concluso che solo negli ultimi venti anni i mercati hanno soprattutto, o meglio innanzi tutto, creato e mantenuto in vita bolle economiche con un solo e unico scopo: ne avevano bisogno.
Letteralmente, Deutsche Bank rileva che “negli ultimi due decenni, l’economia mondiale ha navigato di bolla in bolla con eccessi che non hanno mai avuto la possibilità di attenuarsi. Risposte politiche aggressive hanno incoraggiato a produrre nuove bolle. E questo ha contribuito a fare del moderno sistema finanziario un tema di preoccupazione permanente.” 
Come dire: le bolle sono le condizioni necessarie - sottolineiamo il termine “necessarie” - per mantenere il sistema attuale di gestione della crisi. Come scrive giustamente Stefano Bassi sul suo sito e al quale fa eco un articolo pubblicato su Zero Hedge: “il problema è che questa bolla non può andare da nessuna parte, perché è nelle mani di governi e banche centrali, con regolatori che si assicurano che altri grandi acquirenti rimangano recettivi.
Secondo lo studio, malgrado la bolla perduri per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario, lo scenario più ottimista sarebbe lo scoppio lento, attraverso rendimenti reali negativi per i portatori di obbligazioni. Lo scenario più pessimista sarebbe una futura ristrutturazione. 
Siccome i tassi di interesse tendono ad abbassarsi in gran parte del mondo, in parte per una debole crescita, e che l’indebitamento pubblico tende a svilupparsi, è poco probabile che i portatori di obbligazioni sovrane realizzino un profitto sul medio o lungo termine, a causa della possibilità dell’inflazione o di una ristrutturazione”. 
Ma “quello che nessuno dice, è che solo l’1% beneficia della bolla” – a scriverlo è il portale d’informazione Zero Hedge. “La ricchezza e i redditi di tutti gli altri otterranno progressivamente minori benefici”.
Per quanto riguarda invece Mediobanca, bastino le parole di Antonio Guglielmi su, questa volta, la situazione italiana: «È una catastrofe per le finanze del paese. Stiamo per arrivare a una ratio del debito del 145%». E ancora, in modo ancora più chiaro: «Chi conosce il numero massimo che il mercato tollererà? Il numero è già preoccupante, e il tempo ci dirà se questo gioco di POKER di Draghi si rileverà un successo. Ci vorrebbe una bomba nucleare monetaria per cambiare la situazione. Se Draghi alla fine non farà nessun intervento di rilievo – e c’è molto scetticismo sui piani della Bce – l’Italia è morta».
Beninteso, il fatto che oggi siano Deutsche Bank e Mediobanca, seppure con toni differenti, a sostenere una cosa del genere, è solo uno dei tanti casi dove alla fine, da qualche maglia aperta o non controllata a dovere di una “istituzione” di questo tipo arrivano conferme su ciò che in altri luoghi si teorizzava e cercava di spiegare da anni.
Quello che invece può non essere immediato a prima vista, e che rappresenta il dato più importante da cogliere, è il ragionamento che ne discende, e ne consegue, se si porta il discorso fino in fondo. Del resto, non si può che portare fino in fondo un ragionamento anche solo partendo dai termini stessi usati da questi due colossi: il primo parla di “bolle necessarie”, il secondo della necessità di una “bomba nucelare economica”. Termini non proprio sobri e cauti, a quanto pare.
E dunque, tanto per iniziare, avevano (e hanno) ragione quei pochi che sostengono una cosa del genere da anni, se non decenni. E avevano (e hanno) torto tutti gli altri. Ma proprio tutti. Che a questo punto dovrebbero essere ridotti almeno al silenzio.
In secondo luogo, cosa ancora più importante, se è vero - come è vero - quello che oggi anche Deutsche Bank e Mediobanca affermano, ciò significa che tutto quanto fatto da allora a oggi dai vari governi, tutte le procedure, le sedicenti “riforme”, i sacrifici imposti e la macelleria sociale in ogni ordine e grado in ogni Paese, è servita unicamente a sostenere una truffa finanziaria. Il punto è che non siamo “noi” a dirlo, ma “loro”.
Dal che, una volta scoperto l’inganno e confessato dai soggetti stessi che a vario titolo hanno partecipato al crimine, dovrebbero scaturire alcune riflessioni. E soprattutto azioniper, nell’ordine: fermare immediatamente quanto si sta facendo; processare i colpevoli e condannarli; sequestrare i beni che hanno rastrellato e ridistribuirli a tutti quanti a vario titolo siano stati depredati. Cioè il restante 99%.
Una sacrosanta e giusta conclusione. E una utopia politica, naturalmente, se pensiamo che a tali atti dovrebbe portarci una classe dirigente, quella attuale almeno, che è al servizio delle Banche stesse e di altri attori della speculazione (lobby & finanza, per intenderci). Ma sopra ogni altra cosa si dovrebbe dichiarare, in modo unilaterale e irrevocabile, l’immediata sospensione di qualsiasi pagamento a qualsivoglia organizzazione o istituzione che a vario titolo può far destare anche solo il sospetto di appartenere a quella “banda degli onesti”.
Ad esempio: il nostro debito pubblico è inesigibile, perché a esigerlo sono dei truffatori. E dunque non lo si paga più. Punto. E così via dicendo.
Sono solo in apparenza “parole forti”, le nostre, e vani tentativi di sollecitare rivolte che ovviamente non si vedono all’orizzonte. Ma soprattutto, malgrado l’apparenza di una forma e di una sostanza, quelle che abbiamo usato, da tribuno della plebe (oggi si direbbe da populista) si tratta invece della cosa più evidente e logica - e minima - che si dovrebbe fare.
La prova del nove di quanto sosteniamo è semplicissima, un gioco da ragazzi. Se appare tanto strano (o stralunato) il principio di rifiutarsi di partecipare e anzi dichiarare guerra a questi truffatori mondiali, è certo che dovrebbe apparire molto più strano e “al di fuori della realtà” continuare a fare la parte dei derubati per tutta la vita. O no?
Come dire: il re è nudo, ha per giunta confessato i suoi crimini, ma noi ci ostiniamo a non volerlo tirare giù dal trono. La bolla e la truffa sono qui davanti a noi, ci rastrellano l’anima ogni secondo che passa, ma noi rimaniamo a guardarle, e a subirle, senza muovere un solo dito.

martedì 23 settembre 2014

Perché non riusciamo a comprendere il nichilismo...


di Claudia Grazia Vismara (L'Intellettuale Dissidente)

Parafrasando Heidegger, occorre ammettere che il nichilismo esiste ed è necessario guardarlo in faccia, a viso scoperto, giacché il nulla, per apparire, è sempre mascherato. E’ necessario accorgersi che oggi il non-senso si amplia sotto la maschera dell’unico valore certo che si palesa ai nostri occhi: il valore del denaro.

L’avvento della civiltà della tecnica è caratterizzato da molte condanne tra cui, pare soprattutto in Occidente, la progressiva dimenticanza dell’Essere. E’ sempre esistito il tramonto che successivamente porta alla notte; il primo, fenomeno per cui la luce del sole pian piano si attenua sino a scomparire seguendo la fonte che l’ha generata, è l’immagine perfetta per descrivere il declino dell’Occidente ove la luce dell’Essere compie il medesimo percorso della luce del sole, dissolvendosi nello stesso modo. Sembra addirittura che siano bagliori simili e a cambiare sia invece il modo in cui noi li osserviamo. Il sole viene visto con gli occhi, organi di senso di cui tutti siamo dotati, mentre l’Essere viene visto con gli occhi della mente. Già a questo punto arrivano delle limitazioni, poiché mentre la prima viene vista da tutti, soltanto in pochi hanno colto la seconda, quella dell’Essere. Chi riuscì a scorgerla per prima fu la civiltà greca, circa venticinque secoli fa, mentre chi ne percepì il suo tramonto furono essenzialmente poeti, scrittori e filosofi, tra cui Hölderlin, Schopenhauer, Spengler, Freud, Leopardi, Nietzsche, Mann e Heidegger, alcuni dei più grandi.
Ad ogni modo, questo tramonto porta con sé quell’affare che chiamano nichilismo, un concetto che si attribuisce principalmente al filosofo Friederich Nieztsche. Probabilmente, però, non tutti sanno che l’invenzione di tale parola risale a Ivan Turgenev, scrittore russo, che ne parlò quasi cinquanta anni prima che il filosofo tedesco la riflettesse nei suoi testi. La associamo tuttavia a Nietzsche poiché egli l’ha pensata molto, l’ha discussa nei suoi libri, ha definito il nichilismo come «senso dell’epoca a venire» tanto che, nell’annunciarlo, diceva che ciò che egli andava dicendo lo si sarebbe capito dopo cinquanta anni. Nichilismo significa mancanza di uno scopo, mancanza del perché delle cose al punto che il giudizio viene meno e tutti i valori si svalutano. Dio è morto. Dio, la rappresentazione degli ideali e dei valori immutabili; nichilismo, per Nietzsche, il processo di svalutazione di tali valori.  E’ pur vero che la Storia va avanti proprio perché determinati valori si svalutano in favore di nuovi ed è possibile corroborare tale affermazione assumendo ad oggetto un evento storico fra molti: la rivoluzione francese. Poco prima del luglio 1789 (data simbolo della rivoluzione francese che coincide con la presa della Bastiglia), infatti, ben funzionavano i valori gerarchici, mentre successivamente ne nacquero di nuovi come l’uguaglianza e la cittadinanza – almeno formale. Ovviamente si parla di valori non in termini di significato assoluto e religioso, giacché sono fattori di coesione sociale, ovvero pure e semplici valutazioni umane. Heidegger affermava che il nostro tempo è un tempo di povertà estrema caratterizzato dal fatto che «più non son gli déi fuggiti – i valori precedenti – e ancor non sono i venienti  – i nuovi valori che organizzano la società a venire». Ha parlato di nichilismo passivo, ovvero di decadenza, che ha come sua conseguenza diretta la rassegnazione, ancorché l’individuo si vede realizzato all’interno di un «sano realismo che si accompagna poi ad un deprecabile egoismo». Parafrasando Heidegger, occorre ammettere che il nichilismo esiste ed è necessario guardarlo in faccia, a viso scoperto, giacché il nulla, per apparire, è sempre mascherato. E’ necessario accorgersi che oggi il non-senso si amplia sotto la maschera dell’unico valore certo che si palesa ai nostri occhi: il valore del denaro.
Sorge spontaneo l’interrogativo di come poter discernere il presente e quali strumenti abbiamo a disposizione. La risposta non può ancora essere pragmatica, poiché all’uomo moderno, felicemente omologato, manca la sensibilità che gli consentirebbe di scorgere il presente nella sua totale ed amara natura. Il filosofo Umberto Galimberti ha operato un’interessante riflessione su come percepiamo il mondo, rilevando in tal senso dei livelli di emotività. Parla innanzitutto di impulsi, fisiologici e naturali, che hanno come loro espressione non la parola, bensì i gesti. Subito dopo trova lemozioni, una forma più emancipata dei primi, giacché l’impulso «conosce il gesto, mentre l’emozione conosce la risonanza emotiva di quello che si compie e di quello che si vede». Al livello successivo, l’ultimo, trova il sentimento, ovvero la forma più evoluta tra le tre, poiché oltrepassa la sfera emotiva ed arriva a coinvolgere la cognizione. Una madre, per esempio, capisce lo stesso il proprio figlio che non parla, perché lo ama. Il sentimento è qualcosa che non si trasmette geneticamente, non è una dote naturale: va appreso. Gli antichi, per esempio, imparavano attraverso le storie mitologiche; se guardiamo alla mitologia greca, difatti, troveremo tutta la gamma dei sentimenti possibili: Zeus il potere, Atena l’intelligenza, Afrodite l’amore, Apollo la bellezza, e così via. Insomma: una vera e propria fenomenologia dei sentimenti umani. Noi, al contrario, li impariamo attraverso la letteratura, ovvero sia quel luogo in cui si apprende cosa sia l’amore, il dolore, la noia, il romanticismo, il suicidio. Eppure la letteratura non viene più considerata ed i libri non vengono più letti, perché, si sa, la lettura necessita di ozio e dove lo troviamo il tempo per leggere se siamo senza tempo, in questa modernità lanciata in una accelerazione senza futuro? Se per di più anche la scuola disaffeziona a questi scenari, ecco che i sentimenti non si formano. Se la letteratura non interviene, l’individuo resta al livello dell’impulso o al massimo dell’emozione. Resta pre-maturo. Resta senza i decorsi più profondi dell’animo umano, manifestando una inclinazione bulimica nel discernimento del bene dal male, del giusto dall’ingiusto, capendo però molto bene cosa sia utile e cosa no. L’uomo come pastore dell’Essere avremmo detto un tempo; oggi, forse, è soltanto pastore delle macchine.

lunedì 22 settembre 2014

Né con i tagliagole né con gli Stati Uniti...



di Massimo Fini


Nei 'Frammenti alle istituzioni repubblicane' Saint-Just, uno dei leader della Rivoluzione francese da cui è nato il nostro mondo, afferma: «La virtù è una sola e quindi deve essere ammesso solo il partito che in essa si riconosce, mentre tutti gli altri, che le sono contrari, vanno soppressi». La pretesa di possedere una verità assoluta che esclude tutte le altre non appartiene solo alle religioni monoteiste, nelle loro varie declinazioni di cui l'Isis è l'ultima espressione, ma anche alla cultura laica. Oggi la proposizione di Saint-Just può essere tradotta così: «La virtù è solo democratica, tutti i popoli che in essa non si riconoscono vi vanno ricondotti, con le buone o con le cattive». E' la storia dell'Occidente degli ultimi quindici anni, dall'aggressione alla Serbia in poi. In Iraq sono quindi a confronto due totalitarismi, uguali e contrari, quello dell'Isis che vuole convertire tutti, con la violenza, alla propria fede, e quello occidentale che fa lo stesso. Con la differenza che il primo è consapevole di essere tale, il secondo no, crede di essere liberale.

Lasciamo pur perdere la filastrocca delle guerre d'aggressione perpetrate dagli americani negli ultimi anni, ma se da più di un ventennio si inserisce l'Iran khomeinista, cioè un Paese strutturato, di grande cultura, colpevole di aver cacciato a pedate lo Scià, un dittatore feroce, per quanto patinato, nell' 'Asse del Male', è evidente che si pongono le premesse per la nascita di fenomeni incontrollabili come l'Isis. Anche se adesso uno dei tanti paradossi della Storia vuole che proprio ai pasdaran iraniani ci aggrappiamo perchè sono i soli che hanno le palle per affrontare i guerriglieri islamici sul campo.

Gli americani hanno sempre bisogno di 'punire' qualcuno, si tratti di Iran, di Milosevic, di Talebani, di Saddam, di Gheddafi. Sta nella loro cultura protestante. Un tempo, non tanto lontano, i bambini e le bambine riottosi venivano fustigati davanti a tutta la famiglia, a culo nudo per umiliarli (nelle scuole inglesi è esistita per tutto l'Ottocento e oltre, la pratica del 'flogging': frustare lo studente o la studentessa indisciplinati davanti a tutta la classe, con le vesti rialzate o i calzoni abbassati -Abu Ghraib si spiega anche così). Sono sempre lì a segnare 'linee rosse' invalicabili, 'diritti umani' inviolabili in nome di una morale (Saint-Just avrebbe detto una 'virtù') superiore, la loro. Io non riconosco agli americani alcuna superiorità morale. Hanno cominciato con un genocidio infame e vile (winchester contro frecce), usando anche le 'armi chimiche' del tempo (whisky) per distruggere un popolo spirituale come i pellerossa (e adesso si scandalizzano per gli iazidi). Durante la seconda guerra mondiale bombardarono Dresda, Lipsia, Berlino uccidendo volutamente milioni di civili col preciso scopo, dichiarato dai loro comandi politici e militari, di «fiaccare il morale del popolo tedesco». Sono gli unici ad aver usato l'Atomica, e Nagasaki venne tre giorni dopo Hiroshima quando si conoscevano i suoi spaventosi effetti. Sono l'unico Paese occidentale ad aver praticato la schiavitù in epoca moderna, scomparsa in Europa dalla fine dell'Impero romano. Hanno avuto l'apartheid fino al 1960, salvo scagliarsi subito dopo contro quella sudafricana che qualche ragione in più ce l'aveva.

Io non sto con l'Isis. Ma l'ipocrisia americana mi fa più ribrezzo dei tagliatori di teste islamici.

venerdì 19 settembre 2014

Sopravvivenza e competizione...


di Claudia Grazia Vismara (L'Intellettuale Dissidente)

Perciò la morale perde gran parte della connessione con la vita pratica e con le virtù specifiche, confondendosi con l’esercizio di scelte puramente personali e con l’espressione di (pre)giudizi che non possono più essere giustificati né spiegati, e che quindi non debbono essere considerati impegnativi per nessuno.


E’ un’epoca difficile la nostra, costantemente immersa nel godimento delle comodità materiali un tempo ignote alle generazioni precedenti. Annegato in una società liquida[1] ove aleggiano nebbie diffuse e fresche come quelle dell’alba, l’uomo offusca gran parte dei pensieri concentrandosi esclusivamente sul problema della sopravvivenza che lo lascia indifferente agli appelli che meriterebbero davvero la sua attenzione; niente, infatti, lo trova tanto distratto quanto il racconto di un’ulteriore crisi, al punto che l’infiltrazione retorica di quest’ultima nella vita quotidiana ne impoverisce l’idea stessa. La modernità porta in essere la capacità di fare piazza pulita di tutto – crudele legge del vae victis -  in nome del profitto, in nome, di più, dei metodi tayloristici di pianificazione del LAVORO che portano i dipendenti nel baratro di una sub-umanità meccanizzata. Una danza occidentale che ci è familiare: logiche di mercato che prevalgono sulle logiche della società, preminenza della quantità sulla qualità, oltremodo dell’egoismo solipsistico sull’interesse comune. Una vita in apparenza sicura ove un necessario materialismo trova la propria compensazione nella retorica di grandi parole democratiche; una vita staccata da ogni principio superiore e fatta valere nella sua angosciosa immediatezza, senza luce. A causa della qualità della comunicazione non si crea più alcun ponte ma, al contrario, nasce un intervallo. Le frasi rimbalzano da una parete all’altra, fredde come cenere, cenere per coprire l’intervallo.
La qualità principe dell’uomo massificato è la quantità, è il suo essere misurabile che lo costringe al muro, incapace di spingersi oltre la frontiera della rivolta. Ma essere misurabile vuol dire ch’egli ha un principio ed una fine e nella successione trova il massimo della bellezza, così come trova il dolore. Corpo ed anima vivono con il medesimo ritmo, cieco all’esperienza dello spirito, scivolando da una verità all’altra, sempre dimentica della prima, sempre insoddisfatta, sempre profana. Sempre in crisi. Oggi, l’uomo si distingue dagli altri in relazione al movimento che compie e non in base alla propria sostanza, un movimento che è isterico e per nulla aggraziato, congelato tra un istante e l’altro, tra il passato e il futuro, dove è percettibile la bianca vacuità dell’intervallo poco prima menzionato. L’uomo si focalizza esclusivamente sulla propriasopravvivenza, che può soltanto essergli prossima, giacché è tipico della società attuale disinteressarsi ai problemi pubblici generali e preoccuparsi soltanto delle crisi della vita quotidiana, che ovviamente sono considerevoli, al punto che la speranza di prevenire il disastro generale gli appare così remota da affacciarsi nella sua mente solo nella forma di un accorato appello di indefinita speranza. Vuoto, quindi, come la distanza da un minuto all’altro nel quadrante dell’orologio, un orologio doloroso, difficile da sopportare.
Scrivere di sopravvivenza oggi è di ardua impresa, poiché tale parola è stata indebolita a seconda delle molteplici connotazioni ad essa attribuite, come del resto accade ai vocabolitradizione o nostalgia. L’unica cosa certa è che l’uomo è al contempo sopravvissuto e vittima. Una delle prime reazioni alla sopravvivenza è senza dubbio l’esasperazione della competizione, divenuta oramai una lotta per evitare una sconfitta schiacciante, molto lontana da quel desiderio di eccellere che un tempo la definiva. Il guerriero e il ribelle, insomma, gli antichi prototipi di competizione vittoriosa, hanno ceduto il posto all’opportunista che, attraverso tentativi pieni di cupidigia, tenta di prevalere sull’altro – astuta viltà! – per una commovente volontà di resistere di più e più a lungo. Perciò le situazioni limite, scrive Goffman, danno rilievo «ai piccoli atti della vita» e non alle«grandi forme di lealtà e di inganno». Perciò la morale perde gran parte della connessione con la vita pratica e con le virtù specifiche, confondendosi con l’esercizio di scelte puramente personali e con l’espressione di (pre)giudizi che non possono più essere giustificati né spiegati, e che quindi non debbono essere considerati impegnativi per nessuno. Ecco che si arriva al deterioramento della vita pubblica e alla banalizzazione delle idee morali. In un simile contesto, come può l’uomo aggredire l’ideologia dominante? Che gli uomini sorgano in piedi tra le rovine è un dato certo. L’avvenire non sarà tuttavia di chi si culla con le idee frammentate presenti nell’attuale clima politico, bensì di chi avrà il coraggio di discernerle e, se serve, di resisterle, purché sia corazzato da una sufficiente fibra morale.
[1] Modernità liquida, Zygmunt Bauman
 

giovedì 18 settembre 2014

La Scozia decide il suo destino e fa tremare i burocrati di Bruxelles...



tratto da Il Secolo d'Italia

Sono iniziate in Scozia le operazioni di voto per il referendum sull’indipendenza. Secondo il quotidiano “The Scotsman” è il “giorno del destino”, per “The Herald” è il “giorno del giudizio”. Sono titoli che danno il senso della sfida in atto la cui portata e incidenza travalicano la stessa Scozia. All’esito del voto scozzese guardano con apprensione anche altri Paesi europei, a cominciare dalla Spagna che teme i riflessi separatisti sulla Catalogna. Negli ultimi giorni di campagna elettorale il clima si è surriscaldato. Agli appelli accorati da parte dei fronti contrapposti del Sì e del No si sono accompagnati toni minacciosi provenienti soprattutto da parte delle burocrazie di Bruxelles e del mondo bancario.
Gli ultimi sondaggi danno praticamente alla pari i due schieramenti. Il che ha rinvigorito la campagna degli unionisti, a partire dal premier David Cameron che ha confessato di vivere con grande preoccupazione il momento attuale. Certo è che, se dovesse vincere il Sì, molte cose cambierebbero, non solo per la Scozia, ma anche per altri Paesi. Edimburgo è la quarta piazza finanziaria europea. La Scozia possiede considerevoli risorse petrolifere e punta a diventare uno dei primi fornitori al mondo di energia elettrica. La separazione avrebbe effetti sulla economia inglese. Non è un caso che, per convincere gli elettori residenti in Scozia a dire No, il governo di Londra e tutti i partiti britannici si siano spesi negli ultimi giorni in offerte senza precedenti, promettendo misure, agevolazioni e norme in materia di sanità, di istruzione e di tasse, compreso il mantenimento della “formula Barnett”, che assegna agli scozzesi un budget di spesa pubblica superiore del 19% a quella degli inglesi. Promesse considerate non sufficienti, e perlomeno tardive da parte dei fautori del Sì.
La verità è che, contrariamente a quel che si pensa e ad una certa disinformazione alimentata dai giornali continentali, gli scozzesi sono più europeisti degli inglesi, ma hanno una visione dell’Europa alla cui base c’è una maggiore integrazione dei popoli. Il modello di riferimento è quello scandinavo con il quale ad Edimburgo pensano di avere molti elementi in comune. E proprio di un “rafforzamento dell’Europa”, nel caso prevalessero i Sì, parla il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, per quale il processo di autodeterminazione della Scozia è importante perché a decidere non possono essere solo le banche e i banchieri. “A volte anche il popolo deve essere chiamato a dire la sua”.

mercoledì 17 settembre 2014

Sociali e nazionali: comunitari...



tratto da EreticaMente.net

Le politiche economiche e sociali di un Paese, ordinato in maniera identitaria e tradizionalista, non possono prescindere da una visione comunitaria, e non globale, della popolazione del proprio stato. E dunque ogni sistema economico mondialista, capitalista, liberale, ma anche banalmente comunista internazionalista e progressista-terzomondista, o ancora social-democratico, si rivelerà un buco nell’acqua: il socialismo va applicato alla propria comunità etnica e ad altre realtà etniche omogenee, non all’ecumene.
Quando parlo di “socialismo” non mi voglio riferire al marxismo, coi suoi deliri relativisti ed egualitaristi di matrice ebraica, ma ad una dottrina economica e sociale anti-individualista e dunque contro ogni degenerazione liberale e libertina che riduca la Nazione, e la sua spina dorsale etnica, ai bassi istinti materialisti e consumistici, che vanno nella direzione opposta dell’auto-determinazione identitaria della propria realtà nazionale. Il capitalismo è la dittatura del soldo, il comunismo del feticcio apolide. Due facce della stessa medaglia anti-europea.
Ecco dunque il comunitarismo, la degna concretizzazione del socialismo nazionale, che, senza arrivare agli estremi della lotta di classe e dell’abolizione della proprietà privata (sebbene il dirigismo e la nazionalizzazione delle principali industrie siano cosa buona e giusta), garantisce la coesione sociale necessaria tra connazionali: la lotta non dev’essere di classe, appunto, ma identitaria.
La sovranità di uno stato, che deve essere espressione genuina di una Nazione e non più la castrazione della stessa, passa anche e soprattutto, in termini politici, per l’auto-affermazione monetaria, economica, industriale, senza la quale si aprono le porte alla globalizzazione e alla schiavitù nei confronti dell’imperialismo americano, e alla sua squallida appendice “europea” targata Bruxelles.
Ogni sistema economico che prescinda dal dato etno-razziale e culturale si rivelerà un moloc stritola-popoli, perché finirà per ergere a idolo un mero schema ideologico confortato dalla propria linea economica sterilmente priva di rimandi identitari: non dobbiamo mica passare dall’occidentalismo liberale a quella mentalità “asiatica” che concepì il bolscevismo.
Si sa, la politica è fondamentalmente economia, ma proprio per questo si rischia di dividere il contesto europeo semplicemente in destra-centro-sinistra o ancora capitalismo-comunismo, liberal-democrazia/social-democrazia e atlantismo-eurasiatismo.
Si capisce, meglio guardare ad Est che all’Ovest americanizzante, ma questo non significa che da un giogo si deve finire sotto ad un altro; la Russia fino agli Urali è europea (e certamente non è più nemmeno URSS), ma le proprie sfere di dominio vanno conservate. Pertanto no certamente alla UE e ad ogni parassitismo degli Americani (dunque globalizzazione), ma no anche ad una servitù incondizionata verso la Russia che rischierebbe di appiattire l’Europa continentale sulla linea di Mosca, che come si sa guarda all’Asia più che all’Occidente europeo.
Naturalmente, queste sono le conseguenze del secondo dopoguerra e della contrapposizione dei due blocchi, ma se si deve rinascere (e lo si deve) si deve ripartire dall’identità europea, non solo da quella russa o euro-siberiana. Tanto più che, come detto sopra, la comunanza è fino agli Urali, non oltre, sebbene rapporti amichevoli con tutte le realtà eurasiatiche indoeuropee siano fondamentali per bloccare ogni iniziativa mondialista dello schieramento statunitense e NATO.
Il comunitarismo garantisce salvaguardia etno-razziale, identitarismo, tradizionalismo, eco-nazionalismo e quel genuino solidarismo tra connazionali ed Europei che scavalca le differenze economiche, sociali, generazionali e direi mentali. L’esaltazione di queste, per converso, conduce al bivio capitalismo-comunismo.
Con il comunitarismo, si preserva la natura etnica e biologica, per così dire, di una collettività nazionale, e inoltre la sua sfera spirituale, dunque culturale, e si possono promuovere politiche sociali ed economiche che passino anche per l’ambientalismo intelligente (quello che non perde per strada la Nazione badando solo ipocritamente a flora e fauna, insomma), lo sviluppo eco- ed etno-sostenibile, la decrescita demografica soprattutto forestiera, e il ruralismo, un prezioso strumento Sangue e Suolo che, mettendo a stretto contatto con la natura incontaminata, garantisce e aiuta a sviluppare quel robusto senso d’appartenenza razziale, culturale e territoriale che solo rapportandosi direttamente con il contado, piuttosto che coi monti e le coste, può sbocciare e svilupparsi nel tempo.
Ma naturalmente le nostre città non vanno abbandonate a sé stesse, all’immigrazione selvaggia, all’inquinamento e alla cementificazione, e alle grinfie dell’affarismo rapace, bensì vanno riprese e ordinate con lo stesso strumento comunitarista, mediante cui le cose vanno rimesse in ordine puntando tutto sul Sangue, sul Suolo e sullo Spirito di quella città, di quella regione, di quella Nazione di cui la città è (o era) espressione.
La Lombardia offre ancora moltissimi spunti  ambientali incontaminati ove cui ritrovare sé stessi e il proprio senso d’appartenenza comunitario, ma questo non vuol dire che una metropoli come Milano vada abbandonata a sé stessa; sarebbe come abdicare al proprio dovere e darla vinta a chi ha ridotto Milano nello stato che tutti conosciamo: industriali senza scrupoli, bianchi e rossi, e preti.
L’immigrazione e la distruzione del territorio fanno comodo ai parassiti, non a chi le subisce per davvero.
Credo dunque che il socialismo nazionale e il comunitarismo, siano la strada da percorrere per poter coniugare le istanze nazionaliste con quelle economiche, senza mandare a quel paese la comunità genuina che anima il Paese (scusate il gioco di parole, ma è così).
I fallimenti del capitalismo sono sotto gli occhi di tutti, ma anche quelli del comunismo, l’esasperazione del pensiero socialista senza il dato etno-razziale e culturale (ma del resto si sa, il bolscevismo fu un prodotto della Russia intrisa di ebraismo e si sa anche quanto fossero legati gli Ebrei ad un pensiero simile, bramando sete di riscatto per le proprie sorti storiche di popolo senza nazione e stato disperso per l’Europa; non è certo un mistero che le politiche ebraiche in Europa siano universaliste mentre in Palestina siano l’esatto contrario, e lo stesso sionismo fu concepito partendo da ideali  egualitaristici).
Il problema di fondo del marxismo è proprio questo, unito al fatto che esso e i suoi successori tennero sempre in non cale il dato essenziale: quello del Sangue. E si ha così anti-identitarismo puro e la sinistraglia che tutti conosciamo.
La soluzione non è l’altra faccia della medaglia, quella che si è rilevata cioè davvero esiziale per l’Europa, ossia il capitalismo, ma il pensiero sociale, nazionale e comunitario che divenga genuino comunitarismo per il bene della Nazione e dell’Europa: lotta identitaria, non classista.
Ave Italia!

martedì 16 settembre 2014

Quel saluto fuorilegge….


di Maurizio Gussoni (Destra.it)


Non avremmo mai detto che la campagna a favore del saluto romano scoppiasse proprio a 70 anni di distanza dalla fine del fascismo. O, se preferite, ad oltre 2.000 anni dalla fine dell’Impero Romano che, il saluto a mano tesa, lo inventò. Tantomeno era immaginabile che la campagna a favore venisse proprio dalla magistratura italiana.
Ci spieghiamo meglio: dopo decenni e decenni, durante i quali i giovani della destra nelle celebrazioni importanti come congressi, funerali, eccetera, hanno sempre salutato la propria idea politica e, purtroppo, i propri morti in quel modo. Tutto d’un colpo questo saluto è diventato un problema nazionale. È pur vero che la legge lo vieta, ma si tratta di leggi che derivano dalle disposizioni transitorie della Costituzione. Disposizione un po’ ridicole già allora, addirittura grottesche a distanza di 14 lustri, durante i quali hanno continuato – e continuano – a chiamarsi… transitorie.
Insomma, un altro bello scampolo dell’ottusa burocrazia italica, ma anche tanta, tanta paura da parte di chi, democratico a 24 karati, non è ancora convinto di essere quello che è. E vive nel terrore del proprio passato. Forse perché, in altissima percentuale, anche i suoi nonni o i suoi genitori, nel Ventennio hanno passato i sabati a sbracciarsi con quel saluto.
I ragazzi del saluto romano, legge o no, nel farlo hanno sempre anche messo un pezzo di cuore. E oggi, con la campagna giudiziaria in essere, vengono ripagati addirittura con pene da arresto. Pene confermate – nientepopodimeno – dalla paludata e austera Cassazione.
Ottenendo il risultato di far diffondere, specie su Internet, un autentico ciclone di voglia di trasgressione. Infatti, dappertutto, si vedono immagini e disegni di mani alzate, giusto per far vedere a tutti quanto poco il popolo della destra se ne frega di quelle decisioni fuori dal tempo.
I giudici, ma ancor più i politici che legiferano a vanvera, avrebbero dovuto capire per tempo che sentenze del genere alzano solo il livello di attenzione, oltre a far danni ai pochi ragazzi finiti nel tritacarne giudiziario. Avrebbero dovuto capire che se in settant’anni un’idea non è finita nell’oblio, non è certo nelle loro possibilità farla sparire, per via giudiziaria, dalle menti e dai cuori.
E se i politici fossero meno vili, avrebbero cancellato queste ridicole leggi. Portando avanti le proprie battaglie politiche in termini culturali.
Capendo così che un fenomeno storico-culturale di questa portata non si può cancellare vietando di alzare un braccio. Infatti, anche un cercopiteco può capire che una restaurazione del fascismo-regime non è all’ordine di questo secolo. Ma, anche a braccia conserte, la mente ed il cuore fanno la loro parte. In barba – ed alla faccia – di sentenze e leggi.
Però, ancora una volta, abbiamo peccato di ingenuità. Non ci siamo resi conto della differenza qualitativa che separa i nostri avversari politici di ieri da quelli di oggi.
L’altro ieri esistevano i Togliatti i quali, per quanto sanguinari, facevano le amnistie per salvare la vita ai fascisti e pacificare un popolo che, a onta di quanto scrivevano i falsari della storia, in buona parte non era affatto antifascista. Ieri, invece, fu la volta dei democristiani che lavarono con altre amnistie le fedine penali dei sessantottini di ambo le parti per evitare che una generazione intera fosse compromessa.
Oggi il destino ci ha assegnato questi. Quelli che abbiamo, insomma. Quelli capaci di ideare amnistie utili ai loro compari faccendieri e collettori di tangenti.
Che avesse ragione Aristotele? Con: “ogni popolo ha il governanti che si merita”.


(nella foto, l’imperatore Marco Aurelio saluta romanamente l’Urbe. Un fuorilegge?)

lunedì 15 settembre 2014

I mecenati della morte...



di Fabrizio Fiorini (Rinascita.eu)

La cinematografia contemporanea offre al proprio pubblico continuamente delle paradossali sceneggiature: il cannibale che afferma di essere un giustiziere, il bombarolo che reputa di vestire i panni del salvatore dell’umanità, il camorrista che si erge a difensore della giustizia sociale, l’omicida che dice di essere un onesto lavoratore. Dal canto suo la realtà, per ripicca, ci offre George Soros. Il quale, ignaro della vis comica he sottende alle sue boutade, si bea di essere definito “filantropo”. Già, il “filantropo”. Lui e la sua Open Society Foundation, quella che si è distinta, nel corso degli ultimi anni, come fornitrice di dollari e sostegno propagandistico a tutte le imprese guerrafondaie dell’Occidente mondialista; dalle “femen” alle “rivoluzioni colorate”, in un continuo crescendo di spudorato impegno nel foraggiare e finanziare qualunque movimento o istanza che si proponesse, in Europa come altrove, di assecondare le direttive politiche tattiche e strategiche imposte dagli Stati Uniti d’America. Ora, da bravo filantropo e da uomo d’impresa, il nostro allarga il suo terreno d’azione a uno dei principali campi di battaglia in cui si combatte la latente guerra per l’annientamento del Vecchio Continente: l’immigrazione. Guerra all’Europa, dunque? Già: quella guerra che non viene portata avanti solo dalla finanza internazionale, dalle banche custodi della moneta-debito, non solo dalla soldataglia che ci trascina o vorrebbe trascinarci seco nelle guerre d’aggressione contro i nostri stessi interessi nazionali e continentali in Siria, in Libia, in Iraq, in Afghanistan, in Russia. E’ la guerra che viene condotta dagli Usa anche attraverso il tentativo di definitivo annullamento dell’identità europea e tramite la distruzione del lavoro e dell’economia nazionali col grimaldello dell’immigrazione incontrollata, della società multietnica e déraciné. L’immigrazione che vede tra i suoi massimi sostenitori il lucroso indotto ecclesiastico in salsa Caritas, le associazioni degli indistriali a caccia di manodopera a basso costo e zero diritti e – non ultima -  quella sedicente “sinistra” che da decenni funge oramai da quinta colonna delle strutture di potere yankee e che finge di non comprenderne la portata antinazionale, antipopolare e antisociale del fenomeno. L’immigrazione che da oggi ha un alleato in più, quel “mecenate miliardario”, quel George Soros che odia l’Europa e ogni sua affermazione di sovanità. Se qualcuno era a ricerca di conferme, eccolo servito. Il “filantropo”, tra una destabilizzazione e un bonifico alle “pussy riot”, si è comperato Lampedusa. Certo, oggigiorno lo chiamano “protocollo d’intesa”. Come quello che la sua Open Society ha sottoscritto col Comune dell’isola per “contribuire al potenziamento delle capacità esecutive del Comune di Lampedusa, favorendo così la popolazione ed i suoi ospiti”. Supporto logistico all’invasione immigratoria, favoreggiamento di un vergognoso mercato degli schiavi che sta portando al collasso l’economia e il tessuto sociale della nazione. Il tutto celato dietro le solite “belle parole”: la “lotta alle discriminazioni razziali”, la promozione di un “festival delle culture” per promuovere “accoglienza e dialogo”, e altre mielose amenità. Vanno fermati. Ora. A Lampedusa. Sul bagnasciuga. 

venerdì 12 settembre 2014

Il figlio in provetta come una borsetta...



di Marcello Veneziani

Nella giostra dei poteri volanti, tra i seggiolini che orbitano all'impazzata, le Regioni hanno acchiappato il trofeo dell'eterologa. Tocca a loro, chissà perché, occuparsi di Regioni Intime, e dunque stabilire come avverrà la fecondazione artificiale, come si useranno i gameti dei donatori. Non tornerò sul tema anche se continuo a contestarne il principio ispiratore che - per dirlo in sintesi - abolisce il padre e lo sostituisce col padrone, perché i genitori non si limiteranno a volere un figlio ma dopo aver sostituito Madre Natura, decideranno alcune fattezze del nascituro, programmandolo secondo i loro tratti esteriori.

Non mi pare fuori luogo l'obiezione che la Chiesa rivolge alla legge, di creare pericolosi precedenti per una selezione genetica. Non siamo al razzismo ma alla sua anticamera. La cosa che trovo più assurda, e per certi versi raccapricciante, è la decisione assunta dalle Regioni secondo cui i figli dell'eterologa devono avere però il colore della pelle, degli occhi e dei capelli dei loro genitori. Lo trovo veramente grottesco. Non conta il legame biologico e spirituale con i genitori, non conta che il figlio erediti i suoi caratteri, in compenso c'è questa concessione apparente, esteriore, epidermica: avrà lo stesso colore della pelle. Che superficialità, è come coordinare la cintura con la borsa, mi raccomando che sia della stessa pelle. L'anima non conta, la pelle sì. E no, a questo punto, prendete quello che vi viene, nero, giallo o mixato. Magari poi lo coordinate coi vostri vestiti...