venerdì 19 dicembre 2014

Nei templi del consumismo arrivano le telecamere...


 di Federica Forte (L'Intellettuale Dissidente)
La minaccia del terrorismo, l’incertezza di una società che  ha perso i suoi punti di riferimento, i grandi cambiamenti, l’urbanizzazione dilagante che impone alle persone di condividere spazi sempre più stretti con vicini indesiderati, l’intolleranza e la cappa di pericolo che sembra incombere su ogni realtà ci hanno abituato, ormai da tempo, alla presenza di telecamere in ogni dove. Lo sviluppo dell’IT ha fatto il resto. Telecamere ovunque. Telecamere nei vicoli ciechi e nei parchi pubblici, negli uffici e nelle banche, nelle scuole, nelle abitazioni private. La predisposizione di un sistema capillare di videosorveglianza si è rivelato nella maggior parte decisivo nell’identificazione  di ladri ed assassini, con buona pace della comunità che baratta la propria privacy con la promessa di sicurezza, ignorando tuttavia che le telecamere possono risolvere il problema solamente una volta che il fatto è accaduto. La presenza di videocamere, infatti, non ha fatto cessare né crimini né rapine.
Ma nella società della cura, è naturale che questa- la cura al male- venga sempre preferita a qualsiasi forma di prevenzione, in quanto il rimedio è molto più profittevole. Basti pensare ai profitti milionari delle industrie che producono telecamere e sistemi di sorveglianza, agli sviluppatori che rilasciano i software attraverso i quali collegare le telecamere ai propri computer, permettendo così agli individui di monitorare continuamente l’interno e l’esterno delle proprie abitazioni. Luogo di elezione privilegiato della presenza di telecamere di sorveglianza sono stati e sono, naturalmente, i supermercati. Solo nel 2013 i furti nei supermercati in Italia hanno superato il valore di 3 miliardi di euro. Certamente la crisi economica e la disperazione di stipendi sempre più esigui spinge molti individui- soprattutto anziani- a compiere questi gesti folli, rischiando di venire beccati, mettendo in gioco la propria dignità, per fame. Poiché per molti supermercati questi furti significano delle perdite notevoli, è comprensibile la crescente presenza di dispositivi di sorveglianza che quantomeno scoraggino qualsiasi tentativo. A questo si aggiunga la presenza di sorveglianti che si aggirano tra le corsie, compiendo in alcuni casi dei veri e propri pedinamenti e, se necessario, ispezioni. Ma i tempi sono quelli che sono, e la prudenza non è mai troppa.
E’ in arrivo, però, un’importante novità. Le telecamere installate nei supermercati avranno un’altra funzione: dotate di sensori digitali, spieranno da vicino il comportamento degli acquirenti tra le corsie[1]. Perchè Tizio compra sempre quel prodotto? Perchè Caio non lo prende neppure in considerazione? Quanto tempo impiega Sempronio per fare i suoi acquisti? Tutto- comportamenti di acquisto, di scelta, perfino le espressioni facciali e  le esclamazioni, i gusti – sarà accuratamente registrato e si procederà con  ulteriori approfondite analisi statistiche, con l’obiettivo di comprendere a fondo il comportamento di acquisto degli acquirenti di un supermercato e, sulla base di algoritmi, identificare il prodotto “migliore” per ogni cliente. L’obiettivo è, naturalmente, simile a quello del direct marketing. Spingere la segmentazione dei clienti fino al one-to-one, rivolgersi direttamente al singolo, anziché alla massa indistinta dei consumatori.
La presenza di questi sensori digitali, dunque, risponde ad esigenze di efficienza ed efficacia dell’azione di vendita. A tutto vantaggio dei consumatori, affermano gli esperti e le imprese. The consumer is the king, le imprese umili servitori di un consumatore sempre più esigente ed esperto, che sa cosa vuole e dove prendere ciò di cui ha bisogno.La concorrenza è spietata e per vincerla le imprese devono riuscire a legare a sé i consumatori con un corda talmente stretta che per questi sia impossibile liberarsene. E il modo migliore per farlo è dimostrare loro che solo Lei, l’impresa, è in grado di offrire quello che desiderano, comprendere i bisogni più profondi della clientela ed anticiparne le richieste. E’ per comprendere le reali esigenze del consumatore che le imprese ne spiano ogni movimento , ne indagano il profondo, attraverso interviste e ricorrendo all’osservazione sempre più intruisiva nella loro quotidianità. E’ per offrire servizi sempre più corrispondenti alle esigenze del consumatore, che le imprese conducono ricerche di marketing, su adulti e bambini . Essere cavie da laboratorio, oggi, è il prezzo da pagare per poter avere prodotti su misura, prodotti sempre nuovi, entusiasmanti, nella consapevolezza, però, che non potranno mai soddisfarci pienamente, perchè il meglio deve ancora venire. I nostri desideri possono essere soddisfatti solo in parte e sull’imperfezione, seppure minima, insita in ogni prodotto e servizio che si regge il sistema di produzione della società consumistica, che postula la produzione infinita ed un progresso senza fine.
Pecchiamo di ingenuità se crediamo che il male si presenti puntualmente nelle vesti di un mostro famelico dagli occhi iniettati di sangue. Troppe volte l’indicibile, ciò che fa tremare di paura, ha volto angelico. Per questo il male, quando arriva, ci coglie impreparati e stentiamo a riconoscerlo. Le grandi imprese- perchè, naturalmente, grandi devono essere per avere i mezzi necessari a porre sotto sorveglianza i consumatori, giacchè questi metodi necessitano di strumenti costosi e time-consuming- costruiscono la torre da cui dominare il mercato e l’umanità ponendo come mattoni un falso quanto deleterio altruismo e un’etica degli affari che si risolve sempre di più in mera operazione di marketing. Come se non fosse nota alle multinazionale la Legge di Say (una delle prime nozioni che si apprende nei corsi di economia) secondo la quale l’offerta crea sempre la propria domanda. Il consumatore, del resto, non potendo ricorrere nella gran parte dei casi all’autoproduzione- come costruirsi da sé un televisore? La soluzione è farne a meno, ma deve “accontentarsi” dell’offerta del mercato. Offerta che, tra l’altro, è sempre più standardizzata. Allora il controllo che le imprese tentano di assumere sul consumatore si configura, in ultimo, come mera intrusività nelle loro vite. Lo fa il potere attraverso il controllo e la manipolazione dei mass-media, lo fanno in misura minore le religioni ed oggi tocca all’unica religione a cui sembra obbedire l’uomo del nuovo millennio: il consumo. Le imprese piazzano telecamere nei templi sacri del consumismo: gli ipermercati. Abolita la sacralità degli spazi personali e il diritto di ogni individuo di scegliere cosa esprimere di sé e con quali mezzi,  il consumatore è nudo e senza difese di fronte alle imprese.

giovedì 18 dicembre 2014

La Marina militare ricorda l’impresa di Alessandria e l’eroismo italiano...


di Franco Bianchini (Secolo d'Italia)

La Marina Militare ha ricordato il 73.esimo anniversario dell’impresa di Alessandria, «episodio della Seconda Guerra mondiale che ha dato lustro all’Italia e agli uomini che la servirono». Nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941 nel porto di Alessandria, in Egitto, vennero affondate le corazzate inglesi Valiant e Queen Elizabeth: si trattò di una delle azioni più straordinarie, a danno della Royal Navy, della Regia Marina durante l’ultimo conflitto mondiale.
L’arma segreta
Un’impresa realizzata con un arma segreta – il siluro a lenta corsa (S.L.C.), più conosciuto come “maiale” – e grazie al coraggio e all’audacia degli equipaggi che lo pilotavano. Piccoli mezzi e “grandi” uomini che si addestrarono nel più assoluto segreto a Bocca di Serchio, nel pisano. Una preparazione molto dura, con immersioni di notte, senza ausili luminosi, e un’unica certezza: l’intesa perfetta con il proprio compagno d’equipaggio.
Il sommergibile Scirè
La notte del 18 dicembre, il sommergibile Scirè comandato dal tenente di vascello Junio Valerio Borghese rilasciò a qualche miglia di distanza dal porto di Alessandria sei marinai a bordo di tre “maiali”. Gli obiettivi erano, appunto, le corazzate inglesi Queen Elizabeth e Valiant, oltre a una grande petroliera. Il capitano del genio navale Antonio Marceglia e il sottocapo palombaro Spartaco Schergat puntarono verso la Queen Elizabeth. Il capitano delle armi navali Vincenzo Martellotta e il capo palombaro Mario Marino verso la petroliera Sagona. Per il tenente di vascello Durand de la Penne e il capo palombaro Emilio Bianchi il bersaglio è la Valiant. La mattina del 19 dicembre le cariche poste dagli assaltatori italiani – i cui eredi sono oggi gli incursori e palombari del Combubin – esplosero sotto le carene delle navi nemiche. Le navi subirono danni ingenti e si adagiarono sul fondale del porto.
Junio Valerio Borghese
Ufficiale della Regia Marina, durante la seconda guerra mondiale Junio Valerio Borghese, avendo iniziato la carriera militare giovanissimo all’Accademia Navale di Livorno, specialista dei sommergibilisti, entrò a far parte della Xª Flottiglia MAS di cui divenne poi comandante e divenne noto per le audaci imprese nel Mediterraneo. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 proseguì la guerra e aderì alla Repubblica Sociale Italiana svolgendo altresì la funzione di sottocapo di Stato Maggiore della Marina Nazionale Repubblicana.

mercoledì 17 dicembre 2014

Benigni, l’idolo di tutti…



di Pietrangelo Buttafuoco

Grande successo dei Dieci Comandamenti nelle mani di Benigni, ieri, su Rai1. Un capolavoro di gnagna che può riassumersi nell’unico comandamento, fondante nella sua carriera, e a lui più caro, rileggetelo: “Se nasce un mongoloide è una cosa molto trista, ma la cosa più schifosa è se nasce un fascista. Maledetta l’ora, il giorno e il secondo in cui due merdaioli ti misero al mondo. Maledetta l’ora, il giorno e l’annata che la tu’ mamma ti dette la su’ prima poppata. Maledetta la tu’ razza, maledetta la tu’ gente, maledetto il giorno che ti nacque il primo dente. (…). Se dovessi maleditti non saprei come finilla, maledetto sia quel giorno che ti fecero balilla. S’aprisse la porta senza tu te ne sia accorto, entrassero le mogli di ogni partigiano morto, poi t’aprissero la bocca e da maggio a carnevale, ti facessero bere il marchese accanto all’Internazionale. Poi arrivasse Terracini, Pajetta, Longo e Ingrao, ti cacassero sugli occhi mentre cantano Bella Ciao. Alla fine vanno via, finalmente sei contento, ma ti piscia addosso Lama mentre canta Fischia il vento. Ti venisse un accidente, ti tagliassero i bracci, e dopo avetteli tagliati ti tagliassero le gambe perché s’erano sbagliati. Ti venisse un colpo, ti venisse un ascesso, ti scoppiassero in culo tutte le bombe che tu hai messo. Vo’ pensate a il potere, vo’ pensate ai quattrini, ti porto la maledizione di Roberto Rossellini”. Ecco, parole e miasmi di Benigni Roberto, l’idolo di tutti.

lunedì 15 dicembre 2014

Il "radical" pensa al prossimo soltanto se viene da lontano...

di Marcello Veneziani

C' è un punto cruciale su cui la sinistra ha costruito la sua pretesa superiorità morale, etica e sociale rispetto alla destra. Parlo di ogni sinistra, comunista o liberal, socialdemocratica, cristiana o radical, compreso quel residuo di sinistra in via di liquidazione che boccheggia nel presente.



E parlo di ogni destra, liberale o conservatrice, reazionaria o popolare, tradizionale e perfino fascista. Quel punto basilare è il prendersi cura dell'umanità, il famoso I care , la fratellanza o la generosità verso i più deboli, i poveri e gli oppressi. In una parola la solidarietà. Quell'asse regge la pretesa di ogni sinistra a ergersi su un trespolo di superiorità, una cattedra morale o giudiziaria, e da lì giudicare il mondo, gli altri e gli avversari. Il sottinteso è che la sinistra sia mossa da un ideale, un valore - la fratellanza, la filantropia, l'amore per l'altro, la solidarietà, trasposizione sociale della carità - e la destra invece sia mossa sempre e solo da un interesse, se liberale, o da un istinto, se radicale. La prima è per definizione altruista, aperta, la seconda egoista o al più familista, comunque cinica, chiusa.

A questa «utopia necessaria» e benefica, Stefano Rodotà ha dedicato un libro, Solidarietà (Laterza, pagg. 141 euro 14) elogiato dalle «anime belle» della sinistra. Troneggia una tesi che già affiorava ne Le due fonti della morale e della religione di Bergson: la vera solidarietà sta nell'amare il lontano, lo sconosciuto, lo straniero. In realtà c'è un altro modo di concepire il legame sociale, solidale e comunitario che non è indicato da Rodotà. È il legame affettivo che parte dal più caro e si fonda sulla prossimità. L'amore stesso è fondato sulla predilezione: la persona amata non è intercambiabile con un'altra, non si può amare dello stesso amore chi è caro e famigliare e chi è remoto e ignoto. Non si potrà mai chiedere a una persona di amare di più chi non conosce o è straniero rispetto a sua madre o suo figlio. Non si potrà mai pretendere che si senta più fratello dello sconosciuto rispetto a suo fratello: non si può capovolgere una legge di natura, biologica e affettiva, carnale e spirituale. Su quella legge naturale ha retto ogni consorzio umano e si traduce in legame d'amore e famigliare, legame civico, sociale e nazionale. Posso essere aperto all'umanità e ben disposto verso ogni uomo, ma a partire da chi mi è più vicino, da chi appartiene alla mia vita, con cui condivido il pane (compagno, cum-panis ), la provenienza e la storia. Perché dovrei giudicare egoistica questa preferenza, o cinica la morale che ne consegue? Amare chi ti è caro e vicino non è chiudersi al mondo in una forma deplorevole di egoismo, ma è la prima e più autentica apertura agli altri nella vita reale.



Su quei legami reggono le prime fondamentali comunità, le famiglie, quell'energia anima l'amore tra due persone, quella fonte dà coesione alle patrie e le altre forme di comunità, inclusa la confraternita, fino alla colleganza di lavoro. L'errore o la mistificazione che si compie al riguardo per sancire la superiorità morale dei solidali cosmici, è paragonare un valore universale a una degenerazione del principio opposto: non si confronta l'amore verso lo straniero con l'amore a partire da chi ti è più caro, ma la fratellanza all'egoismo, l'amore per l'umanità al cinismo. Sarebbe facile a questo punto compiere la simmetrica operazione e paragonare l'amore per chi ti è vicino al disprezzo, l'odio o l'indifferenza verso il prossimo dietro l'alibi e l'impostura della filantropia universale. Due spiriti acuti e profondi come Leopardi e Dostoevskij criticarono il cosmopolitismo filantropico sottolineando che l'amore per l'umanità o per lo straniero di solito si sposa all'insofferenza o all'indifferenza verso chi ti è concretamente vicino, familiare o compatriota. Ovvero nel nome di un amore astratto, utopico e solo mentale, si nega e si rinnega l'amore reale, quotidiano per le persone a noi più prossime. Nell'amore per l'umanità si spezzano i legami reali e si opta per un individualismo planetario: il single sradicato che abbraccia il mondo intero.

L'utopia che muove la fratellanza universale è il principio egualitario, ossia la convinzione che tutti gli uomini siano uguali non solo in ordine ai diritti e ai doveri ma anche sul piano degli affetti. Anzi, in questa prospettiva merita più attenzione e più cura chi ci è più estraneo. Non solo si respinge il principio del merito secondo cui ognuno riceve secondo le sue capacità e le sue opere, e si sostituisce col principio del bisogno secondo cui ognuno riceve in base alle sue necessità; ma si sostituisce la priorità su cui si fonda l'amore (la persona amata, la famiglia, gli amici, i compatrioti o i consociati) con la priorità assegnata agli stranieri. Da qui il passaggio dal legame comunitario che unisce le società al principio di accoglienza che apre al suo esterno. In questo caso la coesione sociale sarebbe fondata sull'adesione allo stesso principio: ci unisce l'idea di accogliere lo straniero e formare con lui una società aperta e universale.

Questa disputa ideologica è tutt'altro che riservata ai circoli intellettuali perché è piuttosto la traduzione culturale di un tema cruciale di massa nella nostra epoca. Si fronteggiano nella vita di ogni giorno due visioni del mondo: quella di chi affronta l'universale a partire dal particolare e quella di chi affronta il particolare a partire dall'universale. Il primo può dirsi principio d'identità fondato sulla realtà, il secondo è un principio di alterità fondato sull'utopia, come dicono gli stessi assertori, Rodotà incluso. La solidarietà può esprimersi in realtà in due modi: quello di chi privilegia lo straniero e si fonda sul principio di accoglienza, e quello di chi parte da chi è più vicino e fonda il principio di comunità. È la sfida del nostro tempo: comunità o universalismo, anche se taluni pensano nella loro utopia che si possa fondare una comunità su basi universalistiche, una specie di comunità sconfinata che coincide con l'umanità, secondo il vecchio progetto cosmopolitico illuminista. In realtà l'unico sciagurato tentativo di tradurre nel reale questa utopia egualitaria e universalista è stato il comunismo e sappiamo gli esiti catastrofici. Ora il tentativo è ridurre questa utopia politica a prescrizione morale, preservando i diritti individuali. Così l'accoglienza solidale diventa la base del moralismo radical, ultima spiaggia della sinistra egualitaria. L'utopia del mondo migliore dichiara guerra al mondo reale, alla vita e alla natura, sacrificando l'uomo concreto all'umanità. E ribattezza questa guerra contro la realtà come solidarietà all'umanità...

martedì 9 dicembre 2014

Casaggì Firenze: “Universitari ribelli tra Brasillach e Vandea”...


intervista di Marco Petrelli (Barbadillo)

Centro sociale (di destra) nato alla metà degli Anni Duemila nel contesto di Azione Giovani Firenze, Casaggì è una comunità che si sviluppa con una vocazione territoriale. Poi, l’attenzione si sposta anche all’UniFi che, da alcuni anni, comincia ad essere nuovo terreno di gioco. E pronta anche ad aderire al progetto di Gioventù Universitaria, pur con un sostanziale distinguo rispetto alle altre comunità delle quali vi abbiamo parlato. La formazione fiorentina considera, infatti, il termine “destra” come “scorciatoia cognitiva, punto di riferimento geografico-politico”. Niente di più. E i riferimenti culturali non lasciano certo dubbi sull’orientamento del gruppo: Pio Filippani Ronconi, Robert Brasillach, Julius Evola, Jean Thiriart, Adriano Romualdi, intellettuali che sarebbe quanto meno riduttivo “bollare” con una generica etichetta politica. Casaggì è una comunità complessa di ragazzi che, nel corso dell’intervista, accetta di parlare solo come gruppo, collettività e non come singoli individui.

Casaggì: che cos’è quando nasce e dove opera?

“Casaggì è un “centro sociale di destra”, uno spazio identitario che opera a Firenze dal 2005. Nasce all’interno di Azione Giovani e ne rappresenta fin dall’inizio il progetto metapolitico. Oggi la nostra Comunità è in grado di offrire corsi di autodifesa, ripetizioni per gli studenti, assistenza commerciale e legale, formazione culturale, corsi di grafica e pittura, di cucina e di primo soccorso. Nei nostri locali è presente un pub (il Bogside), una libreria (Sherwood), un progetto musicale (Gene ZeroZero), un gruppo femminile (Aleteia), un gruppo di approfondimento cinematografico (CineCrew), un movimento studentesco (Casaggì Scuole) ed uno universitario (Casaggì Università). Cerchiamo di operare a tutto tondo, dal volontariato sociale all’ambientalismo, dalla politica giovanile a quelle cittadina. Dal 2009 abbiamo un consigliere comunale, eletto con centinaia di preferenze e riconfermato nel maggio del 2014 con la più alta percentuale di preferenze rispetto ai voti di lista che si sia mai registrata a Firenze negli ultimi trent’anni. Ci ha premiato la militanza quotidiana, l’impegno disinteressato di quel centinaio di attivisti che hanno saputo difendere gli interessi degli ultimi, costruendo una forte rete di contatti e di solidarietà sul territorio e pagandosi una sede di tasca propria attraverso le tante attività condivise. Siamo riusciti, in questi anni, ad ottenere risultati importanti anche attraverso l’opera istituzionale. Tra le tante ne rivendichiamo due: abbiamo “cacciato” Equitalia da Firenze facendo approvare la nostra mozione all’unanimità e abbiamo fatto intitolare una strada a Bobby Sands, martire irlandese“.

Siete presenti anche all’Università di Firenze?

“Sì, da anni cerchiamo di occuparci anche di politica universitaria e utilizziamo l’Ateneo come volano di aggregazione giovanile per propagandare le nostre iniziative. Abbiamo più volte eletto dei consiglieri, nonostante le difficoltà fisiche e politiche che presentano le facoltà fiorentine. Restiamo convinti dell’assoluta necessità di creare una forza studentesca che non sia l’espressione del perbenismo borghese e della sciocca contrapposizione ideologica, ma che possa davvero attuare un contropotere organizzato, disciplinato e auto diretto“.

Vi definite di destra o centro destra?

“Il termine “destra” è utilizzato come scorciatoia cognitiva, come punto di riferimento geografico-politico. Quando nacque Casaggì e iniziamo a prenderci il nostro spazio conquistando la Consulta degli Studenti, un noto giornale locale fece la prima pagina con un titolo a caratteri cubitali: “Casaggì: un centro sociale, ma di destra”. Ci piacque e ce lo tenemmo. Ma l’etichetta, comunque, ci resta stretta: vogliamo essere altro, vogliamo essere di più“.

Quali sono i vostri riferimenti culturali?

“Ci siamo formati con i mostri sacri della cultura non allineata: dall’organizzazione del Cuib di Codreanu alla fascinazione guerriera per il Degrelle di “Militia”, dall’eresia antiborghese di Berto Ricci all’esempio di Alessandro Pavolini, dalla dottrina del Fascismo di Giovanni Gentile e Benito Mussolini alla mistica di Niccolò Giani e Guido Pallotta; dall’Europa di Adriano Romualdi e Jean Thiriart all’anticapitalismo di Sombart; dallo spirito futur-ardito al fiumanesimo dannunziano, da Corto Maltese ai romanzi d’avventura; dal tradizionalismo di Evola, Guenon, Scaligero, Eliade e De Giorgio alla profondità dei francesi come Brasillach, Celine e La Rochelle; da Mishima a Tolkien, da Kerouac a Marinetti; dai pensatori della Rivoluzione Conservatrice tedesca al peronismo e al Don Chisciotte, dal gabbiano Jonathan Livingston al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, fino all’immensità di Ezra Pound, ma anche quella di Nietzsche, di Cioran, di Jose Antonio Primo de Rivera e di Junger. Dalla saggezza orientale dei koan zen a quella dei sufi e del Tao, passando per il Bushido e il Bhagavad Gita. E non possiamo non citare la filosofia ellenica, la sapienza latina, l’esempio di Roma e di Sparta, il Sacro romano Impero e i controrivoluzionari di Vandea, ma anche i nostri Briganti, i Pellerossa e i pirati. Un ruolo centrale lo giocano i combattenti per la libertà, dai palestinesi all’Ira, dai monaci tibetani ai karen, dai saharawi alle migliaia di siriani che stanno difendendo la sovranità della propria Terra: riferimenti viventi di una cultura che si fa azione. Tra i contemporanei, viventi e non, non possiamo non citare – tra gli altri – Alain de Benoist, Massimo Fini, Marcello Veneziani, Pietrangelo Buttafuoco, Gabriele Adinolfi, Guillaume Faye, Serge Latouche, Zygmunt Bauman, ma anche Domique Venner, Giano Accame e Pio Filippani Ronconi. E infine, quello che più conta: l’esempio silenzioso delle migliaia di soldati, di militanti e di Uomini: dal Carso al Piave, da El Alamein alla Rsi, da Iwo Jima alle rovine fumanti di Berlino”.

Casaggì è legata a qualche partito?

“Abbiamo portato avanti dei progetti di collaborazione locale e il nostro consigliere comunale è stato eletto con la lista di Fratelli d’Italia, ma preferiamo non entrare in modo integrale in nessun partito politico. Riteniamo i partiti uno strumento e non un fine. Preferiamo mantenere un’autonomia di riferimenti culturali e di azione, magari arrancando e facendo una colletta di più per pagare l’affitto o la stampa di un manifesto ma senza dover rendere conto a nessuno. Abbiamo capito che, alla lunga, ciò che conta è la capacità di restare fermi al centro e flessibili nella circonferenza, aperti al dialogo e alle sintesi, ma senza cedere alle lusinghe di una poltrona o di una prebenda“.

Come aggregate?

“Aggreghiamo in ogni modo possibile: con una frenetica attività nelle scuole superiori, fatta di centinaia di volantinaggi; con una continua opera di approfondimento culturale attraverso i cicli di conferenze, i cineforum e le scuole di formazione; con l’azione sociale, militante e politica sul territorio; con i tanti servizi che offriamo gratuitamente; con le attività ludiche e ricreative, musicali e sportive; con la ricerca di una comunicazione grafica e di linguaggio in grado di lanciare messaggi che siano chiari e accattivanti”.

Avete aderito al progetto di Gioventù Universitaria?


“Stiamo valutando il progetto“.

lunedì 8 dicembre 2014

Il ‘mondo di mezzo’ che viene da lontano...

di Massimo Fini

La debolezza della democrazia sta proprio in quella che viene considerata la sua essenza: la libera scelta da parte dei cittadini dei propri rappresentanti. Per la verità nella testa di Locke e Stuart Mill c’era che questa scelta riguardasse singoli individui. I partiti non erano contemplati. Ma QUESTE aggregazioni si formarono quasi subito contraddicendo così nel profondo il pensiero liberale che voleva valorizzare meriti, capacità, potenzialità dei singoli individui contro le oligarchie e che ne vengono invece schiacciati. A questo proposito ha detto parole definitive Gaetano Mosca che ne ‘La classe politica’ scrive: «Cento che agiscano sempre di concerto e d’intesa gli uni con gli altri trionferanno sempre su mille presi uno a uno che non avranno alcun accordo fra loro». I partiti non sono l’essenza della democrazia, almeno di quella liberale, come sempre si dice, ma la sua fine. Un’ulteriore conseguenza è che il governante democratico, dovendo tener conto, a causa della competizione elettorale, del consenso non può prendere decisioni di lungo respiro, impopolari, ma può agire solo sul ‘qui e ora’. Non guida il popolo, come vorrebbe la sua funzione, ma ne è guidato.
Proprio perché basate sulla competizione fra partiti le democrazie sono, storicamente e statisticamente, fra i regimi più corrotti del mondo. I partiti per competere hanno bisogno di soldi. L’Italia nella classifica della corruzione è al 69° posto. Ma ha una storia particolare. Paese di frontiera fra Est e Ovest, i suoi partiti sono stati finanziati per decenni da potenze straniere, Dc e Psdi dagli americani, il Pci dall’Urss. Restavano fuori i socialisti che non a caso saranno i più assatanati durante l’epopea di Tangentopoli. In seguito, illanguidendosi quei finanziamenti esteri, lo scenario cambia. In un articolo pubblicato dal Lavoro l’11 ottobre del 1979 raccontavo come nei ‘salotti’ romani si potevano vedere «politici comunisti, socialisti, del Manifesto variamente intrecciati con palazzinari, mafiosi d’alto bordo… il parlamentare comunista che, appena lanciate durissime accuse contro la mafia, ammicca complice al palazzinaro notoriamente legato ad ambienti mafiosi». Il ‘mondo di mezzo’ era, sia pur in nuce, già qui. E Renzi dovrebbe avere il pudore di non fingersi «sconvolto» dalle recenti inchieste romane perché ‘il mondo di mezzo’ ha origini proprio nella sinistra, allora egemone, e il premier, per quanto giovane, non può ignorare la storia del partito che oggi dirige. La terza fase della corruzione in Italia è quella di Tangentopoli. Nemmeno l’avvertimento di Mani Pulite è servito ai partiti per emendarsi. Al contrario, ci hanno messo pochi anni a trasformare i ladri in vittime e la Magistratura nel bersaglio preferito. Del resto una classe partitica interamente corrotta, al 100% se nel termine facciamo rientrare anche il clientelismo, il familismo, la mentalità intimamente mafiosa, non poteva combattere seriamente la corruzione senza scavarsi la fossa SOTTO i piedi. E così arriviamo alla quarta fase, all’oggi. Ma con una differenza di non poco conto che è stata sottolineata da tutti. Se prima era la politica corrotta e corruttibile a dirigere le danze, adesso deve ubbidire alla criminalità cui si è strettamente intrecciata. Non solo a Roma ma in tutte le regioni del Paese e quindi nell’Italia intera, noi siamo governati non da coloro che formalmente rappresentano le Istituzioni, ma da una qualche ‘banda della Magliana’.

martedì 2 dicembre 2014

Il grattacielo, ovvero la follia moderna...


L'Anacronista (EreticaMente.net)

Il grattacielo è la perfetta metafora ed espressione architettonica degli errori del capitalismo e, più in generale, della Modernità.
Credere che la moltiplicazione endemica di questa tipologia di  edifici prima inedita, cominciata alla fine dell’ ’800, sia dovuta solo ad esigenze commerciali e alla disponibilità di nuove tecnologie costruttive, è oltremodo riduttivo. Vediamo perché.
Nella storia umana, il grattacielo non è il primo esempio di costruzione a raggiungere altezze elevate. Il campanile del duomo di Cremona supera i 112 metri. Diverse cattedrali gotiche del nord Europa toccano i 150. Tuttavia, sia le cattedrali in se stesse che il connubio chiesa-campanile presentavano nell’insieme proporzioni armoniche, dettate da considerazioni artistiche, non commerciali. Tra i significati simbolici di chiesa e campanile, come il dualismo donna/uomo, mondo interiore/esteriore, lo slancio verso l’alto rappresentava la ricerca di Dio. Al contrario, l’unica preoccupazione del grattacielo è quella di raggiungere la maggiore altezza possibile, sia per scopi commerciali (affinché contenga quanti più uffici o appartamenti per massimizzare la resa del lotto) che simbolici (mostrare il potere della corporation che l’ha commissionato). Qualora esista la pretesa di darvi anche un contenuto “estetico”, ciò avviene sperimentando le forme più strampalate, secondo l’idea tipica della modernità per cui la bellezza sta nel nuovo, nell’inusitato, nel trasgressivo.
Sia a livello pratico che simbolico, quindi, il grattacielo è l’espressione dell’ideologia capitalistica e moderna in genere, che prevede il primato dell’economia su tutto il resto e la disumanizzazione del mondo. Esso è la rappresentazione della forma mentis del capitalismo: crescere sempre di più, sviluppare, innovare, accumulare denaro, sfruttare risorse e persone, competere, dominare, mostrare il proprio potere, staccarsi dalla natura, ignorare i bisogni più fondamentali dell’essere umano.
Il grattacielo, come e più di altre costruzioni moderne, ignora le esigenze estetiche e vitali per perseguire il desiderio di massimizzare i profitti; porta l’uomo a separarsi fisicamente dal suolo, a guardare la Terra dall’alto, quasi fosse cosa a parte e distaccata dalla natura (come infatti l’uomo moderno ritiene di essere) negando agli abitanti delle torri residenziali la possibilità di un giardino o di un orto, di una vita orizzontale come sarebbe loro congenita, di fatto alienandoli dal mondo naturale e ammassandoli in scatole di cemento e acciaio.
Esso è presenza costante e opprimente nelle città non solo statunitensi (suo luogo natale) ma di tutto il mondo cosiddetto “sviluppato”. Dubai conta 277 edifici più alti di 100 metri. New York ne ha 564. Tokyo 633. Hong Kong, che per ora sembra detenerne il primato, addirittura 856. La loro ombra riduce la luce nelle strade cittadine; la loro presenza mastodontica ricorda all’uomo della strada che egli non è nessuno.
Costruire un grattacielo più alto degli altri ha il significato di entrare a pieno titolo nel novero dei grandi e dei potenti. Quale evidente simbolo fallico, altro non rappresenta che la puerile gara all’attributo maschile più macho. Tanta è la levatura intellettuale del mondo moderno.
Se è vero che l’ambizione a costruire qualcosa di grandioso è connaturata all’uomo, in passato e in tutte le culture questa prendeva forma in opere che esprimevano al massimo grado la sua sensibilità artistica e la sua essenza. I meravigliosi templi di ogni religione sono lì a ricordarcelo. Se anche l’ostentazione della ricchezza e del potere è antica come il mondo, nelle società pre-moderne anch’essa prendeva la forma di manifestazione artistica di massima bellezza. Non era il numero di stanze o l’estensione del giardino, ma l’arte che vi era espressa, a rendere gloriose le regge e le dimore reali e aristocratiche di un tempo.
Oggi invece, morta l’arte per decomposizione in mille preferenze e presunzioni individuali, l’unico modo per costruire qualcosa di grande e per dimostrare di essere ricchi e potenti è sfoggiare la quantità: i metri quadrati, le tonnellate di acciaio, l’elevazione dal suolo – antenna compresa, si capisce.
Il grattacielo, quindi, come concentrato di errori teorici e pratici della Modernità:
-          il mito della crescita quantitativa infinita, con la predazione di risorse e persone;
-          l’uomo al servizio dell’economia anziché il contrario, il che si traduce nella prevalenza delle esigenze commerciali su quelle vitali ed estetiche;
-          la competizione sfrenata all’accumulo di ricchezza, sfoggiata tramite la gara all’attributo più macho;
-          la concentrazione di persone e lavoro nelle aree urbane, dovuta all’industrializzazione moderna che aliena l’uomo dal suo ambiente;
-          la gara alla forma più strana, secondo l’idea moderna che bisogna continuamente cambiare, inventare, trasgredire.
Gli Stati Uniti d’America sono stati il primo paese a venire fondato sui principii della Modernità. Non è un caso che lì sia nato il grattacielo, diventato presto non solo l’icona di città come New York e Chicago, ma il simbolo dell’intera civiltà americana. Né è un caso che, per colpire al cuore l’americano medio, si sia scelto di abbattere le torri del World Trade Center.
Dagli USA il grattacielo è stato esportato in tutto il pianeta per divenire il simbolo, più che appropriato, del modello di sviluppo del mondo globalizzato. E’ difficile immaginare il mondo moderno, finanziarizzato, imbruttito, mercificato, disumanizzato, senza il grattacielo. Ed è impossibile immaginare un mondo a misura d’uomo, ragionevole, rinaturato, con il grattacielo. Credo proprio che, se l’umanità prima o poi tornerà al buon senso e riscoprirà se stessa, per quei monumenti alla follia non ci sarà più spazio. Lo spero davvero.
L’anacronista

lunedì 1 dicembre 2014

Il disastro prossimo venturo...


di Giuliano Augusto (Rinascita.eu)

L'economia mondiale continua a crescere, laddove riesce ancora a crescere (come in Cina e negli Stati Uniti) grazie ai debiti pubblici accumulati negli ultimi anni e grazie ai finanziamenti agevolati o a fondo perduto concessi dalle banche centrali alle banche ordinarie. A questi due elementi si deve aggiungere, in particolare negli Usa, l'indebitamento cronico delle famiglie da sempre abituate a chiedere soldi in PRESTITO per comprare casa o più semplicemente per consumare. E' un sistema che può durare finché vi è una crescita economica sufficiente e continua ma che in una fase di recessione come questa non può che essere sempre sul punto di implodere su stesso. Alla fine infatti ci sarà sempre qualcuno che si rifiuterà di prendere tra le dita il classico cerino acceso, il quale, purtroppo, nel frattempo avrà già ustionato non pochi dei suoi possessori. Le misure messe in atto finora, all'insegna dell'austerità, dai governi e dalle banche centrali europee si sono mostrate inadeguate. In Italia, tanto per dirne una, la revisione e la razionalizzazione della spesa hanno prodotto scarsi risultati. Se il disavanzo è sceso, apparentemente, sotto il 3% del Pil, il che ci fa rientrare sotto il tetto stabilito dal Patto di Stabilità, il debito pubblico resta al 135% ed è quello che, grazie ai rendimenti dei titoli decennali, contribuisce a determinare lo spread con i Bund tedeschi. Se Sparta (si fa per dire) piange, Atene non ride. La Grecia, nonostante i suoi governi abbiano offerto tutte le ricchezze del Paese (ed anche altro) alla voracità della Troika (Fondo Monetario internazionale, Bce e Commissione europea), non è riuscita a rimettersi in sesto. Il debito pubblico resta al 180%, cifra più, cifra meno. E sono sempre più insistenti le voci e i timori che la bancarotta sia dietro l'angolo e con essa, a seguire, l'uscita dall'euro con tutte le inevitabili conseguenze per la moneta unica che ne potrebbe essere travolta. Un euro, nel cui sistema, è bene sempre ricordarlo, la Grecia fu in grado di entrare dopo che i “tecnici” della Goldman Sachs (di cui Mario Draghi fu vicepresidente per l'Europa) offrirono la propria consulenza per truccare i conti pubblici e presentare la situazione economica migliore di quello che fosse in realtà. Si tratta della stessa Goldman Sachs, salvata dal fallimento grazie ai soldi di Obama, che ha speculato massicciamente contro i titoli italiani con l'intento di indebolire l'euro. Due obiettivi apparentemente opposti ed inconciliabili ma che trovano la loro ragione di essere nella ricerca sistematica del profitto. Il capitalismo, anglofono, europeo o asiatico che sia, non riconosce infatti né patrie né frontiere. Il mercato globale da esso sostenuto comporta la possibilità di spostare a piacimento i capitali, in cerca di un guadagno, allo stesso modo delle materie prime, dei prodotti finiti e della forza lavoro. La Bce, dopo aver tagliato i tassi di interesse fino al minimo storico dello 0,15 per cento, e dopo aver annunciato altri operazioni “non convenzionali”, in sostanza offrendo altri soldi alle banche, pensa adesso all'acquisto di titoli pubblici a lungo termine. Un cambio radicale di strategia perché finora ci si era limitati a comprare quelli fino a 3 anni, lasciando questa incombenza al Fondo europeo salva Stati. Una dimostrazione evidente del fatto che il timore diffuso è appunto quello di una implosione dell'euro che partirebbe da Grecia o Italia con i rispettivi titoli pubblici decennali che finirebbero fuori mercati perché nessuno vuole più comprarli perché non crede alla loro solvibilità futura. Negli Usa nel frattempo ci si prepara al solito teatrino al Congresso tra democratici e repubblicani per alzare il tetto “legale” del debito pubblico. Un teatrino al quale si assiste inevitabilmente prima di Natale e prima della chiusura estiva. Le ultime speranze di una inversione di tendenza sono offerte dal mega piano di investimenti in opere pubbliche finanziato dall'Unione Europea e dalla Banca europea degli Investimenti che ne sarà il braccio finanziario. Una svolta “keynesiana” che molti si aspettavano ed auspicavano ma che in Italia, come in passato, rischia di trasformarsi in una occasione di magna magna per le banche e per le solite consorterie nazionali e locali che cercheranno di arraffare quanto più è possibile, fregandosene altamente del nostro futuro economico. - See more at: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=23643#sthash.gMiYqc0U.dpuf