venerdì 30 agosto 2013

23 marzo 1919: la “congiura dei santi pazzi”...


di Giacinto Reale (ereticamente.net)
La nascita del fascismo data al 23 marzo 1919, giorno in cui l’assemblea di un centinaio di lettori del Popolo d’Italia, riunita nei locali concessi (come da prassi normale) dal Circolo degli interessi industriali e commerciali, in piazza San Sepolcro, a Milano, in una “congiura di santi pazzi” delibera la costituzione dei Fasci di combattimento. In effetti, ciò che sicuramente accomuna tutti i presenti, aldilà delle diversità di orientamento e provenienza che esistono fra loro, ciò che crea per tutti un minimo comune denominatore, è soprattutto l’adesione alle tesi ed alla campagna politica del quotidiano mussoliniano.
Il ruolo del Popolo d’Italia in questi mesi è rilevantissimo e molteplice: indica una linea politica, suggerisce obiettivi da raggiungere, coordina sforzi organizzativi, fa da portavoce propagatore di istanze diverse e non sempre coerenti fra di loro. Funge anche da “centro di assistenza” per smobilitati e reduci che in continuazione, e non sempre con discrezione, vengono a battere cassa al “loro” giornale che “deve” aiutarli; dieci lire di sussidio non si negano a nessuno, anche se Arnaldo Mussolini, che è l’amministratore del giornale, borbotta per le conseguenze disastrose di quella prodigalità indiscriminata sulle già lacunose risorse economiche di cui dispone.
E’ proprio il Popolo d’Italia che il 2 marzo ha dato l’annuncio della prossima riunione: “I corrispondenti, collaboratori, lettori, seguaci del Popolo d’Italia, combattenti, ex combattenti, cittadini e rappresentanti dei Fasci della “Nuova Italia” e del resto della Nazione, sono invitati ad intervenire all’adunanza privata, che sarà tenuta a Milano il prossimo 23 marzo. Gli amici che interverranno personalmente o in rappresentanza di gruppi sono pregati di avvertire senza indugio. Si terrà conto anche delle adesioni mandate per lettera. L’adunata sarà importantissima.” La riunione è preceduta dalla costituzione, il 21 del Fascio milanese, e, in pratica, si inserisce tra le molte iniziative che agitano l’ambiente interventista ed antisocialista del capoluogo lombardo e ne fanno un punto di riferimento obbligato per tutta l’Italia.
Mussolini, per esempio, il 20 marzo è stato chiamato a Dalmine, tra gli operai che hanno occupato con il tricolore lo stabilimento Franchi e Gregorini e si sono impegnati nell’originalissimo “sciopero produttivo”, proseguendo, cioè nel lavoro: viene accolto da un operaio che indossa ancora “la completa tenuta da soldato, salvo le stellette”, e loda l’iniziativa con accenti inequivocabili: “Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la Nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici.…Voi insegnate a certi industriali, a quelli specialmente che ignorano tutto ciò che in questi ultimi quattro anni è avvenuto nel mondo, che la figura del vecchio industriale esoso e vampiro deve sostituirsi con quella del capitano della sua industria, da cui può chiedere il necessario per sé, non già per imporre la miseria per gli altri creatori della ricchezza… Per i vostri diritti, che sono equi e sacrosanti, sono con voi. Distinguerò sempre la massa che lavora dal Partito che si arroga, non si sa perché, il diritto di volerla rappresentare.”
In previsione della riunione, il Popolo d’Italia pubblica, spesso però con i tagli imposti dall’occhiuta censura governativa, messaggi di simpatizzanti che, impossibilitati ad intervenire di persona, inviano telegrammi di solidarietà, personali ed a nome di varie associazioni, in genere però di scarsa consistenza numerica. Alcune adesioni sono “politiche”, provengono cioè da elementi già interessati da precedenti esperienze di politica attiva, ma molte sono quelle di uomini e gruppi fino allora estranei alla politica vera e propria, come alcuni Ufficiali e soldati del 14^ Reggimento fanteria, che scrivono da Foggia: “Impossibilitati presenziare all’adunata, mandiamo la nostra adesione. Abbiamo fatto l’Italia, ne vogliamo ora le redini.” Simile il contributo di tale Leone Lombardi, di Montevarchi: “…Sono un umile fante volontario di guerra. Ho creduto sempre e credo anche adesso che i grigioverde debbano imporsi ai rossi e ai neri. Siamo la parte migliore del Paese perché abbiamo adempiuto a doveri grandissimi; così ci si devono riconoscere diritti corrispondenti. Spero che l’adunata del 23 alla quale aderisco sia la prima squilla in tal senso.”
Il giornale mussoliniano, dal canto suo, alimenta con indubbia efficacia l’aspettativa per l’avvenimento: parla di nascita dell’ “antipartito” che si contrapporrà contemporaneamente a due pericoli “quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra”, chiama a raccolta tutti i protagonisti delle battaglie interventiste, per la formazione di un blocco unico che si contrapponga al nemico interno ed eviti il sabotaggio della pace, che può venire da due parti, dall’imbecillità governativa come dall’incoscienza tesserata.
Contro tutto questo nascono i Fasci di combattimento, nella sintesi mussoliniana: “Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti ed illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo di ambiente nelle quali siamo costretti a vivere ed agire.” Alla fine, le adesioni saranno 430: 400 quelle individuali e 30 le collettive; in effetti, la domenica mattina, nei locali al primo piano del numero 9 di piazza San Sepolcro, i presenti sono circa un centinaio. E diciamo circa, perchè sul numero esatto le informazioni sono assai discordi: l’elenco fornito dal Chiurco è di 112 nominativi; ma, contro la sua completezza sta, per esempio, la testimonianza di Ernesto Daquanno che pure è presente (e ci sarà fino a Dongo) e non sarà incluso nell’elenco: “Mentre gli oratori parlano, il Tenente degli Arditi Renato Barabandi ha circolato tra gli intervenuti raccogliendone nomi e attributi….Mi chiede cosa rappresento “Non rappresento nessuno” – dico – “Allora non ti ci metto” – fa lui – “E tu non mi ci mettere” – replico alzando le spalle – Così il mio nome non passa nel resoconto pubblicato all’indomani sul Popolo d’Italia ….Ma io c’ero, ah se c’ero” Cesare Rossi conferma il dato dell’approssimatività, e si attribuisce la responsabilità dell’arbitraria inclusione nell’elenco del Senatore Luigi Mangiagalli, illustre ostetrico di provenienza democratico-radicale; in effetti, costui, che non si sognerà mai di smentire la sua partecipazione, è assente, e solo la somiglianza con uno sconosciuto affacciatosi per caso alla sala durante la riunione ne farà un “sansepolcrista”.
Si deve pensare, quindi, che l’elenco dei presenti, da passare al giornale il giorno dopo, sia stato compilato in maniera un po’ superficiale, come spesso accade in queste occasioni; da una scorsa a tali nomi si nota subito come manchino nell’elenco la gran parte di quelli che poi saranno, nel periodo successivo, i maggiori esponenti del movimento e vi siano, viceversa, alcuni che nel quadriennio successivo si staccheranno dal fascismo per dissapori ideologici, motivi personali o per varie altre cause di incompatibilità. Molti infine sono e saranno degli sconosciuti che, nei mesi a venire, passato l’entusiasmo del primissimo dopoguerra, si defileranno, sottratti all’impegno politico dai mille problemi della sopravvivenza quotidiana.
Se si guarda alla composizione sociale ed alla provenienza ideologica dei sansepolcristi, ritroviamo le categorie e i gruppi già visti: futuristi, Arditi, sindacalisti rivoluzionari, interventisti, trinceristi e combattenti. Della riunione sappiamo quasi tutto, dal resoconto che ne fa il giorno dopo il Popolo d’Italia e dal racconto che ne faranno, negli anni successivi, i maggiori protagonisti.
Tutto si svolge tranquillamente, nonostante alcune larvate minacce socialiste, che giustificano la presenza di alcuni gruppi di Arditi, guidati da Edmondo Mazzuccato, di guardia sullo scalone ed ai lati dell’ingresso del palazzo: sono gli stessi Arditi che qualche settimana prima, nel dare notizia alla stampa della costituzione della Sezione milanese della loro Associazione hanno fatto seguire al nome il proprio indirizzo di casa (spesso situata in quartieri popolari “a rischio”), in segno di sfida agli avversari. Presiede Ferruccio Vecchi (che alla riunione dedicherà anche la scultura sopra riprodotta), a riprova della preminenza “morale”, se non numerica degli Arditi, e vi sono vari interventi: Marinetti, Vecchi, Carli, Michele Bianchi e molti altri; l’intervento più importante, come ovvio, è quello di Mussolini, che propone una dichiarazione in tre punti, approvata dall’assemblea.
Al primo punto c’è il saluto ai caduti, ai combattenti, ai mutilati e la riaffermazione della disponibilità a sostenere le rivendicazioni dei reduci; al secondo è inserita un’allocuzione contro ogni imperialismo, per la Società delle Nazioni e per le rivendicazioni italiane su Fiume e la Dalmazia; al terzo punto si impegna il neonato movimento a sabotare le candidature neutraliste in tutti i Partiti alle elezioni. Dopo un aggiornamento dei lavori per il pranzo, la riunione continua al pomeriggio, a ranghi più ristretti; se la sono squagliata “gli uomini d’ordine, i borghesi, i posapiano, i galantuomini per definizione e i patriottardi per partito preso”. Mussolini interviene di nuovo e ribadisce i concetti già espressi a Dalmine, per il sindacalismo nazionale e contro l’ingerenza dello Stato in economia; poi si spinge più oltre, e si pronuncia per l’abolizione del Senato, per il suffragio universale esteso anche alle donne e, soprattutto, per la scelta repubblicana e democratica: “Dalle nuove elezioni uscirà un’Assemblea nazionale alla quale noi chiederemo che decida sulla forma di governo dello Stato italiano. Essa dirà: repubblica o monarchia, e noi che siamo stati sempre tendenzialmente repubblicani, diciamo fin da questo momento: repubblica !....Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quella della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà e dell’intelligenza.”
Il generale consenso dell’assemblea, trascinata anche dalle grandi capacità oratorie del direttore del Popolo d’Italia, accompagna queste parole e sancisce la fine della riunione, al termine della quale viene anche nominato un Comitato centrale, di cui però si ignora la composizione esatta, anche se certamente ne dovevano fare parte Mussolini, Vecchi, Marinetti, e Bianchi. L’impegno più importante è, come logico, quello per lo sviluppo del movimento ed il proselitismo: il Popolo d’Italia scrive il giorno 24, nel dare il resoconto della riunione: “Ogni amico e lettore nostro deve farsi iniziatore del Fascio. Non importa di essere in molti. Oserei dire che è preferibile, se non necessario, essere in pochi. Cinque, dieci individui bastano per costituire un Fascio: ora che la strada è segnata, si tratta di camminare audacemente innanzi. Fra due mesi, un migliaio di Fasci saranno sorti in tutta Italia.”
E, in effetti, vengono ben presto costituiti i primi Fasci: Torino, Verona, Bergamo, Treviso, Padova, l’appello mussoliniano trova adesioni e simpatie; proprio sul tema dell’organizzazione dei Fasci tornerà, perciò, il giornale qualche giorno dopo: “Non c’è bisogno di ripetere che la loro vita interna è assolutamente autonoma. Statuti, regolamenti, etc…Tutto ciò è roba di Partiti. Ogni Fascio munirà i suoi soci di una tessera per il riconoscimento personale e farà un regolamento con un solo articolo: il socio che manca tre volte consecutive all’adunata è automaticamente dimesso.”
Come si vede, il fascismo tende da subito differenziarsi dalle organizzazioni esistenti: ha intuito, forse più che consapevolmente individuato, nella mastodonticità del Partito socialista uno dei motivi della sua burocratizzazione e della sua stessa impotenza; tende, di conseguenza, a darsi un’organizzazione forse un pò elitaria, ma solida, di gente seriamente e costantemente impegnata, pena il dimissionamento automatico. Quella di preferire la qualità alla quantità è una scelta programmatica, ma è spesso anche un’opzione necessaria; ancora nel gennaio del ’20, a Pasella che gli rinnova le consuete raccomandazioni, lo studente pisano Paolo Isola, iniziatore del Fascio nella sua città, risponde con un po’ di malinconia: “date le condizioni di ambiente, sarà purtroppo necessario curare più la qualità della quantità”.
Per ora, comunque, le cose procedono bene: Fasci destinati a diventare molto importanti nascono a Bologna, Napoli, Brescia, Cremona e Firenze; ciò, nonostante che la riunione del 23 marzo sia stata praticamente ignorata da tutta la stampa liberale e democratica; gli unici ad accorgersi di quella che forse voleva essere una “dichiarazione di guerra” al vecchio mondo, sono i nazionalisti dell’ Idea Nazionale, diretta da Luigi Federzoni. Il 25 su questo giornale viene infatti pubblicato un articolo di Orazio Pedrazzi riferito alla riunione; il tono generale è comunque di critica per le caratteristiche “di sinistra” del nuovo movimento, che non possono essere evidentemente condivise dai conservatori nazionalisti.
Si può quindi dire che la riunione di piazza San Sepolcro si colloca tra due avvenimenti di ben maggiore rilevanza, sia per le immediate conseguenze politiche e organizzative che determinano, sia per la risonanza che hanno sulla stampa e nel Paese. Del primo di tali avvenimenti, la contestazione a Bissolati, si è già detto, il secondo è la distruzione dell’Avanti, il giornale “sovversivissimo”, il 15 aprile a Milano.

giovedì 29 agosto 2013

La “Rivolta” rivive con il linguaggio dell’arte e della cultura...

di Mario Vattani

Dal Tramonto all’Alba, per rivivere la “Rivolta”. Oggi Tradizione, cameratismo e lotta vanno vissuti con il linguaggio appassionante dell’arte e della cultura.

 
Rientrato dall’Oriente, mi preparo a tornarci ancora una volta, e stavolta il passaggio fa riemergere ricordi di letture mal lette, interpretazioni male intuite, intuizioni male interpretate. Oppure non si tratta di una maturazione personale, ma semplicemente dei segni dei tempi, che sono divenuti ormai molto più visibili. Come diventano visibili, in modo sempre più prepotente, i segni di una malattia che finora era in stato di incubazione. E forse oggi non ci sono né interventi di medicina sociale, né di cosmesi politica, per nascondere i segni dei tempi.


Di quelle letture mal lette – o forse lette troppo presto – mi accorgo ora che un elemento chiave è rimasto in posizione, come le grosse lampade rosse che restano accese in fondo a ogni corridoio di Tokyo quando scatta l’allarme-terremoto: è la stretta connessione tra i segni dei tempi e la “Rivolta contro il mondo moderno”.

Confesso che non ho mai troppo amato il titolo di quel volume. Era una questione di vocabolario. Sapeva di vecchio e noioso, polveroso; mentre il mondo moderno mi piaceva e mi divertiva. Ma al di là del titolo, quello che mi attraeva era invece il concetto di ribellione delle forze della tradizione, contro quelle che intendevano sovvertire la natura. La interpretavo come una rivolta della verità contro l’ipocrisia. Era una ribellione giusta. Credo lo sia tuttora.


Tra le particolarità che contraddistinguono il variegato campo dei ribelli, vi è la presenza di un gran numero di persone che interpretano la propria attività politica – o dovrei dire vita politica – in modo totalmente slegato dal numero di elettori che si riesce a mobilitare attorno alle idee. Ancora oggi coloro che si trovano su quel fronte, vi si trovano in base ad una scelta di vita, che non dipende da valutazioni di ordine politico-elettorale. Così attraverso cammini molto diversi, con percorsi culturali per nulla simili, e sempre rifiutando le strade più facili e convenienti, molte persone si sono trovate unite da un concetto di “cameratismo”, da una scelta comune di sposare ideali e valori che tendono a una crescita anche spirituale, e si esprimono nel concetto di lotta.


Ora mi preparo a tornare a Oriente dove non è strano concepire che la lotta, il conflitto tra due opposte volontà, è – mi si perdoni una breve raffica di maiuscole – la base del movimento delle stagioni del Mondo. Che esse siano quelle della Natura, o degli Uomini, che chiamiamo Storia, nulla cambia. E in quel passaggio da Ovest a Est, lungo l’asse orizzontale tra il tramonto e l’alba, tutto è più selvaggiamente libero, molto meno fumoso e variabile di quanto non lo sia sull’asse verticale, che unisce la terra e il cielo. Tutto più selvaggiamente libero e pericoloso perché affoga come l’acqua e brucia come il fuoco, quindi poche chiacchiere: la storia del mondo è quella di un conflitto tra le forze del Resistere e quelle del Trasformare.


E’ una lotta che attraversa i secoli, le barriere geografiche, le frontiere nazionali, le razze e le culture. Chi sceglie di prendervi parte fa bene a tener presente che questa è una lotta anche interiore, che supera ogni tempo e ogni confine.


Che si tratti di lotta per la Patria o di lotta per il Popolo, di lotta per gli ideali di giustizia, coraggio e coerenza, che si tratti di difendere i deboli e combattere i forti, sono tutti valori questi, che fanno parte di una sorta di decalogo e di linea di comportamento, di stile, che contraddistinguono chi sceglie di unirsi alle file dei ribelli.


Queste persone sono unite da ideali, comportamenti e un vocabolario che diverge poco da comunità a comunità, e fanno sì che esista un sodalizio implicito e permanente. Questa è una grande ricchezza.
Siamo in un periodo di pigrizia e indifferenza mentale, fisica e politica. L’influenza pervasiva della rete interattiva e dei social network ha rapito intere generazioni dalla vita reale e le ha relegate di fronte allo schermo di un computer. Il successo del M5S è la prova di questa regressione: un’associazione di persone la cui attività politica è segnata dal ticchettio di una tastiera di plastica, ottiene il 25% dei voti e si ritrova oggi a influenzare, anche se solo parzialmente, la situazione politica nazionale.


Il guscio partitico si è rivelato una struttura fragile, che da una parte resiste male alle nuove sollecitazioni imposte dalla società moderna e globalizzata, e dall’altra non può sperare di raggiungere percentuali paragonabili a quelle dei grandi “partiti contenitore”.


Ciò non vale per una struttura militante e movimentista, formula elastica e adatta al nuovo contesto che si sta rapidamente sviluppando in questi anni. Non vale nemmeno per un corpo ribelle che segue innanzitutto regole di comportamento di tipo personale, per poi applicarle alla vita quotidiana. Un corpo ribelle che assume le proprie responsabilità, opera nella società, negli uffici, nelle imprese, e paradossalmente è più simile a quelle forme di aggregazione (sportivo, religioso, spirituale, culturale..) che dimostrano di godere di maggior margine di azione nel nuovo contesto della società interconnessa e interdipendente.


La lotta delle forze del Resistere contro quelle della Trasformazione ha attraversato i secoli. Per questo è inutile perdere tempo oggi a reinterpretare la Storia attraverso quella lente. Meglio pensare al mondo in cui viviamo oggi, applicando alle notizie quotidiane, all’attualità, una nostra, personale chiave di lettura: tra costoro, chi è il ribelle che resiste?


La sfida oggi è quella di riunire, ma soprattutto di formare, attorno a ideali chiave, e con una comunicazione moderna, che si esprima attraverso il linguaggio appassionante dell’arte e della cultura, una ricca e variegata comunità nazionale. Questo significa rifondare i concetti di appartenenza e cameratismo molto al di là delle formazioni partitiche.


L’obiettivo è restituire all’Italia un corpo di persone – riconosciuto e riconoscibile – che, ognuna nel suo settore, secondo le proprie aspirazioni e la propria professionalità, saprà seguire i propri ideali a vantaggio della Nazione, e facendo questo darà l’esempio. Significherà ridare alla nostra società civile una comunità che si distingue per i propri valori, per la propria coerenza, per la propria originalità e creatività, e che sappia dare il suo contributo, anche in termini di contenuti, quando si profilano i grandi appuntamenti politici nazionali.

mercoledì 28 agosto 2013

Francia, le nozze gay non “tirano” più. Era solo propaganda elettorale?

 
Cinquecentonovantasei: è il numero delle coppie gay che hanno deciso di sposarsi in Francia dopo la legge che ha lacerato il Paese e la classe politica per mesi. E’ l’1% del totale dei matrimoni celebrati e il 5% dei Pacs che furono pronunciati nei primi 30 giorni dall’approvazione della legge sulle unioni civili nel 1999. Un mezzo flop. 
 
 
Quanto basta per far entrare la Francia nel consesso delle nazioni – una quindicina – che hanno aperto ai matrimoni fra persone dello stesso sesso. Di certo, la spettacolarizzazione dei primi giorni è lontana, adesso i gay di Francia si sposano in assoluta normalità e pretendono la discrezione e la privacy che sono diritto di tutte le coppie. Sono le 50 maggiori città francesi, quelle che ospitano il 10% della popolazione – a essere state teatro dei matrimoni gay di questi primi tre mesi dopo l’approvazione della legge, in maggio. 
 
 
Le prime nozze gay, trasmesse in diretta tv e meta di migliaia di inviati arrivati da tutto il mondo, furono celebrate a fine maggio a Montpellier, nel sud, ma a fare la parte del leone è stata ovviamente Parigi, con 241 matrimoni. Seguono Nizza con 37 – dove il sindaco di destra Christian Estrosi non si rallegra per il secondo posto ma fa buon viso a cattivo gioco – Tolosa (28) e Lione (23). Quando furono approvati i Pacs, 14 anni fa, ci fu nel primo mese un’esplosione di oltre 1.000 celebrazioni per quelle che furono definite “unioni gay” anche se potevano ovviamente riguardare anche eterosessuali. Alla fine dell’anno se ne contarono quasi 10.000. In Spagna, nel primo anno di legge furono 4.500 i matrimoni fra omosessuali. 
 
 
In Francia, invece, nel paese dove più aspra è stata la battaglia per l’approvazione della legge, non si prevede afflusso di richieste neppure per il rientro dalle vacanze. Notizie non confermate parlano di un migliaio di domande di nozze gay presentate in vari municipi francesi e in attesa del vaglio delle autorità. Potrebbero essere celebrate entro la fine dell’anno. Secondo alcune associazioni, molti omosessuali aspettano l’anno prossimo per fare il grande passo del matrimonio, temendo ancora di poter subire la mediatizzazione delle prime nozze gay. 
 
 
Magari semplicemente a causa di un sindaco che rifiuta di celebrare il matrimonio, come avvenuto ancora la settimana scorsa nel sud del Paese dove una coppia di donne si è vista chiudere in faccia la porta del municipio. Motivo: “obiezione di coscienza” da parte del sindaco, una donna della Ligue du Sud, ex Fronte nazionale.

martedì 27 agosto 2013

Damasco: «Accuse insensate, se gli Usa invadono la Siria sarà un nuovo Vietnam»

di Antonio Panullo
 

I leader dei Paesi occidentali non si avventureranno in una lunga operazione militare in Siria perché tutti «capiscono che gli sviluppi nel Paese non sono una rivoluzione popolare o una domanda di riforme. Questo è terrorismo»: lo sostiene il presidente siriano Assad in una intervista al quotidiano russoIzvestia. Assad ha definito «insensate» le accuse occidentali su un attacco chimico effettuato dal suo regime e ha avvertito gli Stati Uniti che i loro progetti di un intervento militare in Siria sarebbero destinati al fallimento. 
 
Se gli Usa decidono di «attaccare la Siria o intromettersi ulteriormente nel Paese – sostiene Assad – falliranno come in tutte le precedenti guerre che hanno scatenato, dal Vietnam ad oggi. L’America ha preso parte a molte guerre ma non ha mai raggiunto i suoi obiettivi politici per i quali aveva scatenato quelle guerre», prosegue il leader siriano. «Ha fallito nel convincere il suo popolo multietnico della giustezza di quelle guerre, come pure ha fallito nell’instillare la sua ideologia negli altri Paesi», aggiunge. Assad rileva inoltre che in Siria la situazione è diversa da quella di Egitto e Siria, dove «lo stesso scenario delle rivoluzioni arabe ha cessato di essere convincente. 
 
Essi possono cominciare qualsiasi guerra, ma non sanno quanto durerà e quanto si estenderà», conclude rivolgendosi di nuovo agli Usa. Il presidente siriano ha dichiarato che «sin dall’inizio della crisi, Usa, Francia e Gran Bretagna hanno tentato di fare un’invasione militare ma sfortunatamente per loro le cose hanno preso una piega diversa. Hanno tentato – dice – di convincere Russia e Cina a cambiare le loro posizioni al consiglio di sicurezza Onu ma non ci sono riusciti. Hanno fallito nel convincere i loro popoli e il mondo intero che la loro politica in Medio oriente è intelligente e utile».
 
Il regime siriano ha accusato bande terroriste di aver aperto il fuoco contro il convoglio di auto degli ispettori Onu diretti a sud di Damasco per indagare sull’uso di armi chimiche contro civili il 21 agosto scorso. Lo riferisce la tv di Stato siriana. In precedenza attivisti avevano riferito che a sparare erano stati i lealisti. I cecchini che hanno aperto il fuoco contro il convoglio di auto degli ispettori Onu incaricati di indagare sul presunto uso di armi chimiche in Siria non sono stati identificati. 
 
Lo ha detto un portavoce dell’Onu. «Il primo veicolo del team di indagini sulle armi chimiche è stato colpito deliberatamente varie volte da cecchini non identificati nell’area della zona cuscinetto. L’auto – ha aggiunto – non è più utilizzabile. Infine, In una telefonata di Sergej Lavrov al suo omologo Usa John Kerry, il capo della diplomazia russa ha sottolineato che le «dichiarazioni ufficiali fatte negli ultimi giorni da Washington sul fatto che le truppe americane sono pronte ad intervenire nel conflitto siriano sono viste con profonda preoccupazione da Mosca. 
 
Si ha l’impressione che certi circoli, inclusi quelli sempre più attivi nei loro appelli per un intervento militare scavalcando l’Onu, stiano francamente tentando di spazzar via gli sforzi comuni russo-americani degli ultimi mesi per convocare una conferenza internazionale per una risoluzione pacifica della crisi», si legge in un comunicato del ministero degli Esteri russo. Domenica il presidente Valdimir Putin ha ricordato agli Usa l’Iraq, quando una guerra fu scatenata sostenendo che Baghdad aveva arni chimiche, che invece non aveva.

lunedì 26 agosto 2013

L’omologazione e il progresso ovvero l’indistinzione...


di Alain de Benoist


La storia degli ultimi due millenni trascorsi è quella di una lenta crescita dell’indistinzione, che inizia con il monoteismo. L’affermazione di un Dio unico implica, infatti, quella dell’unità della famiglia umana, non più al livello della specie biologica, ma dal punto di vista spirituale. Dire che c’è un unico Dio significa affermare, al contempo, che tutti gli uomini formano un’unica famiglia, e squalificare tutti gli altri dèi, il che equivale a instaurare un nuovo regime di verità dove l’alterità diventa fonte di menzogna o d’errore. «Uno fu la specificità della cultura giudaico-cristiana e poi di quella moderna», scrive Michel Maffesoli. L’Uno esclude l’Altro, che minaccia la sua esclusività. L’Altro può dunque a buon diritto essere soppresso. Nel corso della storia occidentale, il fantasma dell’Uno non ha smesso di funzionare come principio direttivo. Fattore di intolleranza, di esclusione e di separazione, poi di atomizzazione, ha nutrito tutte le inquisizioni, giustificato tutti i tentativi di sopprimere l’alterità.



Lo stesso cristianesimo trascende le differenze culturali o etniche, che non nega, ma considera inessenziali. Agli occhi di Dio, non c’è «né Giudeo né Greco», né uomo né donna (Gal. 3, 28). Dio «creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra» (At 17, 26). Nello stesso momento in cui la separazione del potere spirituale e del potere temporale introduce una divisione fatale in seno alla sovranità, la nuova religione separa la città di Dio e la città degli uomini, l’uomo generico e il cittadino, la religione universale e le credenze locali e promuove l’umanità a spese del patriottismo. «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 19): prima direttiva senza frontiere.



L’idea secondo cui ciò che distingue gli individui e i popoli è secondario, accidentale, contingente, e in definitiva trascurabile e dannoso, ha continuato a svilupparsi. Trasposta nella sfera profana in epoca moderna, assumerà la forma di un’affermazione dell’appartenenza immediata (e non mediata) dell’uomo all’umanità: siamo uomini prima di appartenere a un certo popolo o a una certa cultura – mentre è vero il contrario: siamo uomini nella misura in cui apparteniamo a un certo popolo o a una certa cultura; è attraverso la nostra singolarità che possiamo accedere all’universale.



L’ideologia del progresso afferma che tutti i popoli sono sollecitati a pervenire allo stesso tipo di società, passando attraverso gli stessi stadi. Essi progrediranno in maniera unitaria, come diceva già sant’Agostino («La ragione umana conduce all’unità»). I Lumi, parallelamente, proclamano l’inanità di ogni eredità, che assimilano a un guazzabuglio di usanze superstiziose. Lo stesso passato è presentato come una costrizione da cui bisogna emanciparsi per essere «liberi». Le sole scelte ammesse sono quelle che si effettuano a valle di se stessi («è la mia scelta»), le scelte condizionate da ciò che è a monte essendo squalificate come illusorie. Di qui derivano l’ideale di una «autonomia» concepita sul modello dell’indipendenza, la messa in discussione degli statuti e di ogni forma di autorità, avvertita ormai come umiliante privazione di una libertà incondizionata. È il mito moderno della creazione di sé attraverso sé e a partire da niente, che implica al contempo il rifiuto della «natura» e di ogni dato ereditato. Questa libertà concepita come inizio assoluto, senza essere condizionata da niente, trasferisce all’uomo una prerogativa un tempo attribuita a Dio.



La tendenza all’indistinzione si fonda ancora sulla riduzione dell’uguaglianza alla Medesimezza: si sarebbe davvero uguali solo essendo identici; si avrebbe lo stesso valore solo assumendo gli stessi ruoli, mentre il riconoscimento delle differenze, anche di quelle più evidenti, perpetuerebbe la disuguaglianza e l’oppressione. Questa aspirazione alla medesimezza (Auguste Comte parlava molto giustamente di reductio ad unum), alimentata altresì dal desiderio mimetico, è una caratteristica essenziale delle società moderne. Si ritiene che l’uomo sia ovunque lo stesso, dato che ciò che vale per gli uni (per noi) vale ugualmente per gli altri (il resto dell’umanità), sul piano politico, economico o sociale. Tocqueville aveva delineato bene questo desiderio moderno di una somiglianza che non è la somiglianza empirica, né quella similitudine che è alla radice della sociabilità, ma una somiglianza fondata sull’idea di una uguale dignità degli esseri, di una dignità ugualmente ripartita in ciascuno alla maniera di un attributo della natura umana, ossia anteriormente a ogni vita politica o sociale.



Il livellamento delle condizioni, grande tema della modernità, può essere compreso, in definitiva, solo se si tiene conto della mutazione economica che ha fatto dello scambio commerciale il legame umano fondamentale. Gli «esseri simili» di cui parla Tocqueville non hanno un altro modo di legarsi all’altro che il lavoro e lo scambio. Il denaro si svela come equivalente generale e l’utilità diventa il corollario dell’uguaglianza. La condizione di salariato non omogeneizza l’ammontare dei salari, ma omogeneizza la condizione umana fondando il regno dell’Homo œconomicus, unilateralmente orientato verso la felicità materiale immediata. «L’uguaglianza delle condizioni è l’equivalenza dei simili nelle società a dominante economica e commerciale, società nelle quali le uniche differenze legittime sono quelle che rinviano alla misura della loro utilità» (Christian Laval).



Universalismo e individualismo vanno di pari passo. L’indistinzione si generalizza nell’epoca postmoderna, in cui l’individualismo narcisistico e la metafisica della soggettività sono i tratti essenziali dell’ideologia dominante. Tutto diventa fluttuante, effimero, transitorio e «liquido». La perdita dei riferimenti genera l’anomia sociale, l’indeterminazione generalizzata dei concetti («anything goes»), la volontà di trasformare qualunque desiderio individuale in legge generale su un piano di «parità» con qualunque altro. Fatta di individui fondamentalmente non situati, di atomi individuali venuti da ovunque e da nessuna parte, la società diventa una struttura subcaotica, un caravanserraglio che ha perduto ogni senso del comune. Più gli uomini si separano, più si diffonde il conformismo di massa. Gli individui diventano schiavi senza padroni, sradicati e deculturati, interscambiabili e vulnerabili, prede designate della duplice influenza del mercato e dello Stato in seno a una società tanto più tollerante in generale, quanto più è intollerante in particolare.



Ogni appartenenza o singolarità collettiva è rappresentata come reclusione carceraria, finzione ingannevole o «costruzione» illusoria e ogni preoccupazione di preservarle come rientrante nell’ambito del «fanatismo» o del «fondamentalismo». «Per dare libertà di scelta, bisogna essere capaci di strappare l’alunno a tutti i determinismi, familiare, etnico, sociale, intellettuale», dichiara Vincent Peillon, nuovo ministro dell’istruzione. Al tempo stesso, il concetto passe-partout di «discriminazione» invade la logica giuridica e penale. Prendendo di mira, in linea di massima, i trattamenti ingiustamente applicati a questo o quell’individuo (o categorie di individui), esso giunge a stigmatizzare ogni forma di distinzione tra gli esseri. Tocqueville, ancora lui, osservava che «in tempi di uguaglianza, niente fa ribellare di più lo spirito umano dell’idea di essere sottomesso a delle forme». Le forme sono avvertite come limitazioni, costrizioni. L’arte contemporanea ha già abolito le categorie estetiche. L’ultima «decostruzione» è la decostruzione del sesso, cui procede l’ideologia del genere. Regno dell’in-forme.



Indistinzione per negazione delle frontiere, indistinzione per negazione dei limiti: si tratta sempre di affrancarsi da una misura. L’Uno va di pari passo con la dismisura (hybris), così come la logica della sovraccumulazione del Capitale dipende essa stessa da una illimitatezza che è la sua ragion d’essere. Il cosmopolitismo ha da sempre aspirato alla scomparsa delle frontiere. Oggi assume la forma del nomadismo. L’ideologia, tipica della sinistra, che predica l’abolizione delle frontiere confluisce con il liberoscambismo di destra per interpretare la globalizzazione come ibridazione generalizzata. È, insieme, l’ideologia dei finanzieri, dei passatori clandestini e delle mafie. «Senza frontiere» e «senza documenti», ossia senza appartenenza né identità. Tuttavia, le frontiere non sono barriere, ma chiuse. Nell’epoca della mondializzazione, sono destinate in primo luogo a regolare gli scambi e a proteggere i più minacciati (Régis Debray: «Il debole ha per sé solo la sua casa»). Per questo l’Internazionale del Capitale – l’unica che funzioni – ne esige l’abolizione.



Sussiste allora solo ciò che Freud chiamava il «narcisismo delle piccole differenze», quelle differenze inessenziali concernenti il sistema degli oggetti (si sceglie tra Shell e Total, Windows o Apple, Renault o Peugeot, Coca o Pepsi). Diversità finta, fondata sul differenziale di potere d’acquisto. La «diversità», così definita per antifrasi, non è, in realtà, che un altro nome della mescolanza indistinta. L’ideologia del meticciato, oggi onnipresente, deve essere compresa come qualcosa che va molto al di là del mescolarsi dei corpi e delle culture. Bisogna parlare di “melangismo”, di promozione dell’indistinzione generale come imperativo morale, progetto normativo e scopo da raggiungere. Anche se «meticciato» e «diversità» sono perfettamente contraddittori, il «meticciato» diventa un metodo di salvezza, imparentato con la fusione redentrice verso l’indifferenziato.



Apologia del nomadismo a tutto campo, della deterritorializzazione delle problematiche, sogno di una «governance mondiale», di una sistematica soppressione delle radici, incoraggiamento a tutte le ibridazioni – il fantasma dell’Uno è sfociato alla fine nel “melangismo” obbligatorio e generalizzato. «L’ibridazione mondializzata», scrive Pierre-André Taguieff, «è il rullo compressore che produce l’omogeneizzazione e il livellamento delle culture, l’abolizione finale della diversità culturale». Mischiare tutti con tutti e tutto con tutto, questa è oggi la forma terminale dell’indistinzione. (traduzione di Giuseppe Giaccio)



* da Diorama Letterario


sabato 24 agosto 2013

Ettore Muti e la tragica fine di un eroe dell’aviazione italiana...




 di Renato de Robertis (Barbadillo.it)
24 agosto 1943. La bufera  aveva avuto inizio. La guerra  e il paese erano un’unica realtà.  La  tragedia trascinava tutti.  Nessuno poteva essere risparmiato. E principalmente  la storia non risparmiava gli uomini-  simbolo;  quelli che avevano offerto il loro coraggio  alla  causa della nazione, una causa pur  sbagliata,  ma  la loro  causa.
Se le guerre  furono false,  le vicende degli uomini furono  un’altra cosa, perché vissute con l’innocenza tragica di chi pensò  di fare il proprio dovere,  di chi aveva questo nome, oggi dimenticato,  Ettore Muti.
Nell’ agosto del 1943, il colonnello Muti, un soldato italiano, fu ammazzato. Resta un enigma di quegli anni tremendi.  Chi comandò  quella fine? Fu un vero  incidente? O fu un’esecuzione badogliana?  Ma  un  ‘pizzino’ ambiguo di Badoglio  voleva  proprio questo esito doloroso.
E’ un  passato lontano. Ora  da ricordare. Per fissare, in un attimo, i doveri  appassionati e dolorosi   degli italiani di  quel tempo.
Ettore Muti era un soldato. Un audace pilota italiano. Sul suo petto luccicava  il medagliere più prestigioso dell’aviazione nazionale. Tante le dimostrazioni della sua storia: Ordine militare Savoia, dieci medaglie d’argento, quattro di bronzo, cinque croci di guerra,  due croci di guerra tedesche,  e due medaglie d’oro.
Quella guerra era pazzesca. Ma lui l’affrontò. Con lo spirito, da lui  già  provato, del  legionario fiumano.  Con il sorriso  italiano strafottente  che voleva dire:  E adesso vi faccio vedere io!
Ettore Muti, una vittima. Perché rappresentava un’ Italia fatta male  ma in cui lui  aveva  creduto.  Perché non avrebbe compreso  l’ armistizio del 8 settembre 1943 per il quale atto si abbandonavano i soldati, le armi e le bandiere. Perché non avrebbe concepito  un sovrano che scappa e non difende la sua capitale.
Quella un’ Italia triste e ingenua. Che, tuttavia, era  la madre di uomini come  Muti stanchi di bombardare – e  ciò  Ettore lo scrisse in una lettera -, uomini  stanchi della corruzione dei gerarchi; ecco che lo vollero segretario del  Pnf   per presentar così un volto italiano pulito e  coraggioso.
Se i fascisti repubblicani non gli avessero dedicato un reparto, forse oggi avremmo qualche caserma dedicata a lui.  Forse avremmo qualche ricordo in più  di un aviatore valoroso, di un uomo  assassinato perché era diventato un simbolo nazionale.
Caduto Mussolini, in un pomeriggio d’estate, Roma era nel caos. I simboli del fascismo venivano distrutti. E una macchina fu bloccata.  Dentro c’era  Ettore Muti che  in quel momento pensò di  essere linciato  da quella folla che gioiva per la caduta del  fascismo. Ma  nessuno pestò il colonnello Muti. In molti lo abbracciarono.  E lo lasciarono passare.
I simboli vanno distrutti.  Non devono essere mica processati… E lo sapeva bene  il bieco antifascismo  badogliano.  Ettore Muti  non poteva mai essere  processato. Lui era solo un soldato leale. Solo un soldato che aveva risposto alla chiamata.
Il suo assassinio oggi dice molto. In lui si colpiva un uomo senza una diretta responsabilità. Si colpiva chi si era solamente schierato nel marasma terribile della storia. Il suo assassinio dice  l’inizio della guerra civile.  Iniziava la guerra fratricida; iniziava quella guerra che non guardava  negli occhi puliti di alcuni soldati;  e  iniziava  con un colpo di  mitra  badogliano  nel mese di agosto del 1943

venerdì 23 agosto 2013

La “Generazione Titanic”: i giovani schiacciati tra eurostrozzini e globalizzazione...

 di Giacomo Petrella (Barbadillo.it)

La sensazione è quella di stare sul Titanic. Non in prima classe, della quale sopravvisse il 60% dei passeggeri, non in seconda, dove se ne salvò il 40%, ma come viaggiatori di terza: per intenderci, tre morti ogni quattro biglietti. Il macabro paragone serve a fare il punto sulla crisi economica italiana: in sintesi, della terza classe, non frega niente a nessuno. Il che non significa riferirsi ad una classe economica precisa, quanto ad una classe generazionale, ad una coorte di nati in un periodo storico preciso, quello degli anni ’80 e ’90, guarda caso noto per il costante accrescimento del debito pubblico italiano accompagnato dalla contemporanea cessione delle prerogative politiche di sovranità nazionale.


La Generazione Titanic possiede caratteristiche precise: eterno precariato, disparità salariale intergenerazionale, uniformità salariale, disparità formazione-funzione, impossibilità di accesso al credito, pressione sociale.
Facile entrare nel dettaglio: il precariato non ha nulla a che vedere con la regolamentazione del mercato del lavoro, ma rappresenta ormai da tempo la tipica barriera monopolistica; il lavoro è una risorsa e come tale, in tempi di scarsità, esso è stato blindato. La disparità salariale è una diretta conseguenza del fatto precedente: una blindatura in entrata comporta una blindatura economica, che si tramuta per la terza classe del Titanic in un profitto obbligatoriamente inferiore. Tale profitto viene uniformato, si parla infatti di generazione a mille euro, sia per ripartire un’allocazione scarsa di risorse, sia per corroborare l’adattamento al controllo sociale (a lungo andare ci si convince dell’equità dell’operazione).


In questo contesto non serve premiare chi è più preparato: sparisce un elemento essenziale del mercato, laddove ogni titolo di studio o capacità personale non può essere premiata. L’impossibilità dell’accesso al credito crea poi uno stato di perenne necessità e dipendenza in grado di bloccare ogni spinta alla crescita.
La Generazione Titanic si trova, infine, a subire la fortissima pressione sociale tipica del “ciclo cosmico”: non essendo presente in occidente alcun meccanismo di responsabilità e punizione per le scelte collettive degli anni precedenti e delle generazioni ancora al potere, i trentenni  di oggi accettano passivamente perifrasi funzionali come “la sfida della globalizzazione”.
Chi per età possiede il biglietto di terza classe vive quello che Marine Le Pen ha meravigliosamente descritto come il comunismo dell’Unione Europea. Un comunismo nato per difendere gli errori dei padri e  gettarli sulle spalle dei figli, così come nel 2008 il sistema bancario americano ha saputo scaricare sui Pigs i propri conclamati default.
Mentre la nave affonda c’è chi continua a bere champagne, sicuro di avere i mezzi per potersi salvare: ne è certo avendo creato il peggiore dei totalitarismi, quello architettato contro il proprio sangue, dopo aver venduto, anzi svenduto, le ultime scialuppe di salvataggio del ponte senza voce.

giovedì 22 agosto 2013

Ungheria: il nazionalismo come antidoto...


di Andrea Perrone - Il Ribelle
Patria, difesa della cultura nazionale e della tradizione magiara dall’unilateralismo di stampo americano e dall’usura internazionale. Sono in sintesi i pilastri sui quali si fonda l’intervento tenuto il 26 luglio scorso in Romania dal premier ungherese Viktor Orban al cospetto dei suoi connazionali, nel corso della 24esima Balvanyos Hungarian Summer University a Baile Tusnad (Tusnádfürdő). 
Dinanzi a un folto gruppo di giovani connazionali il capo del governo magiaro non ha temuto di esaltare i valori supremi della nazione contro quelli del danaro e del mondo unipolare che punta a distruggere le differenze di natura culturale, etnica, politica e linguistica.
Lo stesso premier ha ricordato che questo dominio unipolare era rappresentato fino alla Prima guerra mondiale dalla Gran Bretagna per poi incardinarsi, dopo l’epilogo di quel conflitto, sugli Stati Uniti.
Un dominio raggiunto attraverso un passaggio di consegne che ha portato gli Usa a trasformarsi, con il loro ingresso in guerra contro la Germania guglielmina, il 6 aprile 1917, da debitore dell’Europa a creditore della stessa. Una strategia ben precisa, quella di Washington, nel decidere per l’intervento bellico nonostante la gran parte dell’opinione pubblica fosse assolutamente contraria. 
Fu il presidente americano dell’epoca, Thomas Woodrow Wilson, coadiuvato da banchieri e società connesse come la J.P. Morgan & Co. a favorire l’entrata in campo statunitense a fianco degli Alleati per combattere l’Intesa, e soprattutto quella Germania imperiale di Guglielmo II che insidiava l’egemonia inglese e americana sul mare e sul suolo del Vecchio Continente. Gli attacchi tedeschi contro gli Usa ebbero il loro primo episodio di grandissima risonanza con l’affondamento, il 7 maggio 1915, della nave passeggeri Lusitania, di produzione statunitense, che nascondeva nella stiva armi e munizioni inviate in gran segreto al Regno Unito, come era già avvenuto in precedenza con altre imbarcazioni e scafi provenienti dagli Usa. Per tutta risposta Berlino diede ordine ai suoi U-boot per tutto il conflitto di eliminare qualsiasi nave che raggiungesse la Manica in direzione della Gran Bretagna proveniente dal mondo americano. 
Negli anni Trenta la Commissione statunitense guidata dal senatore repubblicano del Nord Dakota, Gerald Nye, venne incaricata di ricostruire gli avvenimenti che portarono all’entrata in guerra degli Usa, ed evidenziò il ruolo dei fabbricanti di esplosivi e dei banchieri che erano esposti nei confronti della Gran Bretagna per 2,5 miliardi di dollari.
Ma torniamo alla realtà contemporanea, riprendendo a narrare l’interessante e coraggioso discorso del premier magiaro diretto a condannare lo sfruttamento dei popoli e la distruzione della loro sovranità nazionale, economica e alimentare. L’attuale unipolarismo di marca statunitense – ha proseguito infatti il primo ministro di Budapest – mira a stravolgere ogni aspetto dell’umana realtà favorendo la diffusione di Organismi geneticamente modificati (Ogm) attraverso le multinazionali come la Monsanto. Per questo la battaglia del governo ungherese contro gli Ogm e il divieto assoluto che vengano importati è una lotta legittima contro i danni provocati alla salute dei compatrioti da parte di tecnocrati e multinazionali d’Oltreoceano senza scrupoli. 
Ma Orban non si è fermato qui e nel suo intervento ha condannato il piano del mondo unipolare tutto proteso a distruggere non solo le nazioni e le rispettive Costituzioni, ma il principio stesso che anima la famiglia, che rappresenta nel contesto nazionale la componente essenziale e imprescindibile senza la quale non potrebbe esistere l’idea stessa di patria, la continuità della stirpe e quindi la tradizione magiara. Il progetto di sudditanza delle nazioni viene imposto dall’unipolarismo di stampo americano, dai Signori del danaro, dalle lobby della finanza internazionale, dai tecnocrati e da tutti quei poteri forti nemici della sovranità nazionale, avvalendosi di strategie e tecnologie che mirano a modificare radicalmente le leggi della natura e della stessa società in nome di un presunto “progresso” che rappresenta invece un’involuzione completa dell’essere umano e della realtà fenomenica, di cui la natura è una componente imprescindibile. 
L’azione dell’usura internazionale allo stesso tempo si estrinseca creando ulteriori debiti attraverso prestiti particolarmente onerosi, che finiscono per convogliare le nazioni in un circolo vizioso da cui non escono se non con un’economia devastata dalla recessione e da una povertà endemica diffusa in quasi tutte le classi sociali. 
Parlando delle comunità ungheresi, il primo ministro ha detto che «allo stato attuale delle cose» la coesione tra loro «non può essere promossa su base territoriale, ma attraverso i legami di cittadinanza». In sostanza, attraverso il principio della nazione e di una comunità di destino di cui tutti gli appartenenti a una tradizione nazionale si sentono parte. Ma Orban ha avuto il coraggio di condannare anche gli attacchi dei banksters nazionali ed internazionali: dalla Banca centrale magiara – in passato diretta da un avversario dello stesso premier – e dalle banche straniere coadiuvate dai tecnocrati europei e dagli addetti del Fondo monetario internazionale, insieme ai colossi delle telecomunicazioni, che sperano di sottomettere l’Ungheria ai voleri delle lobby economico-finanziarie per lucrare su giovani e famiglie, portando il Paese al crack. Il primo ministro ha voluto ricordare di aver incaricato il ministro dell'Economia nazionale di ripagare il prestito negoziato dall’Ungheria nel 2008 con il Fmi, la potentissima istituzione mondialista con sede a Washington, entro la metà di agosto. In più, ha sottolineato che i fondi necessari sono disponibili poiché i magiari hanno lavorato duramente per accumulare quel danaro nel corso degli ultimi tre anni. 
Per quanto riguarda il blocco dei Ventotto, Orban ha puntato il dito contro le istituzioni guidate dagli eurocrati, per come rispondono alle sfide che riguardano la comunità degli Stati europei, esprimendo la convinzione che le risposte a questi problemi debbano essere concepite prima di tutto e assolutamente nel proprio ambito nazionale, per poi tradursi in accordi a livello generale. 
Un modo cortese e indiretto per esprimere la sua contrarietà a qualsiasi soluzione all’interno dell’Ue imposta dai tecnocrati europei, priva di una visione che sia rispettosa delle tradizioni dei singoli Stati membri e delle Costituzioni come quella magiara, più volte attaccata dai Soloni europei per la sua impostazione legata alla difesa del principio della nazione e della famiglia. Una visione in netto contrasto con le scelte dei tecnocrati Ue che si stanno adoperando per creare un Superstato europeo, totalmente prono agli interessi dei Signori del danaro e dell’unilateralismo dei gendarmi d’Oltreoceano.

mercoledì 21 agosto 2013

Nell’America di Obama nascono i condomini con ingressi separati per ricchi e poveri...


da Il Secolo d'Italia
 
 
“Upstairs, Downstairs”, come nell’Inghilterra classista descritta nella popolare serie tv britannica, in un condominio di lusso a Manhattan. Il costruttore di un palazzo residenziale di 33 piani nell’Upper West Side ha infatti annunciato che gli inquilini avranno due ingressi separati: da un lato i ricchi che abiteranno i 219 appartamenti in vendita, a partire da un milione di dollari, con vista sul fiume Hudson.


Dall’altro i “poveri”, ai quali saranno assegnati i 55 alloggi ad affitto bloccato grazie ai quali l’immobiliarista spera di ottenere sgravi fiscali per alcuni milioni di dollari. Non era mai successo, neppure in in una metropoli dove le differenze di ceto tra gli abitanti sono stridenti come New York. L’annuncio della Extell, la società che sta costruendo a 40 Riverside Boulevard, che i cinque piani sul retro del complesso riservati a inquilini meno abbienti avranno ingressi, ascensori e manutenzione separate ha scatenato polemiche e paragoni con le differenze sociali nella Gran Bretagna all’inizio del ventesimo secolo. «Avete presente Su e Giù per le Scale o Downton Abbey? 


Dove i servi entrano e escono da portoni separati e chinano la testa quando vedono un aristocratico?», è sceso all’attacco il West Side Rag, un blog di quartiere, evocando due popolari programmi importati dalle tv di oltre-atlantico: «Ebbene, stiamo per vedere qualcosa di simile qui, nell’Upper West Side». Una portavoce del Dipartimento alla Casa di New York ha confermato che la richiesta di esenzioni fiscali di Extell, presentata in nome dell’integrazione sociale cittadina, è arrivata all’esame delle autorità competenti, mentre una parlamentare locale, Linda Rosenthal, ha accusato la società immobiliare di “classismo”, ancor più fuori luogo perché l’Upper West Side storicamente è sempre stato un “bastione progressista”.


Un anacronismo dunque? C’è chi sostiene che i portoni separati per ricchi e poveri siano in realtà una presa d’atto del gap sociale che si è allargato negli ultimi anni a New York. Un recentissimo studio della New York University (Nyu) ha rivelato che il reddito medio annuo di un newyorchese è diminuito del 6,8% a 50.433 dollari all’anno nel periodo tra il 2007 e il 2011, mentre gli affitti sono aumentati dell’8,6%. Per un newyorchese è normale spendere metà del proprio salario sulla casa: lo fa uno su due.  
 


«E visto che un terzo degli abitanti di New York abita in case di affitto, è preoccupante vedere che gli aumenti del canone rendono sempre più difficile per molti inquilini vivere in città», ha commentato Ingrid Gould Ellen, co-direttore del Furman Institute che ha collaborato con lo studio della Nyu.

martedì 20 agosto 2013

La “bufala” del bacio? Gaffe della campagna contro la Russia sovranista...

di Mauro La Mantia per www.barbadillo.it


Ieri in molti media occidentali, ed italiani in particolare, la notizia del presunto bacio lesbo tra due atlete, ai Mondiali di atletica a Mosca, in segno di protesta contro la legge anti-propaganda gay in Russia ha trovato quasi lo stesso spazio della guerra civile egiziana. Giornali, Tv e siti hanno applaudito al “gesto ribelle” delle due atlete russe contro una legge giudicata simbolo della discriminazione.


Puntuale, però, è arrivata la smentita di Tatyana Firova e Kseniya Ryzhova: “Storie gonfiate dai media occidentali, era solo un’espressione di gioia”. Attorno ai Mondiali di atletica, insomma, si è creato un clamore mediatico che sta oscurando l’elemento sportivo per attaccare, criticare frontalmente il Governo russo. Tutti si aspettano l’azione eclatante degli atleti, in particolare dei russi, contro la famigerata legge “omofoba”. Ma sono arrivate due docce fredde, questa del falso bacio saffico e le dichiarazioni politicamente scorrette della campionessa russa del salto con l’asta Elena Isinbayeva in difesa della legge (poi costretta a ritrattare goffamente per l’aggressione mediatica planetaria subita). 


Quella del bacio lesbo anti-Putin è una bufala causata innanzitutto dall’ignoranza. Nell’era dell’informazione 2.0 i giornalisti subiscono la viralità delle notizie senza neanche verificarne l’attendibilità. Tutto quello che passa dalle agenzie, o peggio da twitter e dai blog diventa “notizia”. Sarebbe bastata un po’ di cultura generale per sapere che nella tradizione russa il bacio tra persone dello stesso sesso non è considerato un atto omosessuale. I saccenti giornalisti liberal forse non hanno mai visto la famosa scena del bacio tra Brezhnev a Honecker, divenuta icona della guerra fredda.


Ignoranza ma anche malafede di chi vuole attaccare la sovranità della Russia. Nello scenario internazionale ormai da anni la Russia non rinuncia al ruolo di protagonismo e di interlocuzione diretta, politica ed economica, con gli Stati vicini tra cui quelli europei. Una strategia ostacolata in tutti i modi dagli Stati Uniti i quali hanno sostenuto, attraverso strategie d’avanguardia, le varie rivoluzioni “colorate” nei Paesi dell’ex URSS (Georgia, Ucraina e Kirghizistan) per sganciarli dalla galassia russa. Tra i teorici delle nuove tecniche non convenzionali per l’abbattimento di regimi ostili figurano Gene Sharp e Peter Ackerman. Alla base delle loro idee troviamo la costruzione di movimenti non violenti di opposizione interna rafforzati dalla disinformazione globale, e della guerra d’opinione, attraverso la nuova comunicazione in rete 2.0 (blog, social network e citizen-journalism). I due analisti privilegiano l’uso strumentale delle battaglie per i diritti civili per creare mobilitazione anti-governative. Non è un caso che la Russia sia da qualche anno al centro di analoghe proteste portate avanti da movimenti di natura transazionale.


Quello che sta avvenendo in Russia è stato già sperimentato, con diversi risultati, nei Paesi limitrofi ed in quelli arabi (vedi “primavere arabe”). Una strategia che però non sembra attecchire nella terra degli Zar dove tra la popolazione, ed il caso delle atlete è emblematico, forte è il senso dell’orgoglio nazionale connesso alla difesa della propria sovranità.

lunedì 19 agosto 2013

In Germania arriva il terzo sesso...

 
da Rai News 24
 
 
Uomo e donna. Presto, in Germania, concetti superati: la definizione del sesso sara' facoltativa e nell'atto di nascita, ove fosse 'indeterminato', se ne potra' omettere la precisazione e lasciar vuota la casella. Accanto ai classici 'm' o 'f' potrà eventualmente figurare una 'x' per indicare il genere 'intersessuale'.
 
 
Lo prevede una legge varata dal governo tedesco a maggio, che entrera' in vigore il primo novembre e che fa della Germania il primo paese europeo a decidere un tale cambio paradigmatico. Finora l'Australia era il solo paese al mondo ad avere introdotto una normativa del genere.
 
 
La legge è passata in sordina e a richiamarvi l'attenzione è stata la Suddeutsche Zeitung (SZ) in un articolo venerdi', ripreso ora dal settimanale Focus, che ne sottolinea la portata storica per la societa'. E' una ''rivoluzione giuridica'', finora la legge parlava ''solo di uomini e donne, e basta'': ora, scrive, ''c'e' anche un 'sesso indeterminato', la cosa potrebbe creare dei problemi in alcune situazioni''.
 
 
A richiamare l'attenzione del quotidiano è stato un articolo pubblicato della Rivista per il diritto di Famiglia (FamRZ) che parla della nuova legge e della nuova figura del ''sesso indeterminato''. L'individuo 'intersessuale', classificato cosi' alla nascita, potra' successivamente decidere se registrarsi come 'm' o 'f', oppure anche rimanere tutta la vita senza una specificazione del sesso.
 
 
I giuristi parlano di una nuova figura, ''uno status specifico'': non dicono ''terzo genere'' ma di fatto, scrive il quotidiano liberal di Monaco, ''di questo si tratta''. Fin qui tutto bene ma i problemi cominciano con i documenti: passaporti, carte di identita', visti, ecc. che non prevedono altri codici oltre a 'f' e 'm'. La FamRZ propone di introdurre per i documenti personali la 'x', da affiancare al sesso maschile e al femminile, per indicare il genere 'intersessuale'.
 
 
Con la nuova legge il legislatore tedesco ha reagito a una sentenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto come espressione dei diritti della personalita' la distinzione fra il sesso ''percepito e vissuto''. Il nuovo diritto, precisa la SZ, riguarda la ''intersessualita''', diversa dalla "transessualità". I transessuali sono persone con un sesso definito, maschi o femmine, che si sentono pero' appartenere all'altro sesso e come tali voglio essere riconosciute.
 
 
Gli intersessuali sono invece persone che non hanno precise connotazioni fisiche sessuali e sono comunemente definiti 'ermafroditi'. Citando l'esperto Wolf Sieberichs, la SZ scrive che con la nuova legge potrebbero pero' insorgere problemi di vario genere: ad esempio per le unioni dello stesso sesso, previste appunto solo per persone dello stesso sesso: che significa questo?, si domanda.
 
 
Che le persone con sesso indeterminato potranno stringere un'unione solo con persone di genere altrettanto indeterminato? Tutti aspetti questi che tocchera' al Parlamento o alla Corte costituzionale chiarire: è necessaria una ''ampia riforma'', ha annunciato al giornale il ministro della Giustizia, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, del partito liberale (Fdp). Ma non finisce qui: la rivoluzione giuridica porterebbe con sè anche un rivoluzionamento semantico del linguaggio.
 
 
''La dualita' linguistica della nostra societa' è finita'', d'ora innanzi si puo' rinunciare - propone Siebrichs - ai titoli di genere: in una lettera o un certificato non bisogna per forza indicare prima del nome 'Signore' o 'Signora', se ne potrebbe benissimo fare a meno se l'interessato è d'accordo.

venerdì 16 agosto 2013

L’Italia conformista il suicidio dimenticato di un muratore e gli speculatori...

 di Augusto Grandi (Barbadillo.it)

Un muratore di 52 anni si è ucciso in una vallata del Piemonte. Non era gay, dunque nessuna prima pagina dei quotidiani. Non è stato ucciso da un’amante. Dunque nessuna informazione televisiva. Non era un immigrato in arrivo dalla Libia. Dunque nessuna solidarietà da ministri o presidente della Camera, nessuna preghiera del Papa.


Ha lasciato un biglietto in cui ha spiegato che non ce la faceva più economicamente. Dunque da non far sapere in giro. Perché i media son tutti impegnati a raccontare che l’Europa è uscita dalla recessione, che tutto va bene purché il governo resti in carica. La Cara Salma assicura che aprire una crisi politica sarebbe fatale.


Per il muratore piemontese è stato fatale questo governo, è stato fatale il governo di Monti e Fornero. D’altronde, mentre i politici del Pd spiegano che l’Imu deve essere pagata, chi non ha i soldi per pagarla si uccide. Nel disinteresse delle feste di partito, degli spin doctor che si occupano dei candidati da promuovere come fossero saponette o detersivi. Al muratore suicida non importava nulla delle rinunce del governo Alfetta ad un aereo tra la flotta di cui dispongono ministri e soci. Al muratore interessava un lavoro che consentisse di vivere. Ma il lavoro non c’è anche se gli analisti di servizio assicurano che la recessione è finita. Aggiungendo che, comunque, la disoccupazione aumenterà. E l’Imu non aiuterà certo i muratori, perché i costi delle tasse vengono sottratti non solo alla costruzione di nuovi edifici, ma anche alla manutenzione. Se i soldi non ci sono, i lavori si procrastinano. Ma Monti, il maggior responsabile del disastro, insiste che bisogna pagare. E se non si può pagare, si devono vendere gli immobili. Finendo in mezzo ad una strada, ma è Monti che ce lo chiede.


I cartelli di vendita, appesi ovunque, portano ad una ridistribuzione del patrimonio immobiliare italiano. Nel silenzio assordante dei media. Perché a comprare, a prezzi di saldo, non sono i nuovi ricchi, i ceti emergenti, in una ridistribuzione sociale. No, a comprare sono le società degli speculatori. Sono quelli che i soldi ce li avevano già e che ora si possono arricchire speculando sulle difficoltà del ceto medio che si impoverisce. Sono loro i grandi sostenitori dei Monti, degli Alfetta. Sono loro i grandi criminali.

mercoledì 14 agosto 2013

Leggere Jünger a sedici anni e scoprire la libertà dall’omologazione...

 di Giuseppe Contarino (Barbadillo.it)


All’età di 16 anni, mentre i miei amici si perdevano nelle foreste boliviane narrate negli appunti odorosi di sigaro del comandante Guevara, io sceglievo, forse per il puro piacere di voler esser diverso, una lettura che di galvanizzante aveva solo il titolo: Il trattato del ribelle.

 
Sarò sincero: ignoravo completamente chi fosse tale Ernstnger. All’epoca internet era ancora privilegio per pochissimi e tutto ciò che sconfinava dal recinto della bigotta e sterile istruzione italiana era terra inesplorata al pari del Congo belga. Ispirato però dal titolo allettante e dal fascino del cognome teutonico, avevo deciso di affrontare il volumetto dalla sobria copertina, rassicurato anche dall’esiguo numero di pagine che mi si paravano innanzi.


Dire che quel libro ha cambiato la mia vita sarebbe una sciocchezza oltre che una bugia; ma non esagero affermando che di sicuro è stato un testo altamente formativo. Ovviamente non prima della terza rilettura.


Con il linguaggio che può esser proprio solo a chi ha passato notti intere nel fango di una trincea durante la prima guerra mondiale, pagina dopo pagina, Jünger mi apriva gli occhi su concetti semplici ma che, al pari di un insegnamento esoterico, avevano bisogno di essere rivelati. A differenza del roboante Guevara – figura che col tempo ho anche imparato ad apprezzare, nelle sue luci ed ombre – il ribelle di quelle pagine non era un eroe da fumetto, da imprese mediatiche o quant’altro. Ciò che ho trovato sconcertante all’epoca – e rincuorante ancora oggi – è che il vero ribelle non ha bisogno di rivoluzioni armate, baie dei Porci o ghigliottine in piazza.


Jünger mi parlava dell’uomo concreto che agisce nel caso concreto; un uomo d’azione, azione libera ed indipendente, il cui motto è “hic et nunc”; un uomo ancora capace di saper pronunciare un secco “no”; un uomo che sa che “la condizione in cui ci troviamo ci obbliga a fare i conti con la catastrofe e a coricarci al suo fianco perché essa non ci sorprenda durante il sonno”. Der Waldgang, colui che compie il passaggio al bosco, traccia per terra una linea di separazione netta, il proprio fronte presso cui attestarsi e combattere. E lo fa non già con un fucile od uno sciopero della fame, bensì con l’esempio, scegliendo come vivere.


Leggere Jünger a 16 anni mi ha immunizzato da uno dei mali virali più dannosi della gioventù: l’omologazione. Mi ha insegnato che si può essere ribelli senza dover necessariamente sventolare questa o quella bandiera, senza dover recitare slogan più o meno convincenti. Mi ha insegnato la differenza sostanziale tra massa e comunità.


In un’intervista rilasciata a Gianfranco de Turris, Evola ironizzava sui giovani e sui loro facili entusiasmi, affermando di aspettarli quanto meno al traguardo dei trent’anni per vedere quanto fosse profonda la radice di quell’interesse e di quell’entusiasmo. Io ho un ottimo ricordo dei miei 16 anni e credo – ma sono di parte – che le posizioni e le idee nate in quella fase della mia vita sono attecchite e hanno germogliato, seppur con qualche accorgimento, fino ad oggi che mi appresto, con serenità, a quel traguardo trentennale.


Non c’è la stessa serenità, però, in ciò che mi circonda, tristemente privo di ribelli degni di tale appellativo. Forse pecco di eccessiva intransigenza, ma è sempre più difficile scorgere giovani che non siano irrimediabilmente apatici e più propensi alla sconfitta che alla vittoria. Possibile che sappiano essere leoni solo dietro ad una tastiera o la notte in discoteca e non nella vita – reale – di tutti i giorni?


Sorrido, inguaribile ottimista. Prendo dalla libreria il volumetto – oramai logoro – del caro Ernst e mi soffermo su di un passaggio che avevo sottolineato a matita: «tra il grigio delle pecore si celano i lupi, vale a dire quegli esseri che non hanno dimenticato che cos’è la libertà. E non soltanto quei lupi sono forti in se stessi, c’è anche il rischio che, un brutto giorno, essi trasmettano le loro qualità alla massa e che il gregge si trasformi in branco. È questo l’incubo dei potenti. ».
Tendo l’orecchio al silenzio della notte. Mi piace credere di aver sentito, in lontananza, un lupo ululare.


martedì 13 agosto 2013

Una pagina di storia: il fascismo clandestino e i sardi a Salò...

di Luciano Garibaldi (Secolo d'Italia)


Una storia tutta da scoprire, quella della Sardegna negli anni caldi della guerra civile 1943-45. Lo ha fatto – e continua a farlo con successo – Angelo Abis, storico di vaglia che, dopo il libro, uscito alcuni anni fa, L’ultima frontiera dell’onore. I sardi a Salò, ha ora dato alle stampe Il fascismo clandestino e l’epurazione in Sardegna 1943-46 per i tipi di Gia Editore (200 pagine, 18 euro). Ma perché una storia tutta da scoprire? Per il ruolo che la splendida isola ricoprì in quel biennio in cui si concluse la Seconda guerra mondiale: curioso ruolo che la volle estranea, per sua fortuna, al conflitto fratricida che insanguinò il Nord Italia e parte del Centro, ma luogo d’origine di straordinari personaggi che furono tra i principali protagonisti della Repubblica Sociale Italiana.


«Colpisce infatti – come scrive Giuseppe Parlato nella prefazione al libro di Abis – l’alto numero di sardi coinvolti nella guerra civile da parte fascista: militari, intellettuali, organizzatori sindacali che scelsero di combattere per Mussolini. Le motivazioni però furono differenti». Basti pensare a nomi come Ugo Manunta, uno dei fautori della socializzazione nella Rsi, Cipriano Efisio Oppo, massimo esponente dell’Accademia d’Italia a Salò, Stanis Ruinas, che dopo la Rsi tenterà di costruire un ponto tra fascisti e comunisti.


Tra i sardi le cui vicende Abis ricostruisce nel suo libro, due soprattutto colpiscono: Francesco Maria Barracu e Pasca Piredda, la bellissima capo ufficio stampa della Decima Mas di Junio Valerio Borghese. Barracu, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (quindi, in pratica, numero due dopo Mussolini) era nato a Santulussurgiu nel 1885. Valoroso militare fin dai tempi della guerra di Libia, nel ’37, in Etiopia, viene gravemente ferito in combattimento, perde un occhio e ottiene la medaglia d’oro al valor militare. Dopo il 25 luglio e l’arresto di Mussolini ordinato da re Vittorio Emanuele III, organizza, in unione d’intenti con gli ex segretari del Pnf Carlo Sforza ed Ettore Muti e con il principe Valerio Pignatelli, un piano per la liberazione del Duce. Ma il piano fallisce a seguito dell’assassinio di Ettore Muti, voluto e ordinato dal nuovo capo del governo Pietro Badoglio.


Alla fondazione della Rsi è lo stesso Mussolini che lo vuole al suo fianco affidandogli la vicepresidenza del Consiglio. Contrariamente alle apparenze, Barracu non è un fascista intransigente e oltranzista. Anzi, milita nell’ampio schieramento di coloro che si battono per la libertà di stampa e per il pluralismo politico. Tra questi, la medaglia d’oro e cieco di guerra Carlo Borsani, e l’ex comandante del battaglione «Giovani fascisti» Fulvio Balisti. Non per nulla, tra gli intransigenti che fanno capo a Pavolini si parla apertamente di «congiura delle tre B». Nessuno riconoscerà a Barracu i suoi meriti. Catturato a Dongo, verrà schierato sul lungolago e invano, rivendicando la sua medaglia d’oro, chiederà di essere fucilato al petto. Morirà gridando: «Viva il socialismo!».


E veniamo a Pasca Piredda, scomparsa quattro anni or sono. Era non soltanto una donna che aveva fatto la storia, ma anche una autentica e validissima scrittrice di storia, come dimostra il suo libro «L’Ufficio Stampa e Propaganda della X Flottiglia Mas», pubblicato nel 2003 dalla Casa editrice Lo Scarabeo di Bologna. Leggendo il suo libro, tutti capirono finalmente che cosa fu la Decima del principe Junio Valerio Borghese, quei 30 mila marò che combatterono contro tutti: contro gli Alleati, contro i tedeschi, contro i comunisti di Tito. Tutti capirono che era esistita, che poteva esistere (che potrebbe sempre esistere) un’altra Italia.


Pasca Piredda era di Nuoro. Sua madre era cugina di Grazia Deledda. Aveva uno zio procuratore generale a Genova, mentre Sebastiano Satta, poeta, scrittore nonché antifascista, era di casa dai Piredda. L’ambiente, dunque, era tutt’altro che fascista e i suoi stessi famigliari erano vicini ai capi del Partito Sardo d’Azione, Emilio Lussu e Berlinguer padre. Ma Pasca, testa dura, era fascista. Si laureò appena ventiduenne in Scienze coloniali e in Scienze politiche, vinse un concorso e andò a Roma a tenere lezioni di mistica fascista. Conobbe Fernando Mezzasoma che, nominato ministro della Cultura Popolare a Salò, la chiamò come sua segretaria particolare. E qui avvenne la grande svolta della sua vita.


Due marò della Decima (tra cui la medaglia d’oro Mario Arillo), stufi farsi dire no da Mezzasoma, che rifiutava di mandare in onda alla radio i loro comunicati di propaganda, la «rapirono» e la portarono in macchina a La Spezia, dove il principe Borghese si era asserragliato dopo avere rifiutato sia di salpare per consegnare la sua flotta di Mas e altri mezzi navali agli Alleati, sia di arrendersi ai tedeschi, con i quali, invece, aveva stipulato un singolare patto di alleanza: da pari a pari. Il che aveva entusiasmato la gioventù di mezza Italia che faceva a pugni per arruolarsi volontaria nella Decima. Che significava: né serva degli americani, né serva dei tedeschi.


Pasca entrò subito nel ruolo. Borghese non era fascista, meno che mai filonazista. Gli intransigenti della RSI lo guardavano storto. E Pasca teneva loro testa con i suoi articoli sul dirompente giornale della Decima, «La Cambusa», da lei fondato e diretto con pochi ma validissimi collaboratori tra cui Ugo Franzolin. Giornale davvero libero e anticonformista, così come lo erano le migliaia di manifesti di propaganda che l’ufficio diretto da Pasca diffondeva a getto continuo, con i bellissimi disegni di Boccasile.


Pasca Piredda, inquadrata nella Decima come sottotenente di vascello, non si limitava a sfornare articoli e manifesti. Partecipava attivamente alle azioni sul territorio: viaggi verso la Venezia Giulia (dove Borghese, in pieno accordo con i partigiani monarchici della «Osoppo» e con gli agenti del Sud, organizzava la resistenza contro il 9° Corpus di Tito), scontri a fuoco, incontri con gli agenti segreti di De Courten. Per causa di un incidente d’auto, rimase gravemente ferita e restò in coma per tre giorni. Catturata dai partigiani dopo il 25 aprile nel suo ufficio di piazza Fiume a Milano, fu strappata al plotone d’esecuzione per l’intervento del «capitano Neri», l’uomo che aveva avuto un ruolo determinante nella fine di Mussolini. «Neri» (al secolo Luigi Canali) era infatti il capo di Stato Maggiore della 52.a Brigata «Garibaldi», che aveva catturato Mussolini e i ministri di Salò, con il loro seguito, sulla strada del lago di Como, in prossimità di Dongo. Lo stesso «Neri» aveva deciso di ospitare il Duce e Claretta Petacci nella casa dei contadini De Maria, a Bonzanigo, nei pressi di Menaggio. Dopodiché aveva avvertito i «servizi» inglesi, per consentire loro di catturare Mussolini precedendo così gli americani, con i quali erano in concorrenza. Ma nessuno poteva sapere che gli agenti britannici avevano un ordine segreto e terribile: far tacere per sempre Mussolini, che avrebbe potuto – se catturato dagli americani – svelare gli accordi segreti intercorsi tra lui e Churchill per spingere Hitler a cessare la resistenza in Occidente onde rivolgersi tutti contro il pericolo in avanzata da Oriente, cioè l’Armata Rossa. Per questo Mussolini (e Claretta, che sapeva tutto) furono uccisi la mattina del 28 aprile 1945. E per questo sarà soppresso anche «Neri», a titolo di punizione, per ordine del Pci. Quanto a Pasca, diventata nel frattempo mamma, nonna e bisnonna, non cambiò mai idea. Della Decima ieri, della Decima sempre.