lunedì 30 settembre 2013

Sesso e ecologia in D. H. Lawrence critico dell’industrialismo e amato da Drieu...

 
di Sandro Marano (Barbadillo.it)
 
 
Al suo apparire nel 1928, come pure nei decenni successivi, L’amante di Lady Chatterley suscitò scandalo, perché, pur essendo un grande romanzo, contiene “alcune delle più accese e struggenti pagine di erotismo della letteratura moderna” (Guido Almansi).
 
 
D. H. Lawrence però non è soltanto il profeta del vitalismo e d’una sessualità libera, gioiosa, consapevole. E’ anche un critico feroce dell’industrialismo, che abbrutisce gli uomini, rompe i ritmi naturali, genera miseria spirituale e materiale e distrugge il paesaggio.
 
 
Come ebbe modo di chiarire Pierre Drieu La Rochelle in alcune pagine di grande spessore dedicate allo scrittore inglese: “Lawrence, osservatore delicato, sensibile alla complessità delle cose, non vede solo il gesto sessuale. E non lo venera se non come lo schiudersi, come il segno ultimo di una completa rinascita dell’uomo. Quel che Lawrence vuole è l’uomo completo… Lawrence vuole che l’uomo ascolti tutte le proprie voci e ne ricomponga il coro. Anzitutto, vuole che l’uomo tenga conto del proprio corpo. Vuole che lo tenga in esercizio, in buona salute, che lo porti a spasso e lo circondi di campagna, sottraendolo alla città… Poi, Lawrence vuole che l’uomo ascolti il proprio cuore, sfrutti la propria anima… Lawrence ha un senso acuto delle forze intermedie tra il corpo e la ragione che sono nell’uomo e questo senso acuto gli viene giustamente dal fatto di conoscere l’importanza reciproca dei tre ordini… E’ in questo gioco di cerniera tra la vita fisica e la vita spirituale che si inserisce il malinteso su Lawrence maniaco del sesso, su Lawrence apostolo della libertà sessuale.” (in Prefazione a “L’uomo che era morto” di D.H. Lawrence, Gallimard 1933).
 
 
Oggi il nostro rinnovato interesse per Lawrence è soprattutto legato all’attualità del suo messaggio ecologico: “Farei piazza pulita delle macchine, le spazzerei via dalla faccia della terra, ponendo fine una volta per tutte all’era industriale, come si fa con un errore madornale” dice Oliver Mellors, il guardiacaccia protagonista insieme a Connie del romanzo.
 
 
E Drieu chiosa: “L’uomo si è perduto nelle astrazioni della scienza e dell’industria… avendo dedicato troppo del suo tempo e della sua meditazione ai prolungamenti artificiali della vita, si è a poco a poco, senza accorgersene, disabituato a vivere. Non sa fare più i gesti elementari della vita, che sono la vita intera. E se non sa fare più quei gesti, ben presto le sue scienze, le sue industrie, le sue arti se ne andranno alla deriva. Già la sua economia gli sfugge. Lawrence ha osservato tutto questo e sentito tutto questo in maniera tragica.”
 
 
Pagine di grande efficacia narrativa, vibranti d’indignazione contro la polluzione industriale sono rinvenibili dovunque nel romanzo. Basti pensare alla celebre descrizione, nel capitolo undicesimo, del viaggio in auto di Connie attraverso l’orrendo Tevershall, la grande zona industriale limitrofa alla sua abitazione. Ma già all’inizio del romanzo, Connie, che da poco è andata ad abitare nella tenuta che confina con la miniera e col villaggio dei minatori, scopre qual è il prezzo del progresso: ”poco distante si scorgeva la ciminiera del pozzo carbonifero di Tevershall, con le sue nubi di vapore e di fumo e, più lontano, nella bruma umida che avvolgeva la collina, le rozze case sparpagliate dell’abitato di Tevershall, che cominciava appena oltre i cancelli del parco e si trascinava in assoluta, disperata bruttezza per un paio di raccapriccianti, interminabili chilometri… L’altoforno del pozzo di Tevershall bruciava, bruciava da anni e anni e ci sarebbero volute migliaia di sterline per spegnerlo. Sicché bisognava lasciarlo bruciare. E quando il vento soffiava da quella direzione, il che accadeva spesso, la casa si riempiva del fetore di quella combustione sulfurea degli escrementi della terra.”
 
 
La domanda fondamentale che Lawrence si pone è la seguente: chi ha defraudato la gente della vita naturale in cambio di tutto questo orrore industriale? La sua risposta è: il denaro, vale a dire l’avidità, la corsa al guadagno, all’accumulazione, a ricchezze sempre maggiori. Nelle pagine finali del romanzo la professione di fede di Oliver contro il progresso, contro un mondo dominato dal denaro, è la stessa dello scrittore: “Se solo si potesse dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa! Ma non serve a nulla. Se solo li si educasse a vivere, anziché a guadagnare e a spendere.. allora non avrebbero bisogno di denaro. Ed è questo il solo modo per risolvere il problema industriale: insegnare alla gente a saper vivere e a vivere in bellezza” .
 
 
E Drieu riassume magnificamente: “Quando l’uomo naturale non esiste più, presto si disgrega anche l’uomo sociale”. Perdere il senso della natura, illudersi che si possa vivere a prescindere dalla terra significa perdere anche il senso della società, significa vedere nell’altro uomo solo un consumatore, un affarista, un competitore, lo specchio opaco dei propri egoismi!

sabato 28 settembre 2013

Sbarre e sudore (di Mario Michele Merlino)...

di Mario M. Merlino
Dopo mesi d’isolamento, primo giorno al secondo braccio, scendo in cortile all’ora dell’aria, un cortile delimitato da alte mura, torretta con secondino, due bagni alla turca con vista panoramica su circa duecento persone che avanzano si girano tornano indietro si girano avanzano in uno spazio adatto per cinquanta. Peggio che passeggiare in via del Corso il sabato pomeriggio. Eppure ci si sfiora appena, si aggirano i capannelli si saluta secondo logiche per banda o tipo di reato. A parte stanno, con il codazzo di pochi adulatori (si sa che arrivano pacchi di roba da mangiare, sigarette, che inducono in tentazione!), i ‘ricottari’, papponi magnaccia lenoni sfruttatori e altre denominazioni che tralascio. Mi spiegava un ladro di appartamenti abile nello scavalco, soprannome Tarzanetto: ‘Noi ce sudamo per mangiare, loro so’ …. sul sangue delle donne’.
 
Ho in mano la bacinella da usare dopo aver soggiornato ai servizi igienici (fare il meno possibile l’uso del bujolo, il vaso in cella che viene svuotato solo un paio di volte al giorno, anche se mi hanno insegnato il trucco per evitare la permanenza del cattivo odore). Mi metto in fila. Ballo traballo mi scuoto avanti e indietro ogni rumore vicinanza rompe il silenzio la solitudine a cui m’ero abituato. Qualcuno mi dà una sorta di spallata per mettersi al mio posto, facile, ma d’istinto gli mollo il bordo della bacinella in piena faccia… Mi trattengono, una pacca sulla spalla.
 
‘Bono, daje. Se voleva solo scherzare… tastarti il polso’, poi rivolgendosi alla guardia allarmata, ‘Ah, superiò, n’è gnente… stamo a gioca’…’. E ancora verso di me: Eh, bravo, hai superato gli esami…’.
 
E’ il ben arrivato degli altri detenuti del braccio. Sono curiosi. I giornali hanno riempito le prime pagine, un giorno, settimane, titoli cubitali, foto. E chi di loro ha mai visto un ‘politico’ (gli anni del terrorismo, rossi e neri, le spranghe la P38 gli ammazzamenti sono prossimi, ma al momento c’è solo il sottoscritto, capelli arruffati, barbetta ispida, occhiali scuri e montatura pesante, uno stecco). Mi viene a mente quando mio padre, io ragazzino, mi portò al giardino zoologico a vedere il nuovo arrivato, l’okapi…
 
La ‘passeggiata’ la condivido con un ergastolano, l’ultimo della ‘banda Giuliano’, al tempo un ragazzino, ora un omone con maglietta e pantaloni neri, in transito per qualche giorno. Mi fa scuola.
 
‘Con tutti devi essere cortese, disponibile, ma, attento!, ognuno di loro se potesse ti venderebbe… Qui non ci sono amici… Mi piace la rivoluzione francese, zac, un colpo solo, la testa nel cesto…’. E, ancora: ‘Ti offrono il caffè. E’ l’unico bene che abbiamo qui dentro. E lo fanno perché sei uno che studia, li aiuti a scrivere le lettere, ti ripagano, quando mai hanno in vita loro conosciuto uno che legge i libri, che scrive… non puoi dire loro sempre di no (allora non avevo l’abitudine a berlo, non mi faceva dormire, mi prendeva allo stomaco), qualcuno se la può prendere a male, magari che hai la puzza sotto il naso… e ti ritrovi il manico del cucchiaio limato e tagliente come un rasoio nella schiena (meglio essere nervoso che con due dita di ferro fra le ossa, mi sono detto)’.
 
Gira, clandestino e probabilmente tollerato, un giornaletto pornografico (!). Ricordo che siamo nei primi mesi del 1970. Femminismo erotismo nudismo e le loro deformazioni, la deriva che li trascinerà, si stanno per affacciare anch’essi con gli anni di piombo. E’, dunque, una rivista in bianco e nero, ben castigate le ragazze fotografate in slip e il seno che si intravede. (Ci si scandalizza se il cinema giapponese propone il nudo di uomini e donne, i giapponesi si scandalizzano perché, al contrario, non conosciamo pudore nel disvelare l’intimità dell’animo). Freud Marcuse Reich, tutti provenienti dal monoteismo ebraico, dai sensi di colpa, del sesso come perversione, dell’orgasmo meccanizzato… Una rivista che passa di cella in cella, sgualcita macchiata dai fogli appiccicosi e da inconfondibile odore di sperma e sudore. Tant’è. Un detenuto con idee imprenditoriali ha rimediato, chissà come, un paio di mutandine con pizzo e le affitta per una notte alla modesta cifra di tre sigarette…
 
Nella mia cella c’è, per breve periodo, un ‘vecchio’ detenuto. Egli schifa quel mercato di immagini. Una sera con la punta del manico del cucchiaio disegna sul muro, a fianco del suo letto, uno sgorbio di donna nuda. Gli chiedo, indelicato, il senso. Risposta: ‘…e che la mia donna è una puttana che va con tutti…’
 
Ecco, quando insisto a parlare e scrivere di ossa sangue e carne, forse mi capite. Le grandi idee, la metafisica con cui ho giocherellato per anni ex cathedra, cosa sono di fronte a quel noi stessi che, simile a lupo nella notte, ulula alla luna? No, nessun disprezzo per esse la nobiltà della loro sconfitta come dei vinti che hanno lottato amato ucciso e sono stati uccisi meritano ben più di un banale umano rispetto ammantato dai buoni sentimenti di un qualsiasi fervorino. Se, da nichilisti attivi, sappiamo collocarci oltre ogni definizione del bene e del male, sostituendoli aristocraticamente con nobile e volgare, allora le scene di ordinaria follia, che ogni tanto mi diletto a proporvi, si elevano e divengono la cifra della condizione umana…

venerdì 27 settembre 2013

Alain de Benoist: “La Russia è ritornata grande potenza nella querelle Siria”...

 tratto da Barbadillo.it

Signor de Benoist, era ineluttabile l’arroventarsi del Vicino e del Medio Oriente?
“Oggi l’opzione diplomatica pare prevalere. Ma per quanto? C’è un partito della guerra e non solo negli Stati Uniti. L’obiettivo è stato esposto da un pezzo, specie dai neocon del Progetto per un nuovo secolo americano: eliminare in tutta l’area i poteri stabili, balcanizzare i paesi più forti e ovunque scatenare guerra civile endemica e caos. ‘Divide et impera’. Da questo punto di vista, la crisi siriana va posta in prospettiva storica. Da decenni gli Stati Uniti combattono i movimenti nazionalisti arabi laici e sostengono gli islamisti sunniti estremisti. Lo facevano già ai tempi di Nasser. In Afghanistan, durante l’occupazione sovietica, hanno sostenuto i talebani. Oggi, mentre riconquistano l’indipendenza energetica, che dovrebbe renderli meno sensibili alle monarchie petrolifere, restano alleati a un’Arabia Saudita che alimenta il wahabismo e le stragi degli sciiti. Per il partito della guerra, la Siria è un’opportunità tra altre. Così il Vicino Oriente resta la pentola bollente dalla quale può uscire la nuova guerra mondiale”.


I richiami di Putin avranno effetti duraturi? E che cosa pensare del ruolo dei media, dopo la testimonianza di Pierre Piccinin, il giornalista preso in ostaggio in Siria dall’Asl, che attribuisce ai ribelli l’uso delle armi chimiche?
“Ogni giorno che passa suggerisce che l’uso delle armi chimiche nell’area di Damasco sia una montatura analoga a quella di Timisoara, in Romania, un quarto di secolo fa. Quanto a Putin, le sue iniziative hanno determinato l’evoluzione della crisi. Prendendo in parola John Kerry, per il quale gli Stati Uniti avrebbero rinunciato a colpire Damasco se la Siria avesse rinunciato alle armi chimiche, Putin si è rivelato abile scacchista. Grazie al caso siriano e in un contesto non più da Guerra fredda, la Russia ha ritrovato prerogative di grande potenza. Contemporaneamente la geopolitica ha ritrovato i suo diritti. Questo grande ritorno della Russia è un evento storico di prima grandezza. Di minore grandezza è il rifiuto del Parlamento britannico di approvare la guerra d’aggressione prevista da David Cameron, Barack Obama e dal piccolo Hollande. L’ostilità massiccia alla guerra – manifestata da un’opinione pubblica americana memore delle bugie del governo Bush e degli esiti catastrofici degli interventi militari in Irak e Afghanistan – è anch’essa un fenomeno nuovo, da non sottovalutare”.


Dall’inizio della vicenda, Obama è stato reticente. Come se volesse restare fedele al suo discorso al Cairo subito dopo l’ingresso alla Casa Bianca. Come se fosse tirato da forze opposte…
“Obama subisce pressioni contrastanti: il Pentagono, per esempio, è molto meno favorevole a intervenire in Siria dei neocon del Congresso. Sa anche che il tema della linea rossa, corrispondente all’uso delle armi chimiche, può volgersi contro di lui. Dopo le bombe di Hiroshima e Nagasaki, gli Stati Uniti hanno continuato a usare armi di distruzione di massa: bombe al fosforo, napalm, agente Orange, defoglianti vari, proiettili all’uranio impoverito, ecc. Nel 1990 gli americani dicevano di avere 30.000 tonnellate di armi chimiche! Si impegnarono a distruggerle entro il 2012, ma non l’hanno fatto. Le 2611 tonnellate di gas mostarda depositate a Pueblo, Colorado, per citare solo quelle, non potranno essere distrutte prima del 2018. Le armi chimiche immagazzinate nel Kentucky lo saranno, al più, nel 2023. E la Convenzione per la distruzione delle armi chimiche (alla quale la Siria ha ora deciso di aderire) è stata firmata, ma non ratificata, da Israele”.


Israele: un silenzio assordante. Che cosa dedurne? Che cosa concluderne?
“Si può pensare che Israele tenga un basso profilo per non apparire il principale beneficiato di un attacco americano in Siria. Ma l’Aipac, che rappresenta la lobby israeliana negli Stati Uniti, ha esortato Obama a lanciare i missili al più presto. In realtà anche là gli esperti sono divisi. Ci sono quelli che preferiscono al potere Bachar el Assad, perché è un nemico prevedibile (del resto lascia che Israele occupi le alture del Golan) e chi ci vorrebbe jihadisti perché il caos conseguente sarebbe una situazione più favorevole, considerando essenziale sopprimere, con Assad, un alleato degli Hezbollah in Libano e dell’Iran, soprattutto. Evocando Assad e la ribellione, Alon Pinkas, ex console generale d’Israele a New York, diceva: ‘L’ideale sarebbe che entrambi morissero dissanguati’. Che cosa succederebbe se una nuova provocazione dei ribelli siriani prendesse di mira Israele, come Putin ha ipotizzato? Una situazione così pericolosa, dove tutto può essere rimesso in causa dall’oggi al domani, per essere correttamente analizzata esigerebbe ben altre competenze che quelle di François

Hollande e Laurent Fabius”.(traduzione di Maurizio Cabona)
*da bvoltaire.fr
A cura di Nicolas Gauthier


giovedì 26 settembre 2013

Il sacrificio della propria identità per il fine più alto: la Nazione...


di Mario Vattani                                      

Siamo ormai nell’ultimo quarto dell’Anno del Serpente, e ho riacceso giorni fa il registratore digitale che avevo utilizzato per le tracce-base dei più recenti album di Sottofasciasemplice: Idrovolante e Filospinato. Ma nella luce arancione del riquadro delle tracks è apparso invece il nome dell’ultimo progetto registrato, segnato come “Kagoshima”.

E allora mi sono ricordato che proprio a Kagoshima, nella patria di Saigo Takamori (uno dei samurai artefici della rivoluzione Meiji, poi indomabile capo della ribellione di Satsuma) in una notte di primavera avevo composto le tracce di base di questo pezzo, che ebbe poi un percorso diverso dai precedenti. Circolò infatti nell’estate del 2008, e doveva teoricamente essere l’ultimo brano di Sottofasciasemplice: “Nazione”.
Un’edizione insolita, uscita in un contesto gotico o forse dark, e pubblicata solo su vinile, peraltro con un’etichetta diversa.

Forse un modo per togliere il disturbo senza farsi troppo notare, filando all’inglese… e non a caso la versione originale, “Nation”, era proprio in inglese, e il testo in italiano ne è la traduzione.
Strano anche il concetto della canzone stessa, per una band che nella “musica alternativa” fu certe volte considerata anarcoide e provocatoria: nel testo si raccontava la rinuncia alla personalità, al volto, all’espressione, il sacrificio della propria identità per un fine più alto, la Nazione.
Stavolta la “visione” – perché io parto sempre da quelle per scegliere poi suoni, ritmica, strumentazione e infine i testi – era quella di salire al crepuscolo i gradini di marmo di una sorta di Lincoln Memorial.
Nessuno intorno.

Nessuna sagoma tra gli alberi neri sui prati circostanti.
E in quel tempio repubblicano, assente l’enorme e ingombrante statua del sedicesimo Presidente americano, ascoltavo in piedi da solo la voce della Nazione, che proveniva da un altare imponente ma polveroso.
Dietro, le bandiere immobili, di colori irriconoscibili nella penombra.
La mia bandiera personale, a terra di fronte all’altare, insieme a tutti gli altri oggetti che mi definivano.
Mi parlava quindi la Nazione con una voce femminile ma buia, inquietante, a tratti isterica, quasi una Miss Havisham, la sposa abbandonata del romanzo di Dickens.

Nella versione in inglese poi, l’atmosfera nel tempio diventava quasi morbosa; un particolare nordico che nel testo italiano si perde, come si disperde la nebbia quando sorge il sole mediterraneo… Ma anche nell’edizione definitiva il sacrificio, come un rito in cui si donava se stessi, avveniva dopo il tramonto: “..chi vuole essere con me stasera, resterà con me per sempre..”.

La canzone “Nazione” fu pubblicata solo in italiano, e mi meravigliai di trovarla presto su internet e Youtube, nonostante si trattasse di una registrazione su vinile. Dopo questi anni, quella canzone rimane per me il racconto di una cosa vista ma non fatta, come un racconto del terrore in cui lo scrittore fa aprire al protagonista una porta che lui stesso però non aprirebbe mai, nonostante la curiosità.

Sono molte le canzoni di Sottofasciasemplice che raccontano cose viste, o immaginate, ma mai fatte. I protagonisti che animano i vari episodi di quell’avventura musicale sono delle forme mascherate. Hanno il volto fasciato, o portano un elmo arrugginito, vecchie uniformi, a volte addirittura una corona di ferro che poi precipita nella sabbia. Io do loro la voce che altrimenti non avrebbero. Mi immedesimo e faccio loro raccontare, come un medium ritmico, la loro storia, il loro fallimento, la loro condanna. Di quei personaggi non rimane nulla – oppure non sono mai esistiti – ma li anima lo stesso un’infinita voglia di catarsi o di rivalsa. Li fa vibrare la rabbia di non poter parlare ancora, come quella disperazione che fa ritornare nel mondo dei vivi dall’oltretomba i fantasmi o gli spiriti che non trovano riposo. A vederli insieme sono una bella collezione di mostri: a volte deformi, spesso disumani, sempre trasfigurati.

In ogni modo sono delle rappresentazioni, dei racconti.
E negli album di Sottofasciasemplice, che sono sempre dei percorsi con uno o più protagonisti, il più delle volte c’è un brano finale – spesso in antitesi, anche musicalmente, con il resto del disco – in cui si accendono le luci, e il medium, spossato dall’esecuzione, ridiventa se stesso, e lo dichiara.

In alcuni casi questo momento di verità è evidente, come in “Senza Croci” (Crociato, 2000): sul palco ormai vuoto il pubblico capisce che quelle che sembravano armature, armi, bandiere, personaggi mitologici, erano in realtà oggetti di cartapesta e altri attrezzi teatrali, strumenti utilizzati per una rappresentazione.
Io non ho mai pensato che si trattasse di musica “politica”. Di oltre 50 brani distribuiti su cinque album dal 1995 ad oggi, sono pochissime le canzoni che hanno dei chiari riferimenti di critica sociale, o che affrontano in modo diretto dei temi storico-politici.
Certamente, alcuni testi sono rivolti a una comunità militante, che riconosce un vocabolario nato da esperienze comuni, e mi fa piacere che negli anni molti giovani e meno giovani siano rimasti attratti o incuriositi da questo progetto molto personale… talmente personale che suono quasi sempre io tutti gli strumenti, ad eccezione forse dei fiati e della batteria.

Rivedendo oggi le tracce registrate molti anni fa a Kagoshima, ho constatato che, a differenza del protagonista di “Nazione”, io non ho rinunciato a me stesso, alle mie passioni, alla mia personalità e alla mia libertà di esprimermi e raccontare. E non ho nessuna intenzione di farlo, come non dovrebbe farlo nessuno di noi.

mercoledì 25 settembre 2013

“Gomorra”, nuovo scandalo: per il set della fiction tv pagati 30mila euro al boss Francesco Gallo ...

 
di Romana Fabiani (Secolo d'Italia)
 
Fa discutere e sobbalzare dalla sedia l’amara scoperta de il Fatto quotidiano che per il set della fiction Gomorra, che andrà in onda il prossimo anno su Sky, la produzione ha affittato la villa del capoclan di Torre Annunziata, Raffaele Gallo, arrestato pochi mesi fa per associazione mafiosa. Versati 30mila euro per sei mesi di riprese (12 puntate da 50 minuti) nella “particolare”e decisamente realistica location. Un contratto d’affitto in piena regola (con la prima rata già versata a Gallo) i cui soldi, dopo il sequestro giudiziario dell’immobile, ora sono nelle casse dello Stato. Non solo, ma il protagonista della serie televisiva è il boss in persona. Altro che finzione. La splendida villa, rosa confetto, è l’ambientazione perfetta per rendere i gusti di un capoclan – hanno pensato i tecnici della produzione – e infatti è autentica. Per lo spettatore una fiction rappresenta la finzione, ma gli abitanti del luogo, sconcertati, sanno che è tutto terribilmente vero. Il clan di Gallo – scrive il gip di Torre Annunziata – ha praticamente monopolizzato il Parco Penniniello, una piazza di spaccio con le vedette della camorra che “vigilano”. Il regno è in mano ai “pisielli”, alleati di Gallo, nemici giurati dei Gionta, il clan che ammazzò nel 1985 il cronista de Il Mattino, Giancarlo Siani.


Come se non bastasse il contratto d’affitto, per la gioia del boss e della sua famiglia, la produzione ha anche ristrutturato a sue spese il giardino e il piano superiore (mentre la piscina già esisteva) che resterà al proprietario se non chiederà espressamente di smantellare il restyling. Roba che può valere altri cinquantamila euro. E ancora un “aiutino” alla sorella del boss che si è aggiudicata il contratto per la fornitura del catering per sfamare il cast di circa 50 persone. Un pacchetto “chiavi in mano” fornito da Cattleya in coproduzione con Fandango e Sky da far inorridire la decennale crociata contro la camorra e la malavita organizzata. Il regista, Stefano Sollima, lo stesso di Romanzo Criminale, che ha lavorato gomito a gomito con Roberto Saviano, si discolpa così: «Prima che iniziassero le riprese, quindi al momento del contratto, del quale non mi sono occupato personalmente non sapevo che si trattasse di un boss. Dopo sì: la casa è stata sequestrata e abbiamo dovuto chiedere l’autorizzazione alla magistratura». Ma anche se l’avesse saputo – aggiunge – non sarebbe stato un problema, «il mio lavoro è raccontare la realtà, non ne faccio una ragione moralistica».

martedì 24 settembre 2013

11 OTTOBRE: A CASAGGì SI PARLA DI "CHE GUEVARA"...

 
 
Il 9 ottobre del 1967, quarantasei anni orsono, veniva ucciso Ernesto Guevara, meglio conosciuto come il "Che". Dopo una vita di avventure e di battaglie, a La Higuera, i governativi boliviani gli strappavano la vita, senza che la sua dignità vacillasse neanche per un attimo.  Guerrigliero, scrittore e avventuriero, Guevara ha rappresentato per decenni l'icona di una certa sinistra, facendo bella mostra di sé in tutti i cortei del mondo, fino a diventare il brand pubblicitario di tribù metropolitane e affaristi delle idee. Quest'anno, a due giorni dall'anniversario della sua morte, a Casaggì abbiamo scelto di ricordarlo, parlando di lui con Gabriele Adinolfi. Lo faremo, come sempre, con la libertà e l'onesta intellettuale che ci contraddistingue: attraverso il confronto e il dibattito, la riflessione e la sintesi. E cecheremo di mettere insieme, per una sera, gli elogi trasversali e le critiche sferzanti ad uno dei più importanti personaggi del Novecento.
 
A sinistra, come a destra, Guevara ha sempre fatto parlare di sé. Per molti rappresenta un eroe, per altri un nemico, per tanti un brand, per altri ancora un emblema. E per noi? Per noi rappresenta un personaggio che ha sempre, inevitabilmente, prodotto una fascinazione oltre gli schemi. Buona parte del mondo identitario, infatti, non ha mai fatto mistero - da Jean Thiriart in avanti - di provare una sfacciata per simpatia per quell'argentino che, inseguendo un sogno rivoluzionario che restituisse all'America Latina una dimensione nazionale, aveva rovesciato un regime e poi, non contento, se ne era andato in giro per il mondo ad accendere altri fuochi, rifiutando le prebende e gli onori che Cuba gli avrebbe tributato.
 
Furono tanti i non comunisti che lo ebbero come amico: da Peron, a Franco, da Boumedienne alle pagine infuocate di Jean Cau. Il Che piaceva a tanti di quelli che la logica degli schieramenti poneva dall'altra parte della barricata: di lui piaceva lo spirito romantico, il richiamo alla Patria, l'abnegazione, la capacità di impersonificare la lotta fino al sacrificio estremo.
 
Gabriele Adinolfi, che sarà il protagonista della serata a Casaggì, motiva così questa fascinazione: "non si può non onorare il Che perché un uomo che abbandona cariche, onori, denari e privilegi per andarsene a vivere nelle selve, tra i monti, con un pugno di compagni di lotta, passando giornate intere con qualche goccio d'acqua e, se dice bene, una galletta, un uomo che sogna e che resta fedele al suo sogno mettendo carne, muscoli, nervi al suo servizio, non può non essere onorato. Lo detta chiaramente quel sentimento della vita, dell'onore e del sacro che è alla base dell'Idea del mondo che fece grande la nostra antichità e la nostra più recente primavera. Quell'Idea del mondo che – dalla Bhagavad Gita tramite i Luperci le Legioni mithraiche, la Cavalleria fino ai Werwolf – ha significato tutto il meglio che memoria d'uomo ricordi e che si condensa nella “Dottrina di Lotta e Vittoria” (che non coincide con il successo tangibile ma con il trionfo su di sé)".
 
VENERDì 11 OTTOBRE 2013
DALLE 20 CENA SOCIALE
DALLE 21.30 CONFERENZA
-------------------------------
PATRIA O MUERTE: L'ALTRO "CHE"
ANALISI TRASVERSALE DI UN RIVOLUZIONARIO
-------------------------------
CASAGGì FIRENZE - VIA FRUSA 37

lunedì 23 settembre 2013

I numeri nell’ etica della nostra vita...


di Mario Michele Merlino (ereticamente.net)

Un amico era solito ripetere come ‘i proverbi siano la saggezza dei fessi’. Concordo. E m’è tornato a mente il detto che ‘la matematica non è una opinione’ alcuni giorni fa, passeggiando nei pressi del Colosseo dove ero passato a lasciare dei miei libri ad una piccola provvisoria libreria. Del resto, se ripercorro alcune tappe significative della mia vita, posso ben dire che vale, semmai, il contrario.

Giugno 1963, esami di maturità. Ho superato da un paio di mattine la parte degli orali comprendente l’italiano (molto buono lo scritto, discrete le mie conoscenze della letteratura, Dante in particolare), il latino (il rigore logico del periodo non è il mio forte, ma recupero su Lucrezio e Seneca), il greco è il mio asso nella manica (la letteratura del Perrotta mi ha imposto una attenzione pari ai fascicoli di Sette anni di guerra e il professor Morelli con le sue lezioni sulla nascita della tragedia non saprà mai d’avermi radicato l’idea di fare l’insegnante. Così mi cimento sull’Alcesti e come mai, pur avendo un ‘lieto fine’, venga considerata una tragedia. Vinco su tutta la linea e metto una ipoteca sulla mia promozione), la storia dell’arte non mi turba più di troppo (sono per natura un esteta e riflettere la mia immagine allo specchio mi conforta…).

Ahimè, gli orali comprendono anche matematica fisica, scienze, storia e filosofia. E via subito con il tormentone, che s’accompagnerà per tutta la mia vita – e, forse, anche in morte, visto che non riesco a calcolare quando mi tocca! -. Su seni e coseni le ondate ormonali della mia irrequieta ed inquieta giovinezza (tuttora mi chiedo cosa farò da grande!) mi trascinano al naufragio. Annaspo gorgoglio boccheggio… Il professore, un ciociaro verace, mi tende la mano e ha tutte le buone intenzioni per portarmi a riva, bagnato sì, ma salvo. ‘E va bene così (cantava Gianni Morandi). Passiamo a fisica. Mi dica un argomento a piacere (fatto inusitato ai miei tempi, altro che tesina a libera discrezione del candidato!)’. Panico. Ora veleggio, in mongolfiera, spinto da vento ostile fra le strampalate idee dell’Iperuranio platonico. Fingo di rifletterci su. ‘L’anello di Pacinotti’, mi azzardo. Mi guarda, mi scruta, sembra quasi fiutarmi, scuote leggermente il capo e ‘Ma è sicuro?’. Conclusione: cosa esso sia non lo so, immagino solo che debba essere qualcosa di particolarmente complicato…

Che noia la filosofia della scienza… Cartesio, il pavido ipocrita arrogante inventore(?) del metodo, che scaccia la domestica, da cui ha avuto una bambina, perché la piccina, ignara della grandezza del padre naturale, non gli consente di pensare con i suoi vagiti… O il Leibniz a rodersi il fegato e a schiattare in assoluta solitudine perché la ragion di Stato gli ha preferito Newton nella disputa sul calcolo infinitesimale…

Mi fermo qui. Diranno in cuor loro, tirando un sospiro di sollievo, i lettori di Ereticamente ‘ma a noi che ci frega del Merlino e di queste sue storie miserabili…’ (insensibili, incapaci di riconoscere la grandezza, non gettar perle ai porci, accidenti a voi!). Lo so, chiedo venia anche a te, negriero che ci dirigi con polso fermo e sadici intenti, pezzo da novanta di questo spazio ove, accanto a tanti seri e seriosi articoli, sopporti i miei, ligio alla norma che prevede trarre dalle liste protette anche un folle e disperato quale io sono! (Me li porti lo stesso i cannoli ricotta e canditi?)…

Andiamo, dunque, alla matematica se sia sempre e solo inoppugnabile somma di inalienabili principi o se, come il bambino della favola Il re è nudo!, si possa dirle di abbassare la cresta… Già che ci sono, mi trattengo un po’ a chiacchierare con dei giovani entusiasti vivaci impegnati capaci (penso a Marco di Firenze, ad Alessandro e Maurizio della provincia di Roma, i ragazzi di Spoleto e tanti altri). Quante energie, già, quanta storia che si rinnova con i suoi incanti le sue illusioni i fraintendimenti e le tante laceranti delusioni… Mi ritrovo in percorsi a me noti, in sentieri interrotti, in gabbie che mi apparivano dorate e che si rivelarono sbarre di prigioni…

Ed ecco – e finalmente – matematica tra rigore scientifico e opinione. Leggo che tre esponenti della vecchia DC hanno aderito a questa realtà indefinita (tre, numero magico, ma cosa portano in dono come i Re Magi? Una modesta percentuale di voti in più o la reiterata abilità di fare traffici?). Ho visto in fila alcune espressioni del loro fallimento – e che, purtroppo, diviene il nostro agli occhi dell’opinione pubblica – in procinto di realizzare l’ammucchiata delle debolezze. Una forza, suppongono, ignari e arroganti. Una debolezza più una debolezza, non producono una forza, ma due debolezze. E questa è rigorosa matematica… Al contrario non ho ascoltato formulare idee, un progetto, una identità comunitaria all’interno di un sistema valoriale; mi si dirà che questa è opinabile ‘mia’ opinione. Il mondo delle Idee è retto da principi matematici e non si rende, in quello fenomenico, se non sotto forma di sua pallida ombra, cioè opinione… ma Nietzsche ci ha insegnato a pensare che le idee sono opinioni che hanno saputo divenire forza (non debolezza!)…


Il gioco è finito, i dadi sono rotolati sul tavolo verde, uno con numeri veri l’altro con quelli truccati… e, se c’è una morale, che ognuno se la cerchi… Scriveva il filosofo Giovambattista Vico: “la matematica è utile ma non è vera”.

sabato 21 settembre 2013

Leni Riefenstahl, a dieci anni dalla morte una biografia riabilita la geniale regista di “Olympia”...

di Annalisa Terranova (Secolo d'Italia)
Un libro a metà tra ricostruzione storiografica e romanzo ricorda la grande regista tedesca Leni Riefenstahl a dieci anni dalla morte (avvenuta il 9 settembre del 2003). Firmata da Lilian Auzas, la biografia (Riefenstahl, Elliot, pp. 220, euro 18,50) “assolve” le simpatie politiche della protagonista e salva l’artista la cui reputazione nel dopoguerra era ormai irrimediabilmente compromessa. Di recente anche un altro libro, Marlene e Leni (Feltrinelli), di Gian Enrico Rusconi, aveva messo a fuoco il ruolo della Riefensthal nella Germania degli anni Trenta, affiancandola alla “rivale” Marlene Dietrich.
L’amore per il teatro e per il dramma è stato una costante nella vita di Leni Riefenstahl. Lei stessa lo confessa nelle sue Memorie, pubblicate nel 1987 (quindici anni prima della morte), pagine sulle quali ha faticato cinque anni, rimettendo ordine e forma in un’esistenza che si presenta come una sceneggiatura drammatica, con picchi di tragedia su cui a lungo resteranno accesi i riflettori della storia. Autrice di capolavori che costituiscono pietre miliari della storia del cinema, bollata nel dopoguerra come “la regista di Hitler”, dotata di una straordinaria forza di carattere che l’ha indotta a imbarcarsi in più di un’avventura difficile, un po’ diva capricciosa e un po’ amazzone emancipata incurante dei pregiudizi, tedesca in modo irrinunciabile e al tempo stesso cosmopolita e affascinata dal viaggio come scoperta, capace come nessun altro di costruire un’estetica dell’immagine in movimento, Leni Riefenstahl resta alla fine, per chi legge la sua autobiografia, inafferrabile e sfuggente, come se solo a lei spettasse l’onere e l’onore di squarciare il velo sul vero copione, sul personaggio reale, sulla “bella maledetta” (titolo del primo film da lei diretto, di cui era anche interprete).
La prima passione è per la danza: si iscrive al corso per principianti a sedici anni, ma saranno i “film di montagna” di Arnold Fanck a fare di lei una vera e propria diva del cinema. Nel primo di essi, La Montagna dell’amore, Leni ripropone la sua danza: sequenze da cui Hitler si dichiarò in seguito letteralmente affascinato. La montagna resterà sempre per Leni il rifugio ideale dove dimenticare ansie, disavventure e dispiaceri. Un archetipo del “luogo sublime” secondo la definizione del filosofo Remo Bodei: “Lo sguardo dall’alto sull’abisso ricorda il mistero insondabile dell’esistenza; il sentirsi sospesi tra terra e cielo; la lontananza dai miasmi della vita sociale e dalle meschinità quotidiane”.
Poco soddisfatta delle sue performance di attrice, si dedica al progetto di realizzare un film tutto suo. “Sentivo l’urgenza di creare qualcosa di totalmente mio. Cominciai allora a sognare e dai miei sogni nascevano immagini; fra le nebbie dell’indistinto riconobbi il sembiante di una giovane che viveva tra le montagne, una figlia della natura”. La giovane sarà appunto Junta, la protagonista della Bella maledetta (Das blaue Licht, 1932), la “strega” perseguitata dall’odio delle donne e dalla bramosia degli uomini che si arrampica al chiaro di luna verso una grotta di cristalli che emana una misteriosa luce blu. In quello stesso anno si colloca il primo incontro con Hitler, sollecitato dalla stessa Riefenstahl, che pure non era iscritta allo Nsdap e mai ne avrebbe preso la tessera. Il motivo? La curiosità, a detta dell’artista, che riferisce di un colloquio privato in un’atmosfera colloquiale, in cui il capo del nazismo avrebbe avuto tempo per corteggiarla e per parlarle del suo amore per la pittura e in cui lei gli avrebbe rivelato i dubbi che nutriva sui suoi pregiudizi razziali. Il Führer le avrebbe detto: “Quando saremo al potere, lei realizzerà i miei film”. Anni dopo, per giustificarsi, spiegherà: “Ripudiavo senza riserve il suo razzismo, ma approvavo totalmente i suoi progetti socialisti. In molti credevamo che il suo razzismo avesse soltanto valore teorico, di pura propaganda…”. Ma al di là dell’aspetto politico di quel rapporto, fiorì subito la leggenda di una relazione tra la regista e Hitler, un gossip che nel dopoguerra fu usato come arma di condanna (nelle false memorie di Eva Braun venne scritto che Leni danzava nuda per il Führer mentre l’amante ufficiale lo attendeva in camera) anche se i tribunali, cui l’artista si rivolse per difendersi dalle diffamazioni, hanno sempre riconosciuto l’infondatezza di tali accuse.
La natura sulfurea del nazionalsocialismo per Leni è invece tutta racchiusa nella figura di Joseph Goebbels, “una specie di redivivo Mefistofele”, “una persona pericolosa”, un uomo “volgare” e di “cattivo gusto”, un corteggiatore insistente che lei avrebbe più volte respinto e umiliato e che l’avrebbe ricambiata boicottando il suo lavoro per tutta la durata del Terzo Reich. Nei diari del ministro della Propaganda, del resto, non si leggono molti complimenti per Leni Riefenstahl, più volte definita un’isterica, una donna impossibile e che non si piega agli ordini.
Dal sodalizio con Hitler, un po’ subìto e un po’ cercato, sicuramente mai rinnegato del tutto dall’artista, nasce nel 1934 Il Trionfo della volontà, il film sul congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga, eccezionale documento sul regime dell’epoca con un registro narrativo singolare: le immagini e il sonoro (Wagner unito a canti nazisti e marce militari) sono infatti autosufficienti e non c’è bisogno di nessun commento. La città che si risveglia, la folla festante, i monumenti, le donne che sorridono sono rappresentati attraverso il “punto di vista” di Hitler. L’utilizzo di moderne tecnologie per supportare l’apparato rituale e simbolico del film che celebra la fusione quasi mistica di un popolo con il capo indiscusso attraverso una sinfonia di emozioni sapientemente dosata nel gioco di riprese e primi piani, rende la pellicola un potente strumento di coinvolgimento dello spettatore nella “visione” del Terzo Reich, un elemento che non fu mai perdonato a Leni Riefenstahl la quale, a sua volta, non ha mai rinnegato il suo film. In occasione del suo novantesimo compleanno, nel 1992, spiegava che il suo lavoro era stato in fondo quello, fortunato e terribile, di una testimone della seduzione collettiva esercitata dal nazionalsocialismo: “Ho solo spiegato come mai milioni di tedeschi hanno creduto in lui”. L’impatto del documentario celebrativo del Reich fu enorme e colpì anche Benito Mussolini, che propose all’artista di realizzare un film sulla bonifica delle paludi pontine ricevendo un cortese diniego: “La ringrazio per la fiducia, eccellenza, ma sto preparando un film sulle Olimpiadi di Berlino e temo che questo lavoro mi terrà occupata per almeno due anni”.
I Giochi olimpici si svolsero dal 2 al 16 agosto 1936 e furono protagonisti del capolavoro di Leni Riefenstahl, Olympia, girato con l’aiuto di quaranta operatori e una cinquantina di assistenti. La sfida di rappresentare in una fusione di immagini armoniche la competizione e la bellezza dei corpi, la volontà di vittoria, la tensione della prova, l’entusiasmo del pubblico, l’intenzione dell’atleta di superare se stesso fu ampiamente vinta dalla regista con una serie di innovazioni soprendenti: mise a punto un dispositivo equivalente al moderno zoom per adeguarsi alla rapidità degli spostamenti, fece scavare trincee nello stadio per riprendere le gare dal basso, grazie a un carrello verticale subacqueo gli operatori potevano riprendere i tuffi seguendo l’evoluzione in aria e l’immersione nella piscina, per le riprese aeree legò le macchine da presa a un pallone librato in aria offrendo ricompense a chi avesse restituito il materiale filmato, cosa che puntualmente avvenne, e ancora piccole cineprese vennero fissate alle selle degli atleti per riprendere le gare di equitazione. Giustamente celebri le sequenze della maratona, dove si traduce in immagini, con l’aiuto della colonna sonora di Herbert Windt, la volontà di andare avanti a dispetto della stanchezza del corpo.

venerdì 20 settembre 2013

Serve il coraggio di Pound per salvare tutto il mondo...

di Pietrangelo Buttafuoco

Contro le sette sorte all'ombra di Wall Street (e di chi la occupa), il poeta insegnò che il contrario del mercato non è la democrazia, ma il tempio.


Il più grosso oltraggio che la democrazia ha commesso nei confronti di Ezra Pound non è di averlo rinchiuso nella “gabbia di gorilla”. Né, di per sé, il fatto di averlo cacciato per tredici anni nel “buco d'inferno” del St. Elizabeth's.

La vergogna vera e sanguinante del caso Pound non è dunque la violenza del potere nemico del bello e del buono ma la morale.Il peccato originale dell'Occidente non è la forza, ma l'incapacità di darle il sigillo del sacro, dovendo così ripiegare sulla più modesta giustificazione morale.
 
Ecco, ciò che deve essere stato davvero insopportabile per Pound non è tanto il rumore del chiavistello che risuona sordo alle spalle ma il sibilo fastidioso dell'ultimo uomo che tutto giudica e tutto misura sulla propria piccolezza.
 
Potevano rinchiuderlo solamente, Pound. E invece l'hanno anche giudicato. Errore fatale. L'Omero del Novecento è stato giudicato da tutti: dai suoi compatrioti per nascita, gli americani, dai suoi compatrioti per elezione, gli abitanti della repubblica dei letterati. Ognuno, conformemente a un'etica egualitaria (l'ultimo uomo, appunto...), si è sentito in dovere di puntare il dito contro il poeta «finito con il culo per terra» – così sintetizza brutalmente Bukowski – e sferrare un calcio al vinto. Ogni calcio, un giudizio. E i peggiori, come al solito, non sono stati i nemici dichiarati, quelli che contro l'autore dei Cantos conducevano la loro guerra santa, astiosa e irragionevole, accecati dall'ultimo dei fanatismi, l'antifascismo. Ben peggiore è il languore dei vermilinguo che sul conto del veggente di Hailey hanno dovuto sprecare il fiato in innumerevoli «però».
 
Pound, il grande poeta, «però...». Però era ossessionato dall'economia. Però era poco chiaro, decisamente oscuro, forse un po' pazzo. Però era un ingenuo, un bambinone, un visionario, uno strampalato. Però era un dilettante, un presuntuoso, un eccentrico.
 
Uno ad uno, questi però hanno fatto più male al poeta di ogni gabbia e di ogni tortura. Ne hanno smontato pezzo dopo pezzo la dignità di uomo e la grandezza dell'artista. Avrebbero potuto farne un nemico (riducendo tutti i «però» all'unica vera obiezione: «...però era fascista») e invece hanno voluto trasformarlo in un buono di serie B. E se le condanne alla fine si esauriscono – persino quelle mai pronunciate: nessun giudice ha mai comminato i 13 anni di manicomio che la sua patria gli inflisse – il giudizio morale rimane sempre lì, a far danni. Tant'è che ancora oggi c'è chi vorrebbe salvarne la memoria a colpi di carte bollate da chi, dicono, se ne appropria senza autorizzazione, con l'aggravante della colpa ideologica. Che poi è sempre una colpa ontologica: non è quel che si fa, che desta scandalo, ma quel che si è.
 
E questo essere colpevole imputato agli autoproclamatisi figli di Ezra è figlio diretto dell'essere colpevole che fu riscontrato nell'Ezra stesso dai questurini del pensiero. E quindi, alla fine, è da se stesso che, con foga intempestiva benché probabilmente onesta, vogliono salvare Ezra Pound.
 
Salvare Ezra Pound: quale impudenza. Se non fossimo completamente ubriachi di morale e di empietà, che poi è lo stesso, giungeremmo all'unica conclusione possibile. Ovvero che è lui che salverà noi. Noi: l'Italia, l'Europa, l'Eurasia. Perché no, il mondo, come recita ambizioso il sottotitolo di questo saggio. E anzi la prova più schiacciante della vacuità di tutte le altre sette soteriologiche sorte all'ombra di Wall Street e rimpolpate dai rampolli della borghesia progressista è proprio l'ignoranza dei Cantos. Hai voglia a occupare, contestare, frignare se poi si è spiritualmente i gemelli omozigoti delle oligarchie combattute negli slogan. Se invece avessero letto Pound saprebbero che il contrario del mercato non è la democrazia, ma il tempio.
 
The temple is holy because it is not for sale. Il tempio è sacro perché non è in vendita. Ecco l'eresia assoluta, ecco la rivolta totale, ecco la rivoluzione perfetta, quella che non ciancia di diritti ma evoca gli Dèi. Non c'è soluzione che non transiti per il tempio. Perché la religione è l'istinto di sopravvivenza dell'uomo. La religiosità è alla base. E, allo stesso modo, non c'è rivoluzione che non passi da Pound. 
 
Pound strumento di una demistificazione mai innocente, quindi. Da utilizzarsi soprattutto contro la regina delle mistificazioni, quel ballo macabro che è lo scontro di civiltà, organizzato e orchestrato scientemente da chi ha interesse perché le guerre continuino. C'è un sistema che crea le guerre in serie, urlava, inascoltato, il poeta ai microfoni di Radio Roma.
 
Pound potrebbe \ salvare la destra italiana dal suo essere destra e quindi aiutarci a dimenticare nell'armadio delle irrilevanze della storia quella costruzione farraginosa che è l'ideologia teo-con. Ideologia religiosa solo di nome ma in realtà puro pregiudizio moderno, mero prurito profano. È, questa destra bastarda, una sinistra più efficace, più risoluta, perché meglio di ogni progressismo sa condurre la sua guerra mortale al sacro.
 
In Cabaret Voltaire scrivevo che la destra non è altro che la sinistra al culmine della sua fase senile. E lo è proprio perché non ha letto Pound. Lo ha citato spesso, ma non lo ha letto. Ha continuato a citarlo persino Gianfranco Fini, copiandola da Roberto Saviano, ovviamente attingendo all'unica frase totemica, al motto esistenziale fattosi jingle, quello sull'uomo che deve essere sempre disposto a lottare per le proprie idee, perché altrimenti o non vale lui o non valgono le sue idee.
 
Sotto la frase a effetto, nulla. Ed è stato quasi sempre così, con la notevole eccezione di quel pezzo di poundiano di ferro che fu Giano Accame, che Scianca così spesso cita. «Non mi piace – diceva il giornalista – un'Italia che si rinnovi attraverso i rinnegamenti e una destra che incalza la sinistra vantandosi: noi abbiamo rinnegato più di voi. Rischiamo di diventare un popolo di rinnegati». Non rinnegare: il primo comandamento di un'etica del pensiero forte. 
 
Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo la prefazione di Pietrangelo Buttafuoco a saggio di Adriano Scianca Ezra fa surf, sottotitolo «Come e perché il pensiero di Pound salverà il mondo» (Zero9, pagg. 320, euro 15) in uscita in libreria. Scritto dal responsabile nazionale per la Cultura di «CasaPound», il libro dimostra, anche polemicamente, la straordinaria attualità della visione economico e sociale del poeta americano.

giovedì 19 settembre 2013

CASAGGì FIRENZE PRESENTA AREA CON FABIO RAMPELLI...


Casaggì presenta AREA, la storica rivista che, da anni, anima il confronto e il dibattito nel mondo identitario, lanciando spunti e sintesi di ottima fattura. Un pezzo di storia, che celebriamo assieme ad uno degli animatori della rivista, Fabio Rampelli, oggi deputato e dirigente di Fratelli d'Italia e da decenni in prima linea per la difesa di una visione del mondo improntata sui valori dell'identità, della socialità e del comunitarismo. 

Rampelli fu, assieme a tanti altri giovani, uno dei protagonisti delle magnifiche esperienze politiche e metapolitiche nate in seno al Fronte della Gioventù: dal contropotere studentesco di Fare Fronte all'ambientalismo di Fare Verde, dai progetti metapolitici alla volontà di costruire un immaginario culturale, lontano dalla retorica e dall'autoreferenzialità. Un confronto diretto, sincero e aperto, come nel nostro stile...

Con lui parleremo dei temi dell'attualità, delle prospettive della destra italiana, di ambientalismo, dei recenti scenari internazionali, della politica dell'attuale governo e delle sfide che caratterizzeranno l'anno politico appena iniziato. La serata di lunedì 30 settembre inizierà alle ore 19, con la presentazione della rivista, e proseguirà con una cena sociale. L'ingresso è libero e aperto a tutti: la cena sarà "pagata" con un contributo di pochi euro che servirà ad autofinanziare le attività del spazio.

LUNEDì 30 SETTEMBRE DALLE ORE 19
CENA A BUFFET E PRESENTAZIONE DI AREA
con Fabio Rampelli e altri ospiti
Casaggì Firenze - via Frusa 37

«Essere etero è un fatto naturale». E anche la Treccani viene scomunicata dalle associazioni gay…

di Valter Delle Donne (Secolo d'Italia)


«Nell’Enciclopedia Treccani ci sono voci omofobe che vanno corrette». Anche il più autorevole punto di riferimento della cultura italiana è colpito con l’ingiuria più trendy del momento: “omofobo”- Nel mirino dei talebani del “politicamente corretto” finiscono alcune voci del Dizionario di Medicina (2010) e dell’Enciclopedia, disponibili on line al sito internet Treccani. A dare ampio risalto alla lettera della protesta, il manifesto che ha pubblicato in prima pagina la lettera sottoscritta da tre laureati, un dottorando e due  ricercatori di diverse università italiane.


Secondo gli autori della lettera, inviata al ministro Massimo Bray e al presidente uscente Giuliano Amato, i termini come “transgender” o “transessuali” c’è «una visione distorta e ideologica della sessualità non eterosessuale». Sotto accusa il termine omosessualità. Tra i termini incriminati ci sono pure “transgender”, “omosessualità”, “lesbismo”, “gender”. In particolare, sotto accusa la parte della voce dove si legge che «l’orientamento eterosessuale è innato (in-naturae), ma può subire cambiamenti o modificazioni a causa di particolari interazioni del soggetto con l’ambiente familiare e sociale, generando un orientamento omosessuale».

Un dato che, secondo gli autori della lettera, non si può scrivere perché si tratterebbe solo di «un espediente per indurre nel lettore una visione negativa del desiderio omosessuale». Sono molte le contestazioni racchiuse nella lettera, come il termine “lesbismo”, che conterrebbe uno schema «maschilista ed eteronormativo». Da qui gli autori della lettera chiedono immediata rettifica alle voci contestate, chiedendo inoltre «riferimenti bibliografici aggiornati e scientificamente autorevoli che, nel caso, saremmo ben lieti/e di suggerire».

martedì 17 settembre 2013

Una tomba ricoperta di fiori...


di Mario M. Merlino (ereticamente.net)
Oggi Charonne è stata integrata all’interno del tessuto urbano di Parigi e trasformatasi in una banlieu come lo sono le periferie di tante capitali d’Europa. Lo si avverte immediatamente appena si accede all’esterno della fermata della metropolitana. Il grigio dell’anonimo, dello squallore, di un non so che di sporco che ti avvolge e che penetra nella mente nel corpo e che non si configura solo per i sacchi di immondizia e le carte gettate a terra. Eppure c’è un angolo che s’è protetto, si è conservato ed è ciò che attira i visitatori, beh, diciamo un tipo specifico di visitatori. Ad esempio quelli che hanno letto I sette colori, coinvolti ed emozionati e affascinati da quello spazio ove si svolge una delle prime e fondamentali scene e, dal 1957, tomba del suo autore.
E’ la chiesa di Saint-Germain- de Charonne, nel XX arrondissement, rue de Bagnolet…’Videro a mezza costa, improvvisamente, spiccare la piccola chiesa col suo campanile e il suo galletto, relitto meraviglioso di un antico villaggio. Sulla sua vetta, fra case moderne, essa sola serba il ricordo dei borghi di periferia fra i lillà, e delle antiche pene umane. Davanti ad essa è stata allargata la piazza, alla quale si sale sempre per una gradinata di pietre dove, nello Charonne paesano, dovevano essere belli a vedere i grandi matrimoni e le prime comunioni. Ma le cose non sono tanto cambiate, e si dimenticano le case alte di mattoni rossi per quella torre di pietra grigia riparata col cemento, per il recinto che domina la strada, e dal quale si affacciano alberi e croci. Essa sola, infatti, credo, in Parigi, ha serbato il suo piccolo cimitero invaso dalle erbe, il suo cimitero di campagna dove già non v’è più posto per i futuri morti’. Se questa è la descrizione del luogo, in esso i due protagonisti, Caterina e Patrizio, disvelano il sentimento, che stava nascendo in loro, sfiorandosi la mano. Con gesto delicato e leggero perché lo scrittore amava questi toni, la leggerezza appunto, che egli riteneva (purchè non trattasse delle scelte di fondo, di stile interiore potremmo dire) espressione della giovinezza dei suoi incanti dei sogni, priva di certa pesantezza dell’essere.
Il 6 febbraio 1945, alle ore 11 (così dal verbale d’esecuzione redatto dal suo avvocato Jacques Isorni) il dramma si è consumato. Robert Brasillach è stato prelevato dal carcere di Fresnes e condotto al forte di Montrouge, legato al palo e fucilato da un plotone composto da dodici uomini. Pallido con la sciarpa rossa al collo e la fotografia della madre sul petto, con voce alta e gli occhi rivolti verso il cielo. ‘Coraggio!’ e ‘Viva la Francia!’ sono state le sue ultime parole. Su un foglio di carta Isorni raccoglie la grossa goccia di sangue che gli scivola dalla fronte ‘per portarla a quelli che l’amano’…
Il suo corpo viene portato a Thiais, là dove le tombe non portano nome, dove è vietato erigere una stele o deporre soltanto un fiore. Nessuna pietà per chi è stato condannato a morte. Poi lo stesso giovane che, in tribunale, alla lettura del verdetto aveva gridato tra il pubblico ‘E’ una vergogna!’ (pronto Brasillach gli aveva risposto ‘No, è un onore!’) gli cede un posto nella tomba di famiglia al Père Lachaise, fino appunto al ’57 quando l’amico e cognato Maurice Bardèche riesce ad ottenere la traslazione a Charonne, dove ha trovato definitiva pace con la madre Marguerite Brasillach-Maugis. Una tomba che è un tripudio di fiori… perché quella goccia di sangue dal colore vermiglio è tanto simile al sole che, sempre e comunque, s’impone sulle tenebre, la menzogna, l’ottenebramento.

lunedì 16 settembre 2013

Addio a Michele Di Fiò, cantautore e poeta di tanti cuori neri...

da Barbadillo.it

E’ venuto a mancare Michele Di Fiò, uno dei cantautori più attivi e poliedrici nella scena della musica alternativa nei difficili anni settanta.

Di San Costanzo in provincia di Pesaro, Michele Logiurato (questo il vero nome del cantante) inizia la sua attività musicale nei primi anni Settanta. Nel 1975 rifiuta una proposta della RCA per non dover sottostare alle censure del mercato e nel 1977 partecipa al I Campo Hobbit, dove però a causa di problemi di salute non poté esibirsi. Ad autunno dello stesso anno pubblica il suo primo lavoro, la cassetta autoprodotta, “Seveso e no”.
 
L’anno successivo dà alla luce il suo primo LP “Ad un passo dal cielo c’è”. Nel 1979 esce il suo secondo LP “Cervello” arrivando tra i primi classificati a “Cento città”, una manifestazione canora organizzata dalla RCA e da radio libere di tutta Italia.

Con l’uscita del suo primo 45 giri “Rock”, inaugura la Mosca Bianca(1980), primissimo tentativo di creare un circuito alternativo per la musica con negozi e radio libere affiliate. A fine anno viene anche distribuito il primo numero della rivista de “La Mosca Bianca”.

Nel 1981 la struttura inizia cresce: si creano nastri con programmi musicali per le radio e si cerca, purtroppo vanamente, di dare un minimo di coesione alle varie realtà. A fine anno registra il suo terzo LP “Cavalcare la tigre”. E’ la sua ultima pubblicazione. Dopo circa tredici anni di silenzio, nel 1995, fa una fugace apparizione al concerto di Rieti del 23 luglio alla Festa nazionale del Secolo d’Italia.

Tra le sue canzoni più belle ed emozionanti, ricordiamo “Est”, “Rock”, “Aprile”, “Cervello”, “Anna” e “Italia”, dedicata ad Alberto Giaquinto.

sabato 14 settembre 2013

Dio, l’unico clandestino che l’Europa espelle....

di Marcello Veneziani

Via dalle scuole francesi, dalle vie e case di Milano, vive in penosa clandestinità 

Espulso dalla scuole francesi con provvedimento governativo, sparito dalle case e le vie di Milano, giusta denuncia del cardinale Scola, Dio vive in Europa una penosa clandestinità. In Europa è sfrattato e obliato, in Africa è massacrato, in Medio Oriente è schiacciato dai suoi concorrenti. È costretto a rifugiarsi in Sud America e nelle periferie del pianeta. È un po’ curiosa la definizione di ateismo anonimo che ha dato l’arcivescovo di Milano, come se l’ateismo avesse bisogno di nomi per farsi riconoscere. Forse sarebbe più rigoroso parlare di ateismo pratico, ovvero della rimozione di Dio nella vita di ogni giorno, senza porsi il problema, ma facendolo scivolare nel niente. Non contenti di questa scomparsa di Dio, i francesi vogliono decretarne pure l’espulsione pubblica. Ma c’è bisogno, egregio ministro Peillon, di fare affiggere nelle scuole la Carta della laicità? Non basta la Costituzione repubblicana, la retorica laicista del 1789, la pratica di vita che emargina la religione? E se stavolta la Carta serve a disarmare pure l’islam, non rischia di produrre la reazione opposta, verso l’integralismo e l’odio verso l’ateismo occidentale? Non è bello imporre Dio per legge, ma ancor più brutto è dichiararlo fuori legge. Le religioni sono alle fonti delle civiltà, generano comunità, valori e carità; un conto è frenare l’intolleranza religiosa e la pretesa di disporre del mondo in nome di Dio; un’altra è sostituirla con l’intolleranza laica e l’indifferenza pratica. E ricordatevi: in dubio pro deo.

venerdì 13 settembre 2013

Gli scritti inediti di Nietzsche sull’invidia, sentimento tipico dell’uomo della decadenza...


Redazione Secolo d'Italia


Quattro scritti inediti di Friedrich Nietzsche sull’invidia sono ora proposti in Italia dalla casa editrice Elliot con un titolo più esistenziale che filosofico: Può un invidioso essere felice? (a cura di Alessandra campo). Scritti fra il 1863 e il 1864, anni in cui Nietzsche termina lo studio a Pforta e si avvia a quello universitario, questi brevi testi costituiscono riflessioni che non sono assimilabili né a quelle autobiografiche, né a quelle filologiche. In essi c’è la possibilità di rintracciare non solo la fase di maturazione umana e intellettuale del giovane Nietzsche, ma anche le anticipazioni dei grandi motivi della sua filosofia successiva. In queste pagine, dunque, gli ultimi retaggi dell’influenza religiosa familiare lasciano intravedere lo sviluppo delle sue posizioni anticristiane e rivelano l’attenzione per l’antichità unita all’interesse per il destino tedesco a cui Nietzsche era stato formato negli anni trascorsi a Pforta.


La scuola di Pforta – dove avevano studiato Novalis, Fichte, Friedrich Schlegel e dove Nietzsche compie gli studi superiori dal 1858 al 1864 – era un ginnasio-liceo a numero chiuso, di impostazione umanistica. In questa scuola, rinomata per la serietà dell’insegnamento, si studiava soprattutto l’antichità classica; qui, a differenza degli altri licei prussiani, in cui prevalevano ideali clericali e monarchici, si respirava l’atmosfera dell’Ellade e di Roma: al centro dell’insegnamento stavano il greco e il latino, oltre che la lingua e la letteraura tedesca.


Nei suoi scritti sull’invidia Nietzsche sottolinea come questo sentimento sia un errore della conoscenza e della natura che conduce l’individuo lontano dalla vera felicità: «Agli invidiosi la felicità e l’onore appaiono sotto l’involucro esteriore della ricchezza e dello splendore, dell’acclamazione pubblica e delle lodi dei giornali… essi non riescono a vedere il cuore delle cose». Sono le prime intuizioni degli aforismi che nei testi più noti sulla genesi dei valori e dei controvalori etici (Geneaologia della morale e Al di là del bene e del male) indurranno il filosofo di Zarathustra a condannare l’«uomo del risentimento», ad additare la «morale degli schiavi» come causa prima della decadenza dei valori europei e ad auspicare il superamento del nichilismo attraverso la “felicità” dell’oltre-uomo.

giovedì 12 settembre 2013

Il padre, libertà e dono...

di David Taglieri


“Il Padre Libertà Dono” (Edizioni Ares, pagg. 185) è l’ultima fatica dello psicoanalista junghiano Claudio Risè, collaboratore del “Mattino” di Napoli e del “Giornale”.


Il saggio sintetizza il contenuto, la morale e la logica dei precedenti libri, ma con un piglio maggiormente legato alle tematiche dell’attualità, contestualizzando il Padre oggi, con l’obiettivo di recuperare la sua funzione tanto bistrattata dalla modernità.


L’Occidente in 40 anni ha voluto avvilire, deformare e deprimere il concetto di paternità, laddove è essenziale e vitale invece il suo reingresso -e dalla porta principale- nella scena sociale.


Serve il Padre, che si differenzi da una Madre: questa accoglie il bimbo nel grembo e lo accompagna nella vita di tutti i giorni con dolcezza, ma il Padre dà la direzione, lo introduce nel Mondo, lo guida all’esistenza, gli fa comprendere che la vita stessa è anche dolore e perdita, non escluso il fallimento.


La “ferita” tempra la pelle; il piccolo uomo, o la piccola donna, impara a combattere e a lottare per la vittoria; ogni giorno sarà una sfida, ogni ora la possibilità di far centro o di fallire. Il limite esiste, quel limite che il dogma della società iper-tecnologica e dell’omologazione intende sopprimere, come vuole sopprimere la vita umana.


La legislazione sull’aborto, per esempio, penalizza gli uomini in tutti i casi: perfino la richiesta del parere al padre in Italia è subordinata all’autorizzazione della madre. E negli altri Paesi europei la situazione non è migliore. Nella cineteca personale in questo senso non può mancare Kramer contro Kramer, con un grandissimo Dustin Hoffman nei panni di un padre responsabile e bistrattato.


Il padre sulla terra richiama quello in Alto, ma in questa epoca si è voluto abolire e rendere politicamente scorretto lo stesso linguaggio: la Norma è da condannare, la gerarchia da deridere, l’autorità da sbeffeggiare…


Quel 1968 fu l’anno nel quale le conseguenze superarono le cause. Se prima non andavano bene formalismi eccessivi e severità fine a se stessa, si è poi passati da un estremo all’altro. Serve equilibrio e Risè ci dice che il Padre è quello che orienta ed equilibra l’attività del figlio: certo non tutti i padri sono uguali, ma stracciando la figura paterna e facendo di tutta un’erba un fascio si rende un pessimo servizio. Il bimbo ha bisogno di un Padre e di una Madre e delle due differenti specificità, che sono complementari e formano l’uomo nel cammino futuro.


Da psicoanalista Risè mette in evidenza come tanti disagi psichici provengano da lontano, in quella infanzia dove la figura del Padre è mancata. Molte depressioni in Italia -è dimostrato- nascono nei giovani a causa dell’assenza del Padre.


Il Padre che insegna a essere uomini, l’essere se stessi e dare il tutto per tutto come in una finale, sapendo che la partita può cambiare da un momento all’altro, ma l’individuo con altri uomini, nella relazionalità, deve saper fare squadra e comunque dare il suo apporto.


E ancora le crisi familiari, che nascono dalla rottura dei legami, tanto dileggiati dai media, perché il temporaneo-provvisorio piace alla gente che piace, mentre il duraturo crea “imbarazzi”. Il modello normativo maschile è in crisi perché le caratteristiche di quel mondo sono state gradualmente e violentemente scardinate da certi film, dalle canzoni, dalle notizie e da coloro che fanno opinione, i cosiddetti opinion makers.


Risè è firmatario del “Documento per il Padre” insieme ad altri illustri intellettuali come Stefano Zecchi (cfr.: www.claudiorise.it ), proprio in difesa dei padri abbandonati dalla società.


Con la prefazione di Pietro Barcellona, questo saggio è l’occasione per approfondire un cavallo di battaglia di Risè, il padre di quaggiù per risalire verso il Padre Alto. L’immagine in copertina del papà che solleva il bimbo in alto è già una bella presentazione. Forse bisogna ripartire proprio da lì…

mercoledì 11 settembre 2013

A proposito di 11 settembre...


Oggi è l'11 settembre e, nella memoria collettiva scorrono le immagini dell'attacco terroristico che, nel 2001, colpì gli Stati Uniti. Di quel massacro fu ritenuta responsabile Al Qaeda. Sono passati dodici anni e, dopo due guerre preventive in Iraq e Afghanistan, gli Stati Uniti si apprestano ad iniziarne un'altra contro la Siria, al fianco dei guerriglieri di Al Qaeda. Una parabola che spiega tutto e che ci ricorda che, da una parte e dall'altra, sono sempre gli innocenti a pagare le scelte dei potenti.

martedì 10 settembre 2013

Ahmad Shah Massoud. In ricordo di un simbolo della libertà...

di Franco Nerozzi (Comunità Solidarista Popoli)

Di tanto in tanto, nel corso della storia, le radici invisibili della Sacra Pianta della Tradizione alimentano frutti straordinari, destinati, per la loro rigogliosa pienezza, a nutrire perpetuamente gli spiriti affamati di luce. A volte sono uomini di filosofia, artisti, letterati, figure religiose e politiche, individui generosi che donano più di quanto abbiano ricevuto, personalità che trascinano con carismatica attrazione moltitudini di anime verso destini grandiosi. A volte sono guerrieri. Come quello che incontrai più volte nel paese degli Ariani, alte montagne e sconfinati deserti tra Persia, Cina, Russia e subcontinente indiano: l’Afghanistan.
 

Ahmad Shah Massoud, il “leone del Panjshir”, il comandante dei mujaheddin che negli anni ’80 combatterono e sconfissero le truppe di occupazione dell’Armata Rossa, parlava con la sobrietà e la semplicità degli uomini consapevoli del proprio valore. In una spoglia stanza di una casa segnata dalle schegge di bomba conobbi per la prima volta l’uomo che era già divenuto leggenda, incubo dei reparti sovietici, vessillo di libertà per un popolo che resisteva orgogliosamente all’imperialismo rosso. Il Panjshir, dove mi trovavo, aveva subito numerose offensive delle truppe di Mosca: bombardamenti a tappeto con Tupolev 16, e invio di venti, a volte trentamila soldati supportati da reparti corrazzati con l’appoggio di commandos che gli elicotteri russi depositavano sulle cime che circondavano la valle. Niente da fare: la distruzione dei villaggi, dei canali d’irrigazione e dei raccolti, il massacro di migliaia di civili, non era mai servito alla conquista della roccaforte di Massoud. Il comandante si ritirava, attendeva che i sovietici allungassero le loro linee nel dedalo di vallate e di remoti dirupi e puntualmente contrattaccava infliggendo al nemico pesanti perdite e umilianti lezioni di tattica militare.
 

“Con l’aiuto di Allah l’Onnipotente e il sacrificio dei combattenti del “Jihad” riporteremo la pace in Afghanistan” mi aveva detto sorridendo serenamente mentre cupi boati salivano dalla piana di Charikar, lo sbocco del Panjshir verso Kabul.
 

Ma la pace non arrivò: quando dopo la sconfitta del regime filosovietico Massoud entrò nella capitale dell’Afghanistan da Ministro della Difesa, trovò nuovi nemici. Le fazioni integraliste dei mujaheddin, quelle che Washington aveva privilegiato nelle forniture militari nonostante la loro evidente inconsistenza nella guerra all’Armata Rossa, scatenarono l’inferno nella città. Decine di migliaia di vittime e nuove distruzioni segnarono gli anni dal ’92 al ’94. Poi, per garantire tranquillità ai progetti di sfruttamento delle fonti di energia da parte delle multinazionali, e assicurarsi il controllo di un’area strategicamente essenziale, il Dipartimento di Stato foraggiò i “folli di Dio”, il movimento dei Talebani, gruppi di wahabiti pashtun con forti legami in Pakistan ed Arabia Saudita. Massoud lasciò Kabul nel ’96 per evitare alla popolazione nuove sofferenze: riprese la guerriglia nel nord, consapevole di dover fronteggiare ora le mire imperialistiche dell’altra Grande Potenza, che agiva nel suo paese attraverso i servizi di Islamabad.
 

Indipendente, libero, tradizionalista, incorruttibile: Ahmad Shah Massoud è morto per questo. Fin da giovane aveva combattuto perché l’Afghanistan rimanesse fedele alle proprie tradizioni: iscritto al movimento islamista, a partire dai tempi del liceo aveva partecipato alla lotta politica contro le ingerenze straniere nel Paese. L’attività del movimento era diretta in senso ri-voluzionario anche contro i privilegi delle classi dominanti, accusate di tradire lo spirito dei codici sociali tradizionali afghani : primo fra tutti quello che prevede meccanismi di riequilibrio delle disparità economiche tra individui, secondo i precetti del Corano. Il giovane tagiko partecipava alle marce di protesta contro l’intervento statunitense in Vietnam e si rendeva protagonista di accese manifestazioni antisioniste che venivano organizzate all’Università di Kabul. Poi, con un pugno di fedeli compagni prese le armi, salì in montagna e diede vita alla prima resistenza anticomunista d’Afghanistan.
 

Da allora, per quasi trent’anni, fece quello che un guerriero deve fare: combattere, anche quando la sconfitta appare certa, sancita non dal valore del nemico quanto dalla decadenza di un’epoca che premia il vile ed ignora il coraggioso.
 

E di coraggio ne aveva, Massoud. La prima linea era per lui l’ambiente naturale in cui si muoveva dando l’impressione di schernire il pericolo. Accanto ai suoi ragazzi e ai suoi vecchi ufficiali, affrontava il nemico con il Kalashnikov imbracciato, la ricetrasmittente incollata all’orecchio per impartire gli ordini. Bastava la sua presenza in un punto del fronte che stava per cedere per rovesciare le sorti della battaglia. Accanto al comandante sembrava che nulla di male ti potesse succedere. Il nostro ultimo incontro avvenne nel novembre del 1998 a Taloqan, quando la città era assediata da diecimila Talebani. La situazione appariva disperata, le forze del Mullah Omar, sostenute da volontari pakistani ed arabi avevano scatenato un’offensiva su più fronti. L’aviazione bombardava il centro della città, in particolare il mercato, e numerose erano le vittime tra i civili. Anche il Panjshir era sotto attacco. Inoltre, un uomo armato, protetto dal vestito femminile che copre interamente la figura era stato fermato poco prima che potesse avvicinarsi pericolosamente a Massoud per l’ennesimo tentativo di assassinio. Di fronte a tutto ciò, il comandante aveva fatto rientrare in Afghanistan la moglie e i figli dal loro sicuro rifugio in Tagikistan. Il segnale per i suoi uomini era chiaro: il Leone avrebbe resistito, e avrebbe vinto ancora una volta.
 

Parlammo in francese durante un colloquio che si concluse con la promessa di rivederci di lì a breve: mi salutò dicendomi ” torna in pace alla tua famiglia”. Io pensai alla sua, riunita in qualche casupola di fango ad attendere un nuovo inverno di guerra.
 

Questo era Massoud, l’uomo che qualche mese prima della sua morte fece di malavoglia un giro in Europa. Lui, che mai lasciava le sue montagne e i suoi mujaheddin, venne spinto dai suoi consiglieri a percorrere per qualche giorno gli untuosi corridoi della politica occidentale. Trovò ciò che ci si poteva aspettare: l’imbarazzo e la freddezza dei pingui burocrati di Strasburgo di fronte a qualcuno la cui sorte era forse già stata decisa. Un uomo con cui non si possono fare affari è un uomo totalmente inutile per l’Europa delle Banche.
 

Il 9 settembre di quest’anno due algerini con passaporto belga hanno fatto esplodere una carica di esplosivo nella stanza in cui Massoud stava per rilasciare una intervista.
Un “regalo” di Bin Laden ai suoi protettori di Kabul, si è detto. Fatto sta che con Ahmad Shah Massoud scompare il condottiero che si è opposto per tutta la sua esistenza alla concezione materialista del mondo che marxismo e capitalismo hanno cercato di imporre al suo Paese.
 

Per me, con lui, è scomparso non un amico, perché della sua amicizia mai sono stato degno, ma un luminoso esempio di libertà. Il frutto straordinario di una pianta dalle antiche radici nascoste.