giovedì 31 luglio 2014

Il caos in Libia è una sciagura per l’Italia...


di Mauro Indelicato (L'Intellettuale Dissidente)

Nulla di nuovo sotto il sole caldo della Libia; nei media tradizionali, si usano espressioni come “colpo di scena”, “mondo in allarme”, un po’ come se fossero tutti sorpresi di quanto sta capitando nel paese africano, ma già negli ultimi giorni di resistenza di Gheddafi in molti prevedevano uno scenario libico molto simile a quello somalo, con uno Stato di fatto fallito, il cui governo non ha più alcuna sovranità.

La situazione è forse peggiore dell’Afghanistan, lì dove il presidente viene chiamato “Sindaco di Kabul”, per via del fatto che la propria autorità non travalica i confini della capitale, ma in Libia nemmeno Tripoli e Bengasi sembrano essere sotto il controllo di alcuna autorità, anche perché autorità non ce n’è. I soldati che sembrano “regolari”, con tanto di divise, sono invece fedeli al generale Haftar, che dopo 20 anni di vita negli USA è tornato in patria per cercare di prendere le redini del gioco sotto l’evidente e marca spinta del paese che lo ha ospitato per tanti anni. Poi sul campo, ci sono tutta una serie di fazioni, spesso corrispondenti alle tradizionali tribù con cui è suddivisa la società libica e che rivendicano ciascuna fette di potere dopo essere state pagate per cacciare Gheddafi e porre in essere davanti gli occhi del mondo il teatrino della “resistenza” libica.

L’unico elemento di sorpresa, riguarda il fatto che in molti si aspettavano una frammentazione del paese seguendo la suddivisione storica della Libia, con l’autonomia cioè di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, ma pare che anche questi confini siano stati abbattuti ed a loro volta frammentati e così la spaccatura libica ha confini ancora più ristretti, seguendo le rivendicazioni non di intere regioni, ma di singole tribù o si singole famiglie.

Ma per il resto, per l’appunto, lo spacchettamento del paese era messo in conto ed anzi forse anche pianificato all’atto della brutale invasione della NATO cominciata nel marzo del 2011. Ciò che deve preoccupare adesso, sono le conseguenze che questa situazione avrà per i paesi vicini, in primis per l’Italia.

Per il nostro paese, vedere fallire un paese che costituiva un vero e proprio supermarket energetico a due passi dal giardino di casa, è una tragedia economica di proporzioni difficilmente immaginabili; forte degli antichi legami coloniali, Roma e Tripoli avevano relazioni privilegiate ed invidiate dal resto del mondo, che garantiva al nostro paese il 40% dell’approvvigionamento petrolifero e del gas, nonché anche investimenti di ogni tipo, come la costruzione fatta interamente da imprese italiane della super autostrada tra Tripoli e Bengasi. La caduta di Gheddafi, ha cancellato tutto; prima perché USA, Gran Bretagna e soprattutto la Francia, si sono insinuate di prepotenza nello scacchiere libico, stringendo accordi con coloro che hanno abbandonato Gheddafi per stringere le mani piene di Dollari dei capi di governo occidentali, poi perché quella poca produzione rimasta nelle mani di aziende italiane, oggi è quasi impossibile continuarla per via dei problemi di sicurezza.

Gli impianti sono ripetutamente attaccati dalle milizie, spesso si deve ricorrere a mercenari per proteggere le strutture, una situazione quindi che potrebbe far crollare già quest’inverno gran parte dell’approvvigionamento energico per l’Italia. Ma quello di gas e petrolio non è l’unico problema per il nostro paese. Infatti, dalla Libia arriva circa il 96% dei migranti che sbarcano sulle coste siciliane; una Libia fuori controllo, vuol dire via libera per i tanti criminali trafficanti di esseri umani, i quali hanno il controllo dei tanti porti grandi e piccoli della costa libica, specie in Tripolitania.

Di fatto, anche volendo, il governo italiano a differenza di prima non ha una controparte con cui poter discutere circa il problema dell’immigrazione; mentre con la Tunisia sono stati stretti accordi che hanno quasi azzerato le partenze da questo paese, a Tripoli non esiste un governo capace di mettere mano alla questione e poter garantire la sicurezza nel Mediterraneo.

Sembrano lontani i giorni in cui la Libia poteva vantare uno dei PIL più alti dell’Africa ed uno standard di vita superiore a molti paesi vicini; i libici godevano di uno stato sociale di prim’ordine, così come di diritti sociali oggi utopistici in molte parti d’Europa, come per esempio il diritto ad una casa assegnata dallo Stato quando una coppia decideva di sposarsi. Tutto questo non c’è più, non c’è più forse nemmeno la Libia, frantumata dallo spirito neo colonialista e prepotente di un occidente sempre più miope di fronte ai cambiamenti dello scenario internazionale. E in tutto questo, da sottolineare l’atteggiamento suicida di Roma, che contro i propri interessi è andata lei stessa a bombardare un paese che garantiva introiti e rifornimenti energetici.

Adesso quello stesso occidente però, tanto spavaldo nel marzo del 2011, oggi non è in grado di prendere il controllo della situazione; l’assassinio dell’ambasciatore americano a Bengasi nel 2012, era solo un avvertimento: oggi tutti i diplomatici di quei paesi che hanno bombardato la Libia, scappano dal paese. Una fuga da vigliacchi, di chi si gira subito dall’altra parte dopo aver causato un danno irreparabile per un popolo che adesso si ritrova senza uno Stato e con una grave situazione umanitaria.

Prima le bombe, poi la fuga: ecco l’occidente di oggi, quell’occidente che si professa esportatore di democrazia, che in nome di essa provoca guerre, infligge sanzioni e che poi, dopo aver perso di mano la situazione, scappa via lavandosene le mani. Ma dalla Libia il peggio deve ancora venire: lo scenario è imprevedibile e fuori controllo, ogni città del paese è in mano ad una fazione diversa, con gli islamisti pronti a replicare a pochi chilometri dalle nostre coste l’atroce esperimento che l’ISIL sta effettuando tra Iraq e Siria.

L’effetto boomerang del siluramento di Gheddafi, ancora deve dimostrare la sua massima potenza distruttiva: ed a piangere saranno gli stati del Mediterraneo confinanti alla Libia, con in testa un’Italia sempre più incapace di salvaguardare i suoi stessi interessi.

mercoledì 30 luglio 2014

Quando Bukowski invitava a “non parlare così forte e a leggere Cèline”...

bukowskiHo iniziato a leggere Bukowski in prima liceo, alla fine degli anni ’90 – lo scrittore era venuto a mancare pochi anni prima, nel 1994. Un qualche compagno di classe aveva sentito parlare di Post Officee l’aveva preso in prestito in biblioteca: la versione originale era del 1971 e quella che era arrivata a noi era una ristampa economica, che ci siamo passati di mano in mano, leggendola con avidità (va da sè che nel caso in cui la copia in questione non sia mai stata restituita, ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale).
Quando il programma di italiano prevedeva il Dolce Stil Novo, Petrarca e Poliziano, Bukowski era inaspettato, rivoluzionario. Ne parlavamo all’intervallo; quando la ricreazione era finita se ne discuteva nei gabinetti – perché i bagni dei licei italiani come è noto ne sono il salotto letterario e la tribuna politica. Bukowski raccontava addirittura Los Angeles quando non c’era nemmeno Ryan Air a portarci a Londra al prezzo di un paio di jeans nuovi; ne raccontava il degrado, la rabbia e lo faceva con disprezzo o ironia, e noi lo capivamo tutto o così ci sembrava: a sedici anni gli scrittori ci parlano in privato e i libri ci cambiano la vita. E poi: che grammatica, che stile, che punteggiatura! Niente rime, niente metafore, poche lettere maiuscole e molte imprecazioni: Post Office non fu per me che l’inizio di un amore duraturo per l’opera di un autore complesso e prolifico.
Bukowski ha condiviso con i lettori un’infanzia dolorosa (Panino al prosciutto) e una profonda vena poetica; l’alcolismo e la solitudine; il cinismo e la tragica inutilità di molti lavori dell’età contemporanea, la spaventosa chimera della possibilità di carriera. Ci ha messo in guardia contro il cosiddetto successo, ha espresso riserve sulle trappole del posto fisso e l’alienazione delle masse: è stato l’antitesi della gauche caviar e dei benpensanti. In povertà, combattendo per farsi pubblicare, scriveva in una Los Angeles agli antipodi dell’American dream con rabbia e disgusto per alcuni aspetti della civiltà contemporanea (prima di tutto il mercato del lavoro), sentimenti vivi più che mai nell’Occidente riemerso dalla crisi dei mutui subprime.
A vent’anni dalla morte, una biografia celebra la vita e l’opera di Bukowski: Tutti dicono che sono un bastardo (edizioni Bietti), di Roberto Alfatti Appetiti.
Il libro prende in considerazione molti aspetti della vita dello scrittore: dalla travagliata storia familiare al lavoro da postino alle prime pubblicazioni, dal (difficile) rapporto con le donne e il femminismo a quello con la corrente letteraria beat (altrettanto difficile). Ne emerge un ritratto molto umano, lontano dai clichés e non privo di contraddizioni: nel mondo dell’editoria, Bukowski sembra incapace di mantenere rapporti amichevoli anche con quei pochi che lo appoggiano quando non apertamente ingrato e sfacciato, in linea con il titolo del libro. Anche se le donne vanno e vengono (ma per di più vanno), un amore immenso ha caratterizzato la vita di Bukowski – l’amore per la letteratura: profondo e totalizzante, pare essere un sentimento ideale che ammette pochissimi eletti e non risparmia mostri sacri (sì a Dostojevskij, no a Gogol’; sì a Fante, no a Shakespeare).
La visione politica di Bukowski è controversa e radicale, un riflesso della vita e del carattere dello scrittore: Alfatti Appetiti ne fa un resoconto dettagliato, dedicandogli un capitolo apposito.
Essere di origine tedesca nell’America del dopoguerra non era stato facile, nè lo era stato sopravvivere ad un padre dispotico e violento e ad una forte forma di acne giovanile: l’adolescenza di Bukowski pone le premesse per un’esistenza ai margini, da outsider. In questo contesto, una volta all’università, si avvicinerà a gruppi filo nazisti, naturalmente più a suo agio fra i reietti che fra i vincenti. Non legge il Mein Kampf nè si cura di Hitler ma ammira gli eroi di guerra tedeschi e, soprattutto, vuole provocare. Anche più avanti, presto stanco del fanatismo dei nazisti e lasciata l’università, ci tiene a mantenere la fama guadagnata: «una sera venne uno studente a casa mia e dopo alcune birre mi disse: “il mio prof dice che sei un nazista e che venderesti tua madre per cinque centesimi”. “Non è vero, mia madre è morta”». Di certo detesta quanto percepisce come ipocrisia di sinistra e non ha simpatie per il comunismo, ma il credo politico ed umano di Bukowski non è semplicemente un’ideologia: è il disgusto profondo per il politicamente corretto, è l’opposizione alla dittatura del pensiero prevalente, ad ogni costo. Meglio ancora se si può essere additato come nazista, beffandosi dei benpensanti.
Lontanissimo da queste provocazioni, oggi Bukowski è per di più un nome a piè pagina per giustificare aforismi di dubbia provenienza da condividere su Facebook. Una ricerca su Google per citazioni di e su Bukowski dà circa 165,000 risultati – davvero mainstream per un autore che si era trovato a suo agio soltanto con gli emarginati: una biografia sincera e senza reticenze, che raccontasse un Bukowski appassionato, difficile, a volte anche bastardo era necessaria.
Irriverente, irrispettoso, disincantato e ironico, non risparmiava le opinioni – alla fine degli anni ’80, intervistato da una giornalista italiana che gli chiede ovviamente «che cosa vorrebbe dire al pubblico italiano?», risponde: «di non parlare così forte e di leggere Cèline». (da Rivista politica)

martedì 29 luglio 2014

Italia al collasso mentre Renzi gioca a Risiko con il Senato...


di Augusto Grandi (Barbadillo)


Il burattino e il suo bugiardo cronico continuano a raccontare che la crisi è alle spalle, che gli 80 euro di mancia ad una parte dei lavoratori hanno consentito il ritorno alla crescita e che tutto va (abbastanza) bene.L’Italia, quella vera, è invece alle prese con una frenata delle esportazioni che rappresentavano l’unico fattore positivo. Mentre l’occupazione non aumenta, i saldi si rivelano un flop, il turismo non decolla, i consumi frenano, le aziende chiudono.

Ma il problema del Paese, a sentire la renzina Boschi, è la riforma del Senato. Non frega niente a nessuno, se non ai senatori, ma il parlamento si occupa solo di questo. Il lavoro? Se ne riparlerà in autunno, forse. D’altronde il burattino, su questo fronte, è perfettamente in linea con i suoi predecessori “tecnici”. Di fronte all’ondata di suicidi per disperazione economica, grazie ai demenziali provvedimenti del grigiocrate Monti e di nostra signora degli esodati, il “signor Fornero” in arte Deaglio aveva sostenuto che si poteva ben accettare qualche sacrificio umano pur di far ripartire la barca Italia. Tutti morti inutili,visto che la barca continua ad affondare. D’altronde questi sono gli economisti che non fanno grande l’università italiana. Ma il burattino ed il bugiardo cronico proseguono sulla medesima scia. Si indignano se i custodi di Pompei chiudono gli scavi per assemblea, ma si dimenticano di dire che i lavoratori non chiedevano aumenti, ma volevano semplicemente essere pagati per i mesi precedenti.

E si indignano, il burattino ed il bugiardo cronico, perché gli esuberi di Alitalia non vogliono perdere il lavoro. E che sarà mai? Mille da sacrificare per salvarne 15mila. La logica dei numeri. Peccato che i mille siano persone, con famiglie da mantenere. Eliminiamo anche mogli e figli, oppure mariti e nonni. Ce lo chiede l’Europa, ce lo chiedono gli Emirati. Si eliminano le persone come se fossero foglie secche. E poi, da grandi economisti alla Deaglio, ci si stupisce se i consumi interni non ripartono. Ma come, vi abbiamo dato 80 euro e vi abbiamo aumentato la Tasi di 200 euro, e voi vigliacchi non spendete? Ma allora siete antirenziani. Grazie alla Fornero non avete più garanzie sul vostro futuro da anziani e invece di suicidarvi per il bene del burattino e dell’Europa preferite vivere tagliando i consumi? Vigliacchi.

Come si fa a trasformare questa Italia in un Paese disperato, di schiavi a buon mercato e senza speranza, se gli esodati non si suicidano in massa, se non utilizzano gli ultimi risparmi per dar ragione al burattino ed al bugiardo cronico?

Già stanno riuscendo a far fuggire gli studenti migliori, per evitare che l’Italia abbia ancora troppe competenze. Il prossimo passo dovrà essere più deciso: nuove tasse, nuove stangate, 20 miliardi da recuperare e la grande opportunità di uccidere definitivamente ogni illusione di ripresa.

domenica 27 luglio 2014

GIORNATA DI LOTTA, MILITANZA E CULTURA A CASTELFRANCO DI SOTTO...






Anche se per la seconda volta in due mesi l'amministrazione di Castelfranco di Sotto targata PD, rifiuta di concederci spazi pubblici per eventi culturali, ieri abbiamo fatto ugualmente sentire la nostra voce, come meglio credevamo, in modo netto e deciso.
Tanta gente, nonostante il caldo e il periodo di vacanze anche alla conferenza con Maurizio Rossi che, in modo egregio, ci ha illustrato la figura del Barone Julius Evola nel quarantesimo anniversario dalla sua scomparsa.
Perchè la Libertà non si mendica, si conquista!

mercoledì 23 luglio 2014

MONTEPULCIANO AZIONE PRO PALESTINA: PIOVONO BOMBE SU GAZA!



Ciò che è accaduto in queste settimane nella striscia di Gaza altro non è che la diretta conseguenza della politica espropriativa israeliana dei territori palestinesi,che ormai va avanti da più di sessant'anni. A seguito del ritrovamento dei corpi di 3 ragazzi israeliani,dei quali per inciso nessuno ha rivendicato l'omicidio,il governo israeliano si è sentito autorizzato a dare il via ad un attacco che giorno dopo giorno sta facendo centinaia di morti tra i civili palestinesi.Quotidianamente una pioggia di bombe si abbatte su Gaza city, difesa con qualche vecchio Kalašnikov,un pugno di qassam e delle fionde,l'Europa,gli Usa e l'Onu guardano praticamente in silenzio il genocidio palestinese.Tutti chiedono il cessate il fuoco ma nessuno decide di prendere i dovuti provvedimenti per ottenerlo, eppure in Iraq ed in Afghanistan tutti corsero in un lampo ad "esportare la democrazia" senza essere chiamati in causa da nessuno.Sembra che l'Occidente non abbia fretta di adoperarsi per porre fine a questa mostruosa carneficina. I palestinesi non solo si sono visti depauperati delle proprie terre e delle proprie risorse fin dal 1947,ma sono condannati a morire inermi sotto le bombe di un nemico che strumentalizza la morte di 3 ragazzi per appagare le proprie mire espansionistiche.


 L'Italia che attualmente presiede il consiglio dell'Unione Europea da una parte ha lanciato qualche tiepido appello alla pace,ma dall'altra è uno dei principali esportatori di sistemi militari verso Israele. Anche in questo frangente gli esponenti del nostro governo non perdono occasione per coprirsi di ipocrisia parlando di pace e solidarietà,mentre non si azzardano ad interrompere i rifornimenti di tutti gli strumenti di morte che permettono agli israeliani di mettere a ferro e fuoco il Medio Oriente. Casaggì ribadisce come sempre la propria vicinanza al popolo palestinese falcidiato da un nemico che allarga i propri confini sul sangue della povera gente.

lunedì 21 luglio 2014

L’Entità Sionista, tanto per non dimenticarcene …


tratto da Ereticamente.net


Israele è un paese veramente unico al mondo, oltre a essere, va sans dire, "L'Unica-Democrazia-del-Medio-Oriente". Da solo totalizza una quantità talmente alta di "primati" da non avere eguali a livello planetario. Esso, infatti, fonda la sua presenza e "legittimità" sul suolo della Palestina unicamente sul passo biblico della Genesi (15,18-21), che recita: "In quel giorno il Signore strinse un'alleanza con Abramo: Alla tua discendenza io do questo paese, dal torrente d'Egitto fino al fiume grande, il fiume Eufrate: i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, gli Hittiti, i Perizziti, i Refaìm, gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei e i Gebusei.”

In pratica dall'Egitto fino all'Iraq, includendo Giordania, Siria, Libano, Arabia Saudita, Kuwayt e Turchia. Straordinario, vero? Quale altro "popolo" potrebbe mai rivendicare la sua "titolarità" su un dato territorio partendo da simili premesse "bibliche"? Ve lo immaginate un discendente degli antichi romani, ossia un italiota qualunque, reclamare i suoi titoli di proprietà su tutta l'Europa e sulle coste che lambiscono il Mediterraneo perché un tempo appartenevano a suoi supposti avi? Il tapino verrebbe liquidato con una sonora risata. O forse, più prosaicamente, gli verrebbe rifilato un bel TSO seduta stante. Ma agli ebrei sionisti nessuno si permette di ridere in faccia, figuriamoci. Del resto, essendo il "popolo eletto", possono permettersi questo e altro. Di seguito, una sommaria lista delle tante "unicità" di cui Israele può oggi fregiarsi:
  • Gli "israeliani non-ebrei" non possono comprare o affittare terra nell'entità sionista.
  • Le targhe palestinesi sono di colore diverso per distinguere gli ebrei dai non-ebrei.
  • Israele assegna l'85% dell'acqua agli ebrei e il 15% restante è diviso fra tutti i Palestinesi nei territori. Per esempio a Hebron, l'85% dell'acqua è convogliato a circa 400 coloni, mentre il 15% deve essere diviso tra 120.000 Palestinesi.
  • Gli USA danno ai sionisti 4,5 miliardi di dollari di aiuti ogni anno.
  • Gli aiuti che annualmente gli USA concedono a Israele sono maggiori di quelli che gli Stati Uniti assegnano all’intero continente africano.
  • Israele è l'unico paese del Medio Oriente che ha armi nucleari.
  • Israele è l'unico paese del Medio Oriente che rifiuta di firmare il trattato di non proliferazione nucleare.
  • Israele attualmente occupa i territori di una nazione sovrana (le alture del Golan in Siria) sfidando impunemente le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
  • Israele ha ordinato l’assassinio dei suoi nemici politici in altri paesi le famose 'operazioni chirurgiche'...
  • Gli ufficiali dell’Alto Comando delle forze israeliane hanno ammesso pubblicamente di giustiziare i prigionieri di guerra disarmati.
  • Israele rifiuta di perseguire i soldati che hanno riconosciuto e ammesso l'esecuzione dei prigionieri di guerra.
  • Israele confisca ordinariamente i depositi bancari, i commerci e la terra e rifiuta di pagare le compensazione a coloro che le subiscono.
  • Israele si oppone o ignora 73 risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
  • L'odierno Israele si estende su di un territorio sul quale esistevano oltre 400 villaggi palestinesi ora scomparsi.
  • Cinque primi ministri dell' Israele (Begin, Shamir, Rabin, Sharon e Netanyahu) hanno partecipato ad azioni terroristiche o altri attacchi contro civili, a massacri di donne e bambini, ad espulsioni forzate dei civili dai loro villaggi.
  • Il ministero degli Esteri israeliano, oltre all'impareggiabile azione di lobbying dell'AIPAC (American Israel Publican Affairs Committee) negli Stati Uniti, paga due ditte americane di pubbliche relazioni per promuovere Israele agli Americani.
  • Il governo di coalizione di Netanyahu include un partito xenofobo - Molodet - che sostiene l’espulsione di tutti i Palestinesi dai territori occupati.
  • Gli insediamenti illegali sono costantemente aumentati durante gli anni trascorsi dagli accordi di Oslo.
  • La costruzione di nuove colonie è più che raddoppiata durante il governo del 'moderato' Barak rispetto al tempo dell''estremista' Netanyahu, tornato in anni recenti al governo.
  • Israele ha dedicato un francobollo ad un uomo che ha attaccato un bus civile uccidendo diverse persone ed ha dedicato un monumento ad un fanatico colono - Baruch Goldestein - che nel 1996 uccise senza motivo più di 30 musulmani in preghiera.
  • Israele è l'unico paese al mondo in cui la tortura verso i prigionieri politici e detenuti è legale.
  • I rifugiati palestinesi compongono maggior parte della popolazione di rifugiati del mondo.
  • Nega sistematicamente il diritto di voto alla maggioranza palestinese, che altrimenti eleggerebbe il proprio Governo.
  • Ammette legalmente la tortura come metodo poliziesco e di coercizione, passando inosservato agli occhi di Amnesty International e di tutte le maggiori associazioni "umanitarie".
  • Occupa impropriamente ampi territori, fregandosene dei continui richiami da parte della Comunità Internazionale...
  • Inoltre Israele, nonostante la sua recentissima fondazione, (1948) è il Paese che ha collezionato il maggior numero di risoluzioni di condanna dell'ONU...


sabato 19 luglio 2014

“Mussolini alla vigilia della sua morte e l’Europa”: Pascal e il testamento del Duce...



2 Aprile 1945. Un’auto costeggia le rive del lago di Gardain una giornata in cui il sole primaverile annuncia il prossimo rigoglio della natura. Nell’auto Pierre Pascal, da poco tornato in Italia, che, immediatamente percepisce, osservando il paesaggio lacustre, la natura “doppia” che lo costituisce: “…Sono rimasto colpito nel notare che questo lago era doppio! Prima stretto e severo, poi calmo e senza limite. Sembra il simbolo della Vita e della Morte” (p. 58). Questo è un passo tratto da un libro da poco pubblicato dalla NovAntico editore, per la cura di Federico Prizzi. Si tratta del volume Mussolini alla vigilia della sua morte e l’Europa (per ordini: 335/5655208; euro 20,00), in cui Pierre Pascal raccolse nel 1948, per la casa editrice romana l’Arnia, l’ultima conversazione che egli ebbe con Mussolini a Villa Feltrinelli in quel lontano e tragico 2 Aprile. L’importanza storico-simbolica del testo era già stata colta da Sandro Giovannini, che decise di pubblicarlo a puntate sulla sua rivista Letteratura-Tradizione (una delle esperienze culturali più significative espresse dall’area non-confomussolonirmista negli ultimi decenni) tra il 2001 e il 2002, come egli stesso ricorda in una delle Appendici che impreziosiscono il testo.
Ecco, il brano citato è, in qualche modo, la chiave di volta dell’intero volume: la primavera che si mostra tra le verdi colline attornianti il lago assurge, nel racconto di Pascal, a simbolo ambiguo della coincidentia oppositorum che in quel momento epocale si manifestava nella storia e, più in particolare, nell’incontro che egli stava per avere con Mussolini. Pascal, entrando nei corridoi ombrosi della residenza del Duce, vide affiorare dagli strati più profondi del proprio essere, la luminosità immaginale evocata in lui dalla Sirmione di Catullo e dalla sua poesia. Accompagnata, però, da un’intuizione chiara e nitida, che l’autore trasmette al lettore in modo coinvolgente e partecipato: dalla certezza che quella primavera fosse una “primavera dei morti”. I nobili personaggi che attorniano in questo percorso della memoria Mussolini, dal ministro Fernando Mezzasoma, al conte Manzoni, appaiono all’attento e sensibile osservatore, manifestazioni esteriori di un mondo umbratile, di un mondo cosciente di essere ormai prossimo ad un’inevitabile fine.
Nonostante ciò le loro parole, i loro gesti, il loro atteggiamento, come quello dell’uomo per il quale stanno andando incontro ad un destino tragico, lasciano trapelare una pacatezza senza pari, una tranquilla e per questo virile accettazione della loro condizione esistenziale. Altro che anarchia del potere evocata da Pasolini nel suo “Le ultime ore di Salò”! I protagonisti del tramonto del fascismo italiano sono, in questo testo di Pascal, incarnazioni della visione Tragica del mondo, testimoni di quell’amor fati che Eschilo e Sofocle misero in scena, molti secoli prima, nel teatro di Dioniso sui declivi che conducono all’Acropoli di Atene. Fin dal primo momento dell’incontro e durante l’intera conversazione con il Duce, la Poesia si impadronisce della scena. Infatti, all’affermazione del francese che, sintetizzando la posizione di Aristotele, sostiene: “La Poesia è una cosa più seria della Storia” (p. 64), Mussolini ribatte: “Quando un popolo si avvede di essere maestro nelle sue concezioni dell’Arte e di superare in questo tutti gli altri popoli, gli uomini di questo popolo si guardano e si riconoscono tra loro…L’Arte resterà la parola dell’Italia” (p. 65). La creazione artistica, viene ribadito, è il luogo del darsi dell’ethos di un popolo. Mussolini è convito che, la sua azione ordinatrice, si sia manifestata nel richiamo alla romanità intesa come sistema di pensiero, capace di trasformare una nazione in Populus. Per questo, nonostante tutto, la fine imminente non può preoccuparlo. E’alla Poesia, ancora una volta, che viene demandato il compito della giustizia. Dante punì più significativamente di qualsiasi magistrato, con i suoi versi, i traditori e gli ingiusti. Mussolini e Pascal convengono nel dirsi convinti che presto un Poeta, voce del Populus, sarebbe tornato a cantare l’inevitabile e definitiva condanna dei reprobi.
Nel colloquio viene evocata la grande poesia di D’Annunzio, la figura esemplare di Maurras, uno dei maestri di Pascal, allora condannato all’ergastolo per collaborazionismo. In molti momenti del dialogo, il lettore può riconoscere la sensibilità del dittatore Mussolini nei confronti della natura, in particolare degli alberi, l’intenso amore paterno, che si manifesta in toni lirici nella rievocazione delle pagine del suo Parlo con Bruno. Un ritratto psicologico di Mussolini questo, che lo distanzia nettamente dalle caratteristiche spirituali connotanti l’uomo tirannico e desiderativo, magistralmente indicate da Platone. La descrizione del commiato avvenuto nell’ “Albergo dell’Altra Vita” (Villa Feltrinelli) è così descritto da Pascal: “(Mussolini) camminava come se fosse assolutamente solo. Dopo tre passi vidi il suo sguardo obliquo dardeggiare verso tutti noi. Voltò un poco la testa, mi guardò isolato dagli altri, sorrise e disparve…Per me egli spariva per sempre. Lo sapevo” (pp. 116-117). Qualche giorno dopo sarebbe stato assassinato. Una solitudine tragica ed orgogliosa, dunque, quella intuita dall’intellettuale francese. Ribadita nella conclusione, con le parole di Barbey d’Aurevilly: “Essere più grande del proprio tempo, in avanti o indietro, ma essere più in alto. Ecco tutto il problema e tutta la misura della superiorità” (p. 122), che indicano con chiarezza il dato esistenziale dell’uomo Mussolini di fronte alla morte e all’Europa per la quale aveva combattuto.
Le pagine di questo Mussolini… inducono una esegesi qualitativa, segnata dal cuore, dalla dimensione empatica, del Duce e dei drammatici giorni della “caduta degli dei” e questo è già un merito rilevante del testo che non può essere sottaciuto. Un ruolo altrettanto importante rivestano anche le Appendici che chiudono il libro e permettono al lettore di apprezzare un personaggio di grande spessore intellettuale e spirituale, quale Pierre Pascal. Discepolo di Maurras, cattolico convinto, grazie ad un lungo soggiorno in Giappone con la famiglia al seguito del padre, chimico di fama internazionale, fu affascinato dalla civiltà di quel paese tanto da diventare uno yamatologo di vaglia. Si occupò di poesia persiana, profittando della sua conoscenza di lingue antiche e moderne. Fu “Poeta d’Azione”, partecipò infatti alla guerra civile spagnola dalla parte franchista, fu in Marocco con i legionari schierati contro i ribelli del Rif e nella seconda guerra mondiale fu con la Repubblica di Vichy. Per la qualcosa fu costretto a raggiungere altri noti collaborazionisti nel castello di Sigmaringen. Visse per più di quarant’anni in Italia e durante il suo soggiorno strinse amicizia con D’annunzio e frequentò Julius Evola. Renato Del Ponte ricorda, in una delle Appendici, la collaborazione editoriale tra i due e la generosa attenzione con la quale Pascal seguì Evola nel 1974, nei mesi che precedettero la scomparsa del filosofo. Ne raccontò, inoltre, il funerale alpestre sulle pendici del Monte Rosa. In gioventù Pascal conobbe Guénon che lo introdusse allo studio delle Scienze Tradizionali. Come ricordano in Prefazione Prizzi e, nell’Appendice Immanenza, Trascendenza e concetto dell’Assoluto nella poetica di P. Pascal, Gabriella Chioma,Pascal tradusse in francese il libro La Voie de l’Eternité del monaco Hanayama, nel quale era ricordato l’eroico comportamento del generale giapponese Hideji Tojo durante il processo di Tokio. L’imperatore fece sapere a Pascal che se avesse voluto, alla propria morte, avrebbe potuto essere sepolto nella cripta del tempio di Kanazawa, eretto in onore degli eroi di guerra nipponici.
Fu autore di splendidi e conchiusi haiku. Qui vogliamo ricordarne uno che sintetizza il suo sentire: “Rugiada dai mille occhi/di cui ciascuno mira i cieli/Essere un Dio”. Quest’uomo morì povero e solo a Roma nel 1990.
Il libro che abbiamo brevemente presentato, consente al lettore di recuperare il suo inestimabile lascito spirituale. E’un libro che ci fa leggere il passato con altri occhi, facendoci indugiare in riflessione sulla coappartenenza di tempo ed eternità.

venerdì 18 luglio 2014

JULIUS EVOLA: RIVOLUZIONARIO O CONSERVATORE?


A quarant'anni dalla morte del Barone Julius Evola, le Comunità militanti di Iniziativa di Base e Ronin Pisa, insieme a Fratelli d'Italia Castelfranco di Sotto, decidono di rendergli omaggio. Julius Evola, filosofo della Tradizione, pittore, mago, esoterista. Una figura molto spesso trascurata, soprattutto dalla cosiddetta "cultura ufficiale", in nome del politicamente corretto e del pensiero unico dominante.
Una dei maggiori intellettuali dell'area nazionalpopolare, Maurizio Rossi, ci illustrerà la figura di uno dei pensatori più importanti del '900.

giovedì 17 luglio 2014

Il conformismo dell’anticonformista...


di Marco Acernese (L'Intellettuale Dissidente)

Chi bela fuori dal gregge insomma, bela comunque.


Oggi il conformismo ha il piercing, e i suoi adepti sono chiamati anticonformisti. Probabilmente Gaber ci avrebbe scherzato su; quel che è certo è che il circo dei finti emancipati, con tanto di fachiri, pagliacci e donne cannone, dobbiamo sorbircelo noi. E guai a offendere. Soprattutto se il soggetto in questione è omosessuale. In tal caso si rischia di passare un brutto quarto d’ora, perché alcune categorie sono, per legge, come i morti: nihil nisi bonum. E poi, nell’epoca del relativismo etico, tutto è, appunto, relativo. Relativo, per la precisione, a ciò che impartisce l’industria monopolistica del marketing, politico e commerciale.
Al tipico signore americano pacioccone e sedentario fu fatto credere, negli anni ’50, che, per essere virile quanto il cowboy della Marlboro, dovesse abbandonarsi alla mollezza del fumo; alla moglie di detto signore fu indicata la sigaretta come unica via di emancipazione. Ai figli della coppia fu poi spiegato che per diventare adulti avrebbero dovuto anch’essi prendere a fumare, o quantomeno a bere. Giammai a studiare. Sembra di vedere uno di quei moderni quadretti familiari affissi su Facebook in bella vista, eppure il raggiro collettivo che sfrutta la necessità di accettazione sociale, oggi veicolato dal miraggio velleitario di distinzione dalla massa, va avanti da decenni. Chi bela fuori dal gregge insomma, bela comunque. Per cui non può che annichilirsi all’interno di un altro insieme di pecore, magari ancora più vasto e rumoroso di quello di partenza. L’illusione di pensare fuori dal coro è però dolce e persuasiva. E’ adatta, cioè, a imbonire qualche credulone; e siccome i creduloni sono tanti, nascono le mode.
Il conformismo ha il piercing, dicevamo. Ce l’hanno, in realtà, anche i membri di numerose tribù che vivono e prosperano a contatto con la natura. A differenza degli appartenenti a tali agglomerati umani però, l’uomo occidentale ha dovuto ingegnarsi per sopravvivere a secoli di guerre e sovraffollamento. Sarebbe stato auspicabile quindi che ciò avesse condotto a un progresso non solo tecnologico, ma anche culturale. E tuttavia l’oscena arte delle botteghe dell’orrore è esercitata con crescente frequenza e discutibile maestria, per la gioia di una pletora d’ignavi asserviti al credo del taglia e cuci corporale. Scavare nella propria carne al fine di applicarvi un corpo estraneo diviene familiare. Piercing e tatuaggi fanno da apripista alle applicazioni tecnologiche biocompatibili prossime venture sul mercato. Ciò che un tempo evocava incubi grotteschi degni di “eXistenZ” di David Cronenberg, oggi, filtrato da metallo reso estetico e da evocative quanto banali citazioni marchiate con il fuoco, desta giubilo e desiderio. Induce all’incirca la stessa gioia che suscita l’andare a un concerto. Peccato però che anche in questo caso qualche artista, per quanto valido, nel mare dell’anticonformismo conformista, ceda alla tentazione di sguazzarci. Franco Battiato si esibirà tra qualche giorno a Roma. Il prezzo dei biglietti va dai trenta agli ottanta euro. L’intero ricavato sarà devoluto in meditazione.

martedì 15 luglio 2014

FIRENZE: CASAGGì PER LA PALESTINA!


FIRENZE: CASAGGì ESPONE STRISCIONE PER LA PALESTINA A POCHI PASSI DAL VERTICE DEI MINISTRI EUROPEI PER LO SVILUPPO. LA GIOVANE DESTRA CHIEDE UN INTERVENTO DELL’EUROPA PER FERMARE GLI ATTACCHI SU GAZA. 

Firenze, 15 luglio 2014

A pochi passi dal vertice dei ministri per lo sviluppo dell’Ue, in atto a Firenze in questi giorni, alcuni militanti del “centro sociale di destra” Casaggì Firenze, assieme ad alcuni esponenti di Fratelli d’Italia e Gioventù Nazionale, hanno esposto uno striscione sul Ponte Vecchio in solidarietà con il popolo palestinese e con la sua lotta per l’autodeterminazione. 

“Quello in atto a Gaza – dichiarano da Casaggì – è un vero e proprio genocidio ai danni del popolo palestinese: centinaia di morti, utilizzo di armi vietate dalle convenzioni internazionali, raid aerei sui civili, bombardamenti a tappeto su ospedali e aree abitate. Quella in atto non è una guerra, poiché il popolo palestinese non possiede un’aviazione o una flotta: è un massacro attuato con scrupolosa precisione ai danni di un popolo già costretto a subire le ingerenze israeliane sul proprio territorio e nella propria quotidianità. Quella in atto non è neanche una strategia difensiva, vista l’inefficacia degli attacchi portati avanti dalle frange armate di Hamas, ma una vera e propria offensiva in piena regola, forte di una superiorità di mezzi e di armi senza precedenti”. 




“La giovane destra fiorentina – proseguono da Casaggì – lancia un appello ai ministri europei presenti a Firenze in questi giorni affinchè l’Unione Europea faccia quanto possibile per far cessare i bombardamenti israeliani su Gaza e sui territori palestinesi”.

lunedì 14 luglio 2014

L’Italia finita...

di Fabrizio Fiorini (Rinascita.eu)

Con tutto il rispetto dovuto alla figura del Presidente della Repubblica, per imprescindibile senso civico nonché ai sensi dell’art. 278 del codice penale, nonché per la riverenza dovuta alla sua carica istituzionale e costituzionale che – dice la stessa Carta – dovrebbe avere come caratteristica primaria quella di “rappresentare l’unità nazionale”, quindi tutte le componenti sociali, anche i proscritti, gli esclusi, i diseredati, è tuttavia d’obbligo contestare all’ottuagenario Capo dello Stato una qualche lentezza nelle sue constatazioni, una vagamente scarsa avvedutezza nella rilevazione dei fenomeni sociali, politici ed economici che riguardano non già l’ovattato mondo dei mercati finanziari, bensì la vita e spesso, purtroppo, la mera sopravvivenza di milioni di connazionali.
Nel corso della recente visita nella Venezia Giulia, il presidente ha affermato, lapidario: “se i giovani non trovano lavoro, l’Italia è finita”. E se ne accorge ora, signor Presidente? Lei è nella politica e nelle istituzioni da oltre sessant’anni e se ne accorge ora? Non potrà dire anche lei: “eh, ma è la crisi”; non è stato un fenomeno istantaneo, che uno si sveglia la mattina e “c’è la crisi”. Non c’è stata una guerra lampo, non hanno bombardato le fabbriche, non hanno chiuso le università e le scuole, non hanno spruzzato il diserbante sui campi e avvelenato i pozzi da un giorno all’altro. L’Italia, signor Presidente, è finita da un bel po’. Non è facendo assumere un migliaio di giovani al call-center o all’Ikea che si risolve tutto.
A voler essere pignoli, Eccellenza, l’Italia è già “finita” centinaia di volte da quando Lei abita le stanze del potere. E’ finita, negli ultimi anni, ogni volta che un suo compatriota si è messa la corda al collo perché non aveva più di che sfamare la famiglia. E’ finita ogni volta che un governo ha preso denaro in prestito da una banca centrale chiedendolo indietro, con un sistema fiscale predatorio, ai propri cittadini. E’ finita nel 2003, quando è stato dato un colpo mortale ai diritti dei lavoratori gettandoli in pasto a ogni sorta di sfruttatori. E’ finita ogni volta che si è deciso di mantenere un immigrato clandestino piuttosto che aiutare un connazionale, perché così volevano la Caritas, Confindustria e i salotti della “sinistra”.
E’ finita, l’Italia, nel 2002, quando abbiamo adottato la “moneta unica”; ed è finita nel 1992, quando abbiamo delegato alla Banca centrale il potere di decidere il tasso d’interesse con cui ci deve essere prestato il denaro; ed è finita nel 1981, quando l’ultimo residuale potere del ministero del Tesoro sulla Banca è stato cassato per legge. E’ finita ogni volta che la penna di un politicante ha servilmente firmato il trattato di Schengen, quello di Maastricht, il Patto di stabilità, il Fiscal compact.
E’ finita, signor Presidente, ogni volta che un nostro soldato è stato mandato a morire per guerre d’aggressione al seguito degli americani; ogni volta che è stato leso l’onore dei nostri fanti, dei nostri marinai, dei nostri paracadutisti, dei nostri avieri costretti a uccidere innocenti iracheni, afghani, serbi.
L’Italia non rischia di finire nel 2014, perché Ella si è accorto che il 40% dei giovani non ha lavoro. E’ finita negli anni Novanta, quando avete detto “privatizziamo tutto” e tutti saremo più ricchi. Quando avete dismesso l’industria dello Stato, quando avete ucciso l’agricoltura, quando avete delegato a una cricca di eurocrati il potere di decidere anche come schiacciare l’uva e come tagliare il grano.
L’Italia è finita nel bagagliaio della R4 in cui è morto Aldo Moro, sulle spiagge della Tunisia in cui è morto Craxi, colpevoli di aver timidamente proposto modelli di sviluppo “non allineati” a questa povera Repubblica. E’ finita sull’aereo di Enrico Mattei. E’ finita a piazza Fontana, a Ustica, sul treno Italicus, alla stazione di Bologna, quando i poteri d’oltreoceano decisero di mantenere un “ordine politico” cercando di minare l’ordine pubblico.
E’ finita, questa povera Italia, negli anni sessanta e negli anni settanta, quando le forze sane del Paese furono fatte scannare nelle piazze in nome di un “antifascismo” e di un “anticomunismo” da operetta, in una guerra di artefatti e velenosi “opposti estremismi”. E’ finita quando ci siamo inchinati alla Nato, all’Unione Europea, è finita ogni volta che una bandiera a stelle e strisce è stata piantata su una delle oltre cento basi militari che occupano il Paese da settant’anni a questa parte.
E’ finita ogni volta che viene stroncata una voce libera, ogni volta che un concittadino finisce in carcere per reati d’opinione, ogni volta che viene applicata la censura sul libero pensiero.
Qualcuno, Eccellenza, non cade più nell’imbroglio. L’Italia non rischia affatto di finire: questa Italia, la vostra Italia, è già finita. E’ finita nel 1945, quando una buona parte della Sua generazione, in intelligenza col nemico, perse la guerra e la consegnò, da Lampedusa al Brennero e unitamente al destino di milioni di cittadini, in mano al potere apolide della finanza, alla dittatura atlantica del capitalismo selvaggio, alla tirannia del pensiero unico, al magma indistinto dell’omologazione, al mesto destino della perdita di ogni identità.
Alla nostra generazione invece, e a quelle che verranno, il compito di mutarne le sorti, di raddrizzarne la schiena, di svegliarne la coscienza. Ad majora.     

mercoledì 9 luglio 2014

Il mondo deve far cambiare politica a Israele...



di Daniele Biella - Ilan Pappe


Intervista allo storico israeliano, autore del saggio 'La pulizia etnica della Palestina', che ha suscitato risonanza mondiale e aspri dibattiti in patria. "Quale pace? Quella in cui lo Stato ebraico accetti le responsabilità per le proprie azioni sbagliate, oltre a incolpare Hamas per l'uccisione dei giovani coloni". Intanto la violenza nei Territori degenera, ucciso un 16enne palestinese




L’ultima notizia è agghiacciante, se confermato il movente. Un 16enne palestinese è stato rapito ieri sera nei pressi del campo profughi di Shufat, alle porte di Gerusalemme, e il suo corpo senza vita è stato ritrovato, brutalizzato e bruciato, questa mattina: i primi sospetti sono su una macchina (ripresa dalle telecamere) che testimoni attribuiscono a coloni israeliani, ma che altri ricondurrebbero a una faida tra famiglie: in queste ore nei pressi del campo ma non solo è in atto una guerriglia urbana. A 66 lunghissimi anni dall’inizio del conflitto israelo-palestinese, la barbarie sta prendendo il sopravvento. Quella stessa barbarie che ha portato ignoti (nonostante il premier israeliano Netanhyahu accusi Hamas, per ora non c’è alcuna prova schiacciante in merito) a rapire e a uccidere vicino a una colonia tre giovani israeliani, ora potrebbe fondare sull’occhio per occhio la propria vendetta, in un Israele sgomento, con decine di migliaia di persone che hanno partecipato ai funerali dei ragazzi, ma preda di un’ira (ieri sera nelle vie di Gerusalemme c’è mancato poco per una vera e propria ‘caccia al palestinese’) che può far precipitare ancora di più una situazione già disperata e fonte di enormi sofferenze in entrambi i lati del conflitto. Dopo le interviste a Janiki Cingoli e al volontario dell’Operazione Colomba, Vita.it ha raggiunto Ilan Pappe, uno degli storici israeliani più noti e discussi per via del suo impegno politico nella sinistra d’Israele e per avere scritto uno dei libri più letti e venduti al mondo sul tema, ‘La pulizia etnica della Palestina’. Lo scenario che delinea Pappe, oggi professore presso l’università di Exeter, in Inghilterra, è quello di due paesi, due popolazione, appese come non mai a un filo della Storia sempre più sottile, quasi invisibile.

La situazione, dopo la scoperta dei corpi dei ragazzi israeliani, sta sfuggendo di mano a tutti e si teme l’azione vendicativa, incontrollata, dei coloni. Siamo a un punto di non ritorno?

Il ritrovamento dei corpi senza vita può essere letta come un motivo in più per il governo di Israele per accelerare una strategia che sta portando avanti da molto tempo, nel tentativo principale di indebolire Hamas e annettere l’Area C (il territorio palestinese sotto controllo militare e civile israeliano) al proprio Stato. Questo sarebbe stato fatto altrimenti in modo più lento, ma la direzione è stata chiara fin dall’inizio.

Cosa può essere fatto per non lasciare che la violenza dilaghi?

Il nocciolo della questione è sempre lo stesso, ovvero quale pace vogliamo come soluzione al conflitto israelo-palestinese. Bisogna liberarsi dal paradigma di una pace basata sulla two states solution (la soluzione di due Stati divisi, quella indicata anche da Barack Obama, ndr) e concentrarsi sul vero problema: l’infrastruttura ideologica dello Stato ebraico. Se continuiamo a parlare di soluzione dei due Stati, incolpiamo Hamas per la violenza e non accettiamo che anche Israele abbia responsabilità per le proprie politiche criminali, la violenza è destinata ad andare al di là di ogni controllo.

Come vive la popolazione di Israele quanto successo? Segue il governo che persegue una “forte risposta” o non si sente del tutto coinvolta?

Molti israeliani leggono il tragico evento fuori dal contesto: non interessa loro, o non sanno, che almeno cinque giovani palestinesi sono morti nell’ultimo mese, da quando i giovani erano stati rapiti, o che la violenza verso di loro è il risultato della politica del proprio governo, non interessato alla pace e aderente all’ideologia sionista. La popolazione vuole una risposta armata sempre più forte e l’esercito è pronto a dargliela, con il risultato che una parte della politica può reagire in modo molto duro verso i palestinesi avendo il completo supporto della gente.

Qual è il ruolo del movimento di Hamas in tutto questo?

Hamas non era direttamente coinvolto nel rapimento, ma appoggia i rapimenti di soldati o coloni come parte della propria battaglia armata contro il sionismo.

Questi fatti accadono a meno di un mese di distanza dal primo accordo politico della propria storia tra Hamas e il principale partito, Al Fatah, al potere in Cisgiordania. Mera coincidenza?

Probabilmente no. Forse il rapimento è stata un’iniziativa di un gruppo locale di simpatizzanti di Hamas insoddisfatti dall’unità con Fatah, ma può darsi che sia stato programmato anche prima dell’accordo. Quello che è chiaro ora è che Israele userà l’evento per contrastare il nuovo governo di unità nazionale palestinese.

Quali azioni ci si può aspettare dalla comunità internazionale per migliorare la situazione?

Se la comunità internazionale continua a garantire a Israele l’immunità sotto l’ombrello del cosiddetto ‘processo di pace’, questo ciclo di violenza non smetterà.

Pensa che siamo alle porte della Terza Intifada?

Ritengo che i fattori che potrebbero portare a un’eventuale terza sollevazione popolare si sono già attivati da tempo, con o senza l’uccisione dei ragazzi israeliani. Ovvero, potrebbe concorrere al suo scoppio nel futuro, ma ne sarà la causa scatenante.

Quale sarà il risultato degli ulteriori bombardamenti di queste ore su Gaza?

Una maggior determinazione da parte di Hamas a continuare la sua battaglia. Inoltre, maggiori sofferenze per i palestinesi, e l’allontanamento di una soluzione per noi israeliani. L’oppressione, la povertà, la disoccupazione e la sensazione di vivere in una prigione a cielo aperto è il retroterra per ogni resistenza palestinese, violenta o nonviolenta. E continuerà finché il mondo con costringerà Israele a cambiare la propria strategia politica.

sabato 5 luglio 2014

La mistificazione egualitaria...



di Enrico Marino (EreticaMente.net)

Viviamo nell'epoca della globalizzazione tecnico-economica che rende il mondo un immenso mare, un'immensa superficie liscia ed omogenea, sempre uguale a se stessa, dove l'omologazione dell'umanità corrisponde a un grande mercato composto da consumatori integrali, cioè da uomini tutti uguali, individui massificati alla maniera dell'american way of life, vestiti tutti allo stesso modo, con gli stessi desideri, con le stesse convinzioni, con la stessa lingua neo-imperiale, l'inglese, frequentatori del centro commerciale, incollati alla tv o ad uno schermo del computer, dimentichi della trascendenza, che conducono una vita sessuale libera da ogni condizionamento, che si divertono tutti allo stesso modo (discoteche, concerti rock e pop, karaoke, ecc.). 

Questo processo ha avuto un potentissima accelerazione già dagli anni Sessanta del XX secolo, quando la società dei consumi non solo ha cominciato a produrre in serie oggetti tutti nuovi e uguali per uomini uguali perché massificati (cioè omologati alle mode, al vestiario, alla musica di provenienza anglosassone), ma ha contribuito alla diffusione di quel materialismo e di quell'edonismo di massa (quasi sempre legati a quelle stesse mode) che hanno rafforzato ed esasperato l'individualismo (l'altra faccia della massificazione) e desacralizzato le masse ben più a fondo di quanto, contemporaneamente ma con altri metodi più rozzi, non riuscisse a fare l’ateismo sovietico, apertamente ostile alla religione.

Le giovani generazioni occidentali degli anni Sessanta e Settanta, cresciute col nuovo benessere e nel suo culto, hanno quindi sposato quel Sessantotto-pensiero che è stato la principale causa culturale della crisi ideale che stiamo vivendo (la causa materiale, occorre ribadirlo, è l'onnipresenza e l'onnipotenza della merce e del denaro). 

I sessantottini hanno lavorato in perfetta “falsa coscienza” per il capitale globale, che a parole dicevano di voler combattere. Dicevano, infatti, di voler abbattere il capitale, ma non ci sono riusciti. In compenso le loro idee hanno conquistato quelle stesse élites ultracapitaliste, quindi profondamente e integralmente materialiste, che erano per natura predisposte ad abbracciare quell'ideologia egualitaria riveduta e corretta, emendata cioè della sua carica economicamente sovversiva, nel momento in cui essa non mirava più all'abolizione della proprietà privata. 

Le epoche dove il primato è del denaro, sono anche quelle nella quali imperversa la peggiore febbre egualitarista. 

Tanto più allorché essa rivendichi, come nel caso del femminismo e dell'immigrazionismo, “diritti” che permettano di calmierare stipendi e salari mantenendo invariato il flusso delle merci e dei consumi. Infatti, il lavoro femminile generalizzato, incentivato come momento di emancipazione e necessitato dalla spinta al consumo, ha nuociuto in molti casi alla stabilità famigliare e alla natalità, ma ha contribuito alla crescita economica (due stipendi più bassi al posto di uno più alto, a capacità di consumo invariato o superiore), che è il primo comandamento del monoteismo del mercato; così il numero sempre maggiore di immigrati non sindacalizzati, presenti sul suolo europeo e disposti a lavorare per salari bassi, ha consentito di mantenere sotto controllo o addirittura deprimere il costo del lavoro. 

Se gli interessi economici costituiscono il fine del nuovo individualismo egualitario, i mezzi per conseguirlo non hanno tralasciato nulla di intentato nell’attacco dissacratore avverso i principi della comunità naturale e della società tradizionale, indicate come un coacervo di oscurantismo e repressione, in opposizione alle teorie formulate dal pensiero relativista e radicale, figlio degenere e pervertito della vecchia eredità illuminista e positivista. 

L'azione congiunta dello Stato moderno e del mercato hanno determinato la grande frattura che ormai ci separa dalle società tradizionali, l'apparizione di un tipo di società dentro la quale l'uomo individuale si prende per fine ultimo e non esiste che per sé medesimo. 

Frutto del sostrato materialista della società dei consumi, le nuove rivendicazioni individualiste, cosmopolite ed egualitarie, laiciste, anti-identitarie e profane, si concentrano intorno alla demonizzazione del passato europeo, alla promozione di una mentalità cosmopolita o mondialista, alla retorica delle vittimizzazione selettiva delle minoranze (il politically correct, oscena creazione delle università e del circo mediatico degli Stati Uniti d'America) e all'esaltazione dei diritti umani, acriticamente, violentemente e dispoticamente affermati. 

Ne è un esempio l'imposizione terroristica dell'omofilia obbligatoria e della società “meticcia” o “multiculturale”. In questo tipo di società, questi uomini atomi, questi individui, si considerano primi, si identificano come l'origine, si distaccano dal sacro e dall'autorità e si concepiscono anche su un piano di uguaglianza con gli altri uomini. Questa centralità dell'uomo è, nella pratica, la centralità dell'individuo. 

D'ora in poi quando la modernità dice “uomo” intende “individuo”. 

L'individuo però non è l'uomo inteso nella sua accezione classica e naturale, ma un essere separato, resecato dalla comunità alla quale appartiene, e che si sente svincolato dall'auctoritas e dalla tradizione che lo precedono, un essere desocializzato e destoricizzato, la cui natura sociale e politica non è affatto costitutiva della sua umanità. Dall’economia alla politica (sottomessa all’economia!) il passo è breve.

Anche il Nuovo Ordine Mondiale di cui oggi si parla è il frutto della tentazione egualitaria, di quella passione per l'uniformità e per l'identico tipica del pensiero economico che trasferisce la sua infezione nelle Istituzioni. Non a caso è proprio la banconota del dollaro a portare iscritto il motto paramassonico "Novus ordo seclorum", cioè Nuovo Ordine Mondiale. 

E' un'ideologia, quella del mondialismo, che ha uno stretto legale con l'individualismo e l'egualitarismo, che ne sono le logiche premesse. I tre fattori dell'uguaglianza, del materialismo e dell'individualismo formano un insieme coerente, dove ciascun fattore viene dall'altro ed anche lo rafforza. 

Infatti solo se gli uomini sono atomi tra loro interscambiabili, come nella stessa teoria dei diritti umani, si può pensare a quella cosmopolis egualitaria, che è il sogno congiunto della destra del denaro (finanzieri, banchieri, multinazionali) e della sinistra politica, anche quella che si definisce no-global (ma che in realtà è global cioè internazionalista e mondialista, prefiggendosi di regolamentare la globalizzazione tramite lo Stato mondiale omogeneo). 

La globalizzazione, infatti, essendo fondamentalmente egualitaria, parte da premesse economiciste ma sogna di fondere tutte le razze, tutti i popoli e tutti gli Stati in una sola razza, un solo popolo, un solo Stato. 

Questo è il motivo per il quale tutti i movimenti identitari e cosiddetti populisti, che intendono combattere l'immigrazione di massa e difendere le particolarità storiche dei loro popoli, vengono demonizzati dal circo mediatico e dalla classe politica progressista, di destra e di sinistra. 

Le tendenze egualitarie sono andate ben oltre l'economicismo marxista, portando avanti la distruzione di ogni pur lieve forma di differenziazione in ogni ambito dell'uomo e dell'universo. 

Niente più Stati e patrie, niente più differenze di razze (il famoso melting pot: il termine stesso razza suona ormai in maniera negativa, come se le razze non fossero, in natura, come qualsiasi altra diversità). Niente più distinzione culturale, niente più distinzione persino ontologica. 

Dovremmo quindi batterci perché non si realizzi, attraverso la politica di Washington, della NATO, dell'ONU, della UE e del grande capitale finanziario e delle multinazionali, un nuovo “nomos della terra” unipolare sotto guida statunitense, preludio di uno Stato mondiale futuro, ma bensì un mondo multipolare, dove la stessa Europa, rispettosa dell'autonomia di Stati nazionali al loro interno federati o confederati - e quindi rispettosi delle identità diverse che li compongono, delle patrie carnali e naturali che non si possono ridurre all'astrazione della nazione - venga a costituire un polo autonomo di civiltà al fianco degli altri, distanziandosi dalla politica atlantista e appoggiando la Russia nel suo tentativo di costituire un pluriverso, un nuovo “nomos della terra” che, come auspicava Schmitt, permetta a grandi spazi continentali di gestire e controllare le potenze della tecnica e dell'economia. 

Perché l'uomo non è un essere universale, ma un essere particolare, radicato in una terra e in una cultura, anche se capace di aprirsi e tendere all'universalità. 

La sua apertura all'universalità lo rende unico tra tutte le creature, ma questa apertura non sacrifica mai del tutto la sua particolarità. E anche se la negazione dell'apertura all'universale è, a volte, divenuta disumana, la negazione della particolarità è apertamente antiumana.