martedì 10 marzo 2015

Silenzio e solitudine...

di Renè Guènon



(aurhelio.it) – Fra gli Indiani dell’America del Nord, e in tutte le tribù senza eccezione, esiste, oltre ai riti di vario genere che hanno carattere collettivo, la pratica di un’adorazione solitaria e silenziosa, ritenuta la più profonda e quella di ordine più elevato. I riti collettivi hanno sempre infatti, in una certa misura, qualcosa di relativamente esteriore; diciamo in una certa misura perché al riguardo si deve naturalmente, qui come in ogni altra tradizione, fare una differenza fra i riti che si possono definire essoterici, ovvero quelli ai quali tutti partecipano indistintamente, e i riti iniziatici. E’ chiaro d’altronde che, lungi dall’escludere quei riti o di opporvisi in una maniera qualsiasi, l’adorazione in questione vi si sovrappone soltanto come appartenente in certo qual modo a un altro ordine; ed è anche lecito pensare che, per essere veramente efficace e produrre risultati reali, essa debba presupporre l’iniziazione come una condizione necessaria. A proposito di questa adorazione, si é talvolta parlato di “preghiera”, ma ciò é evidentemente inesatto, perché non c’e alcuna richiesta, di qualsivoglia natura; le preghiere formulate generalmente in canti rituali possono soltanto essere rivolte alle diverse manifestazioni divine, e vedremo che qui si tratta in realtà di tutt’altra cosa. Sarebbe certo molto più giusto parlare di “incantesimo”, prendendo la parola nel significato che abbiamo definito altrove; si potrebbe anche dire che é una “invocazione”, intendendola in un senso esattamente paragonabile a quello del “dhikr” nella tradizione islamica, ma precisando che é essenzialmente un’invocazione silenziosa e tutta interiore. Ecco ciò che in proposito scrive C. Eastman: “L’adorazione del Grande Mistero era silenziosa, solitaria, senza complicazione interiore; era silenziosa perché ogni discorso é necessariamente debole e imperfetto, quindi le anime dei nostri antenati raggiungevano Dio in un’adorazione senza parole; era solitaria perché essi pensavano che Dio è più vicino a noi nella solitudine, e non c’erano preti per fare da intermediari fra l’uomo e il Creatore “. Infatti non ci possono essere intermediari in questo caso, poiché quell’adorazione tende a stabilire una comunicazione diretta con il Principio supremo, designato qui come il “Grande Mistero “. Non soltanto é unicamente nel silenzio e grazie ad esso che si può ottenere questa comunicazione – perché il “Grande Mistero” è al di la di ogni forma ed espressione – ma il silenzio stesso “é il Grande Mistero”; come bisogna intendere esattamente quest’affermazione? Innanzitutto, si può ricordare in proposito che il vero “mistero” è essenzialmente ed esclusivamente l’inesprimibile, che evidentemente può essere rappresentato solo dal silenzio; inoltre, poiché il “Grande Mistero” è il non-manifestato, il silenzio stesso, che è propriamente uno stato di non-manifestazione, è quindi come una partecipazione o una conformità alla natura del Principio supremo. D’altra parte, il silenzio, riferito al Principio, è, si potrebbe dire, il Verbo non proferito; perciò “il silenzio sacro è la voce del Grande Spirito”, in quanto questo é identificato al Principio stesso; e tale voce, la quale corrisponde alla modalità principiale del suono che la tradizione indù designa come “parâ” o non-manifestata, è la risposta al richiamo dell’essere in adorazione: richiamo e risposta ugualmente silenziosi, essendo entrambi un’aspirazione e un’illuminazione puramente interiori. Perché sia cosi, è necessario che il silenzio sia in realtà qualcosa di più che la semplice assenza di ogni parola o di ogni discorso, sia pure formulati in maniera del tutto mentale; infatti, per gli Indiani quel silenzio é essenzialmente “il perfetto equilibrio delle tre parti dell’essere”, ossia di ciò che nella terminologia occidentale può essere designato come lo spirito, l’anima e il corpo, perché l’essere intero, in tutti gli elementi che lo compongono, deve partecipare all’adorazione affinché si possa ottenere un risultato pienamente valido. La necessità di questa condizione di equilibrio é facile da comprendere, perché l’equilibrio é, nella manifestazione stessa, come l’immagine o il riflesso dell’indistinzione principiale del non-manifestato, indistinzione che é rappresentata anche dal silenzio, sicché non c’é affatto da meravigliarsi dell’assimilazione cosi stabilita fra quest’ultimo e l’equilibrio. Quanto alla solitudine, é opportuno osservare innanzitutto che la sua associazione con il silenzio é in certo qual modo normale e persino necessaria, e che, anche in presenza di altri esseri, chi crea in sé il silenzio perfetto si isola necessariamente da essi; del resto, silenzio e solitudine sono anche entrambi impliciti nel significato del termine sanscrito “mauna”, che nella tradizione indù è indubbiamente quello che si applica con maggiore precisione a uno stato come quello di cui stiamo parlando. La molteplicità, essendo inerente alla manifestazione e via via accentuandosi, si può dire, a mano a mano che si scende a gradi viepiù inferiori di questa, allontana dunque necessariamente dal non-manifestato; quindi l’essere che vuole mettersi in comunicazione con il Principio deve prima di tutto fare l’unità in se stesso, per quanto possibile, mediante l’armonizzazione e l’equilibrio di tutti i suoi elementi, e nel medesimo tempo deve anche isolarsi da ogni molteplicità esterna a lui. Realizzata cosi l’unificazione, anche se è ancora relativa nella maggior parte dei casi, essa nondimeno rappresenta, secondo le effettive possibilità dell’essere, una certa conformità alla “non-dualità” del Principio; e, al limite superiore, l’isolamento assume il significato del termine sanscrito “kaivalya”, il quale, esprimendo al contempo le idee di perfezione e di totalità, quando ha tutta la pienezza del suo contenuto semantico arriva a designare lo stato assoluto e incondizionato, quello dell’essere che ha raggiunto la Liberazione Finale. A un grado molto meno elevato di questo, e che appartiene ancora soltanto alle fasi preliminari della realizzazione, si può far osservare ciò: la dove c’e necessariamente dispersione, la solitudine, in quanto si oppone alla molteplicità e coincide con una certa unità, è essenzialmente concentrazione; ed é noto quale importanza sia effettivamente data alla concentrazione da tutte le dottrine tradizionali senza eccezione, in quanto mezzo e condizione indispensabile di ogni realizzazione. Ci sembra poco utile insistere ulteriormente su quest’ultimo punto, ma c’è un’altra conseguenza sulla quale vogliamo ancora richiamare più in particolare l’attenzione prima di concludere: il metodo in questione, proprio perché si oppone a ogni dispersione delle potenze dell’essere, esclude lo sviluppo separato e più o meno disordinato dell’uno o dell’altro dei suoi elementi, e soprattutto quello degli elementi psichici coltivati in certo qual modo per se stessi, sviluppo che é sempre contrario all’armonia e all’equilibrio dell’insieme. Per gli Indiani, secondo Paul Coze, “sembra che, per sviluppare l’”orenda”(insieme delle diverse modalità della forza psichica), intermediario fra il materiale e lo spirituale, si debba prima di tutto dominare la materia e tendere al divino’; ciò equivale in definitiva a dire che essi non ritengono legittimo affrontare la sfera psichica se non“dall’alto”, in quanto i risultati di quest’ordine sono ottenuti soltanto in maniera accessoria e come “in sovrappiù”, il che é infatti il solo mezzo per evitarne i pericoli; e, aggiungeremmo noi, ciò é certamente quanto più distante possibile dalla volgare “magia” che è stata loro troppo spesso attribuita, e che è anche l’unica cosa che in loro hanno creduto di vedere osservatori profani e superficiali, senza dubbio perché essi stessi non avevano la minima idea di che cosa potesse essere la vera spiritualità.

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