venerdì 23 ottobre 2015

Sindacalismo e Rivoluzione: in memoria di Filippo Corridoni...






di Mario M. Merlino

 Il 23 ottobre del 1915 si va all’assalto del monte San Michele, dove gli austro-ungarici hanno approntato temibili difese, scavando la roccia per i cannoni e le mitragliatrici, srotolando il filo spinato. L’Alto Comando italiano, come del resto quello di tutti gli altri Paesi in guerra, è ancorato alle strategie risalenti a Napoleone e di tutto l’Ottocento, ammassare cioè truppe e aprirsi un varco tra le linee avversarie… con soddisfazione estrema delle raffiche della mitragliatrice, simile al gioco di buttar giù il più gran numero di birilli, dei cavalli di Frisia su cui stendere, panni stesi ad asciugare, il grigioverde dei fanti. Una carneficina di corpi straziati di membra e di sangue sparsi, irriconoscibili.
   Trincea delle Frasche, 32° reggimento, brigata Siena. Cade – e il suo corpo non sarà identificato -, volontario, Filippo Corridoni, già interventista, già figura ardita e nota del sindacalismo rivoluzionario, classe 1887 (era nato il 19 agosto a Pausula, in provincia di Macerata, che da lui prenderà nome di Corridonia. Nel 1905 si era trasferito a Milano per essere in prima fila nelle lotte operaie, malato di tubercolosi, esistenza grama e ardente, gli stenti, la prigione). L’Arcangelo, come sarà ricordato. Da una delle sue ultime lettere: ‘Io rimarrò sempre il Don Chisciotte del sovversivismo; ma un Hidalgo senza ingegno pieno soltanto di fede. Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma se potrò cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora’…
   Nei mesi antecedenti l’entrata in guerra dell’Italia, della neutralità, egli si trova nel carcere di San Vittore a scontare la pena per l’ennesima manifestazione antimilitarista. Alceste De Ambris, a lui fedelissimo, viene incaricato dagli altri suoi compagni di lotta sindacale di recarsi in carcere e di comunicargli come abbiano intenzione di scendere in campo, nelle strade e nelle piazze, a fianco del composito fronte interventista per portare la loro voce a favore della Grande Guerra, intesa quale lavacro purificatore per realizzare la dignità e la giustizia del lavoro, rendere il proletariato parte integrante della Nazione. Egli è titubante. Cosà dirà il compagno e l’amico, che si trova ristretto proprio per aver combattuto ogni uniforme con cui lo Stato e il suo apparato repressivo si reggono con le armi? Corridoni gli si fa incontro, sorride, lo abbraccia – ‘so tutto, sono con voi, appena fuori dal carcere, daremo battaglia…’.
   Questo entusiasmo è il medesimo che ha segnato tutto il breve percorso, intenso, della sua esistenza: egli vede il lavoratore e il soldato frutto della medesima battaglia (si respira l’atmosfera nuova del nuovo secolo come farà Ernst Juenger con il breve scritto La mobilitazione totale e, successivamente, con il ponderoso L‘operaio) perché ‘la realtà tragica ed impreveduta ha spazzato via i rosei sogni e le splendide illusioni, ed ha imposto a tutti un più accurato e profondo esame di coscienza… Pane, sì, ma anche idee, anche educazione. Bisogni fisiologici, sì, ma anche spirituali, culturali. Il proletariato non è classe finchè non ha una coscienza di classe; e questa non si acquista finchè l’organizzazione non si allargherà ad altre battaglie oltre quella del salario e dell’orario. Si mangia per vivere e non si vive per mangiare. E noi vogliamo, dall’alto di questa libera tribuna, illuminare le nuove vie della marcia proletaria’.
   Proprio nell’ultima sua detenzione, aprile 1915, Corridoni scrive Sindacalismo e Rivoluzione, che sarà edito solo nel 1921, che può ben considerarsi testamento spirituale e politico – solo sei mesi lo separano dalle trincee sotto monte San Michele. Una lucida sintetica analisi, un ragionamento robusto, una visione ampia e articolata del problema rivoluzionario alla vigilia del conflitto. Certo non si può pretendere ad un giovane degli anni ’10 di travalicare l’orizzonte del proprio tempo (solo visionari, folli e disperati, quali Nietzsche lo hanno saputo voluto fare e pagato di persona), soprattutto con lo scenario tragico e dirompente, il rovinio tellurico dell’Europa, quale confine. E’, altresì, vero che egli comprese che era tempo di saldare le masse con la nazione e renderle un popolo, di superare la condizione di un’Italia debole nella sua borghesia, vile e taccagna, incapace di pensare ‘in grande’… Quell’Italia ‘proletaria e fascista’ di cui l’amico Mussolini si fece interprete, pur con tanti tentennamenti e troppi compromessi.
   Ben altro e di più sarebbe e si dovrebbe scrivere, ma questo è un breve sincero, poco articolato e forse con qualche incertezza, verso Filippo Corridoni a cento anni dalla sua morte, di un uomo che seppe scrivere alla donna cara: ‘Ho amato le mie idee più di una madre, più di qualsiasi amante cara, più della vita. Le ho servite sempre ardentemente, devotamente, poveramente. Chè anche la povertà ho amato, come San Francesco d’Assisi e frà Jacopone, convinto che il disprezzo delle ricchezze sia il migliore ed il più temprato degli usberghi per un rivoluzionario’ (dal Campo, 12 settembre 1915).
   Una lezione di vita, uno stile che vale la pena tenere a mente, soprattutto oggi in tempi mali, di abbandono e disincanto. Dirigendosi verso le postazioni austriache di monte San Michele, se si abbandona il percorso asfaltato e ci si inoltra per un viottolo fangoso, superato il cippo, di modesta fattura, della divisione Sassari, e ,proseguendo per una ripida tutta sassi, si arriva alla stele dedicata a Corridoni, eretta nel 1923, alta oltre i venti metri con fregi raffiguranti la mano destra aperta in segno di saluto, l’aquila che si volge ad est, il fascio littorio e i simboli del lavoro quali la ruota e l’aratro. Alla base la scritta incisa nella pietra: ‘Qui eroico combattente cadde Filippo Corridoni fecondando col sacrificio della vita la gloria della patria e l’avvenire del lavoro’. (Ho trovato di grande onestà intellettuale e di rigoroso rispetto questo epitaffio che non cerca di tirare perla giacchetta un morto e arruolarlo d’ufficio).
    Infine, rievocandone la figura l’apostolato la morte, avvenuta due anni prima, Benito Mussolini scriveva, fra l’altro, su Il Popolo d’Italia ‘Egli era un nomade della vita, un pellegrino che portava nella sua bisaccia poco pane e moltissimi sogni e camminava così, nella sua tempestosa giovinezza, combattendo e prodigandosi, senza chiedere nulla’. Chi non vorrebbe ascoltare un simile richiamo rivolto a se stesso? Gli dei nascono e muoiono per risorgere, così la pensava Drieu la Rochelle, concludendo il suo romanzo Gilles. E, se ciò vale per il divino, perché non dovrebbe valere per le sue manifestazioni, quali gli arcangeli, l’Arcangelo della trincea delle Frasche?

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