martedì 29 aprile 2014
SERGIO RAMELLI PRESENTE!
lunedì 28 aprile 2014
Il Contrammiraglio Ubaldo degli Uberti e il sodalizio con Ezra Pound...
di Amerigo Griffini (Barbadillo.it)
Il 28 aprile 1945, a fine guerra, fu ucciso per un tragico equivoco il Contrammiraglio Ubaldo degli Uberti, discendente del nobile ghibellino fiorentino Farinata degli Uberti.
Durante la Prima guerra mondiale era stato Comandante del sommergibile “Giacinto Pullino”, sul quale ebbe ai suoi ordini anche il Tenente di Vascello Nazario Sauro. Nel 1916 durante un’azione di guerra, con il sommergibile incagliato, fu fatto prigioniero assieme al suo equipaggio e in prigionia rimase fino alla fine del conflitto. Rientrato in servizio, lo abbandonò negli anni ’20 per insanabili contrasti con lo Stato Maggiore.
Si dedicò quindi all’attività di scrittore. In questa veste di letterato e di storico, entrò in contatto con il poeta americano Ezra Pound, che si era stabilito a Rapallo e del quale fu anche il primo traduttore dall’inglese. Del grande poeta del ’900 divenne anche amico.
Tra i due l’amicizia significò anche condivisione ideale: il poeta americano rimase affascinato dall’aristocratico discendente proveniente direttamente dal Medioevo fiorentino e questi non poteva non essere a sua volta affascinato dalle idee sulla moneta e contro l’usura dell’americano anomalo. Pound ribattezzò l’amico “Ub2″ (Uberti 2, Ubaldo secondo, dopo Farinata).
Richiamato in servizio poco prima dell’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, con il grado di Contrammiraglio, gli fu affidato l’Ufficio Propaganda di Supermarina e fu il curatore del settimanale “Prore armate”. Nel suo incarico di “propagandista” degli Uberti ebbe come collaboratore anche il regista cinematografico Francesco De Robertis, padre del neorealismo italiano, a sua volta ufficiale di Marina. Di fatto degli Uberti per conto dell’Ammiragliato fu il produttore del film “La nave bianca”.
Dopo l’8 settembre 1943, quando la scelta di campo si rese obbligatoria, l’aristocratico Ubaldo degli Uberti, come il principe Junio Valerio Borghese, si guadrò bene dal seguire un “monarca fellone” e la scelta fu quella repubblicana: la Repubblica Sociale di Mussolini dove ritròvò anche il vecchio poeta amico Pound, il “miglior fabbro”.
Nella RSI Ubaldo degli Uberti si stabilì a Vicenza – sede del Sottosegretariato della Marina – dove fu responsabile della Propaganda e direttore del settimanale “Marina Repubblicana”, la pubblicazione che si occupò anche di far rimbalzare sulle sue pagine alcuni “Cantos” di Ezra Pound.
Per quegli strani percorsi che la vita riserva a persone straordinarie Ubaldo degli Uberti a Vicenza si imbatté per caso nella chiesa medievale di San Lorenzo dove vide lo stemma di famiglia e scoprì che il suo antenato ghibellino Lapo degli Uberti era sepolto proprio lì, morto in esilio a Vicenza, lontano dalla sua Toscana. Particolare che Ub2 rivelò a Pound che lo tradusse in poesia come “vento di siepe”.
Nei giorni concitati immediatamente successivi al 25 aprile, Degli Uberti si trovava a Montecchio Maggiore.
Dopo aver messo in libertà il personale della Marina alle sue dipendenze con la raccomandazione di seguire sempre le vie dell’Onore, prese la via per Vicenza assieme al Colonnello Italo Sanguinetti e ad un marò.
Fatti pochi chilometri l’auto si trovò nel mezzo di una situazione caotica: alcuni marò del Battaglione “Pegaso” della Xª Flottiglia MAS erano intervenuti per impedire il saccheggio di un magazzino del reparto da parte di un gruppo di civili – ormai nel clima della Liberazione. Poco dopo sul posto era giunto anche un reparto della Wehrmacht composto da volontari mongoli i quali, vedendo arrivare a forte velocità l’auto con a bordo il Contrammiraglio, aprirono il fuoco contro di essa.
Il Colonnello Sanguinetti morì sul colpo mentre Ubaldo degli Uberti, ferito gravemente fu portato in un ospedale da due ragazze che lo avevano adagiato su un carretto. Nonostante le sue condizioni disperate (aveva anche avuto l’asportazione di netto di una mano), esortò le due donne a mettersi in salvo non pensando a lui, quando giunse un aereo americano che, a bassa quota, mitragliava tutto ciò che si muoveva. Poco dopo il ricovero in ospedale, morì.
Per l’ennesima beffa del destino, il figlio dell’ufficiale, Riccardo degli Uberti, rientrando da Berlino dove era impiegato nell’Ambasciata italiana, si trovò a passare da Vicenza proprio mentre il padre spirava, ignorando però il fatto.
martedì 22 aprile 2014
COMMEMORAZIONE DEI CADUTI DELLA RSI...
VENERDì 25 APRILE 2014
CIMITERO DI TRESPIANO ORE 10.30
COMMEMORAZIONE DEI CADUTI DELLA RSI
martedì 15 aprile 2014
Ai figli di quel 'soldato della classe '40'...
Mattia viene a prendermi alla stazione di Chiusi e con discreta velocità si raggiunge Firenze, non lontano dalla stazione Campo di Marte, ove in via Frusa vi è la sede di Casaggì. Ci sono stato due o tre anni fa a presentare E venne Valle Giulia. Allora, come oggi, scendendo le scale a chiocciola, il primo colpo d’occhio è quello di una sala piena, soprattutto di giovani e giovanissimi. Ragazzi e ragazze di oggi, semplici puliti volenterosi direi di una sana bellezza interiore che traspira nella spontaneità del gesto, come si muovono come parlano ridono… Il salone è dipinto in giallo – un giallo solare, dunque, positivo il primo impatto (come erano bui gli scantinati dai soffitti bassi i muri scrostati dove con aria da cospiratori ci armavamo di pennello secchio rotoli di manifesti e la spranga fedele compagna di notti a caccia di zecche rosse! Eppure, lo confesso, ne conservo memoria e un non so che di nostalgia…) – con alle pareti i numerosi quadretti e poster delle attività svolte dei volantini distribuiti dei riferimenti culturali e storici a noi cari. Irridenti, sfrontati, creativi. Mi piacciono. Sono di linguaggio diverso, meno militante e ancor meno militare, ma in fondo ci appartengono, sanno esprimere una identità comune di fondo.
(Sono e rimango un professore. Persona fortunata, mi dico spesso, che ha svolto il lavoro che decise di intraprendere all’età di sedici anni. In culo ai questurini magistrati secondini compagni falliti e arroganti, non mi sento certo di chiamarli ‘colleghi’, e a tutto un mondo istituzionalizzato che mi guarda scuote il capo bisbiglia punta il dito… ma, dall’altra, quei giovani, sui banchi di stupide noiose e vuote aule, a cui raccontavo della storia negata maledetta ottenebrata, di quei coetanei in camicia nera che scelsero per non essere scelti, che andarono con nessuna certezza e poche speranze di vittoria, che seppero tutto donare senza nulla pretendere. Come non si può amare la gioventù eterna, quella che conosce il sapore della sfida della esaltazione dell’incoscienza?… Essere fedeli alla nostra giovinezza, questo l’imperativo perché solo così sapremo mantenere la fierezza e coltivare la speranza, tanto care a Robert Brasillach).
Di Robert Brasillach, appunto, invitato a parlare. Soprattutto a rispondere alla domanda se e quanto egli può essere ancora ‘vivo’ di fronte a questi ragazzi, alcuni sedicenni, che sono i figli di quel ‘soldato della classe 40’ a cui aveva scritto dietro le sbarre del carcere di Fresnes. Quel ragazzo che, negli anni ’60, aveva l’età del servizio di leva e che fu, in massima parte, disattento ignaro distratto al suo richiamo ma che, al contempo, sceso nelle piazze con parole d’ordine del vetero-marxismo (i Lenin e gli Stalin) ma anche delle correnti e dei dintorni eretici (Che Guevara, ad esempio, Mao), si ostinava di dare nuova linfa e vitale ad un percorso ormai ridottosi a rivolo melmoso e stanco e illudersi che vi fosse, tragica e feroce illusione, da qualche parte un ‘sol dell’avvenire’(che sono, a ben intendere e sapendo distinguere sempre e comunque ‘fierezza e speranza’).
A Firenze, di cui traccia alcuni periodi ne Il nostro anteguerra, ‘dall’alto di San Miniato con il duomo antico, i suoi torrioni alti nella foschia della sera, ho visto meravigliosamente fusi gli straordinari tesori plastici e la grazia toscana, il minuto popolo d’Italia ironico e musicista. Abbiamo passeggiato su Ponte Vecchio appesantito da decine di botteghe d’artigiani come i ponti di Parigi ai tempi di Luigi XIII…’. A Firenze, dove nei locali di Casaggì, attraverso il mio affetto verso questo sconosciuto fratello che fu e rimane il più caro e la capacità di ascolto, di curiosità (a Pasolini che lo sollecitava a rivolgersi ai giovani che, attraverso la televisione, per la prima volta, ne vedevano il volto scavato e ne udivano le rare e roche parole, Ezra Pound rispose ammonendoli reiteratamente con il ‘curiosità, curiosità’) di questa bella comunità, ecco snodarsi le tappe di quel destino di quell’avventura di quei versi disperati e rasserenanti.
La fierezza e la speranza, dunque. Sono convinto che la più grande colpa di questi tempi mali sia rappresentata proprio dall’aver sottratto l’idea del futuro dall’orizzonte della gioventù, asservendola al quotidiano riempito di falsi bisogni desideri inutili facili stati di depressione (ricordo l’incontro di alcune mie alunne con Giovanna Deiana che, a sedici anni, in uno dei primi bombardamenti inglesi su Verona, per salvare i fratellini era rimasta cieca. E, nonostante ciò, ausiliaria in Repubblica Sociale, con Aldo, il più piccolo della famiglia, mascotte della Brigata Nera, che viene ammazzato poco più che adolescente sulla riva dell’Adige a mesi dalla fine della guerra. Ebbene ebbe loro a dire come vi fosse una sola differenza fra la sua e la generazione di quelle ragazze e cioè che ‘noi non conoscevamo la parola problemi’…)
Ed ancora, ricordando la gioventù fra le due guerre, quella gioventù che si era lasciata tentare dal Fascismo ‘immenso e rosso’, dalla sua gioia, dalla sua poesia, egli ebbe a definirla: ‘spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione’ (In Brasillach non vi è la complessità dell’inquietudine esistenziale di Drieu la Rochelle o di Céline la disperazione e il pessimismo e un nichilismo aristocratico e proletario al contempo. Egli è, per utilizzare la felice espressione di Giano Accame, ‘il poeta dei balilla’. Non un piano ideologico, ma una estetica ove regna la bellezza della giovinezza con il senso dell’amicizia e della gioia di vivere). Non è poco… E avrei potuto aggiungere come, ne La ruota del tempo, egli descriva i protagonisti di questo affascinante romanzo (come rimanere indifferenti quando si leggono le pagine del secondo capitolo dal titolo La notte di Toledo?) che ‘noi viviamo nell’eminente dignità del provvisorio’ (che non va confuso, va da sè, con la condizione di precarietà a cui sono state condannate le nuove generazioni. Qui è un momento estatico creativo sognante e irridente in attesa dell’età adulta con i suoi obblighi e legami).
Avrei potuto dire tanto ed altro… Guardo questi adolescenti, vi sono fra loro militanti con fili bianchi fra i capelli, coppie di genitori che vogliono condividere l’esperienza la crescita dei propri figlioli, e so che Brasillach sarebbe contento. Là, nel piccolo cimitero di Saint Germain de Charonne, ultimo e definitivo suo rifugio, ricoperto da un tripudio di fiori, sorride. Ed io con lui…
domenica 13 aprile 2014
De Benoist. Quando la sovranità sparisce i popoli muoiono...
di Francesco Marotta (Destra.it)
Nei giorni successivi la presentazione del Documento di economia e finanza del governo Renzi e la comoda semplificazione, supina, alle regole della copertura degli 80 euro in più garantiti in busta paga dalla mano di «colui che veglia», sull’opera italiana del neo liberismo alla Presidenza del Consiglio, è in uscita l’ultimo saggio tradotto in lingua italiana di Alain de Benoist. Poteva scegliere un titolo meno appropriato ? Diciamo che La Fine della Sovranità, come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli, va più che bene. Figuriamoci poi, dopo esserci accertati della solita paccottiglia ancora in circolazione, nella stragrande maggioranza, dei messaggi elettorali di queste ultime elezioni europee; sorteggiati e facendo mente locale delle migliori prestazioni al parlamento europeo (?) e, perennemente disposti a ripetere quanto a credere, nella solita orazione collettiva: “l’UE raffigura l’Europa e per cui dobbiamo uscirne”.
Meglio così e peggio per tutti coloro cui piace trastullarsi con ciò che sembra un’opera politica dell’incapacità contemporanea. La prefazione del libro, a cura di Eduardo Zarelli, pone giudiziosamente le basi per comprendere sin dalla prime righe, l’epigrafe monumentale e l’operosità della forma-capitale: la sua evoluzione da tutti noi ampiamente dibattuta e la sovranità dei popoli, ridotta sempre più a un lumicino. Certo, non gliene vorrà il guru del marketing Guy Kawasaki dall’alto delle sue formulazioni sul “nuovo” che avanza, abbondantemente illustrate nel suo libroL’arte di chi parte (bene). Disinteressandosi però, di tutte le disgrazie relative all’attuazione dellagovernance tanto cara all’autore, estesa anche ai governi; quella credulità modernista da assimilare alle nuove imprese che nascono, illuminando le possibili buone riuscite nel business d’impresa, tramite l’uso e la sagacia di un linguaggio espressivo da chi nella vita c’e’ l’ha fatta. Per meglio dire, c’era riuscito (E. Zarelli al contrario di Kawasaki non dimentica il cervello), appoggiandosi come gli Stati, al circolo vizioso dell’indebitamento dai tassi d’interesse vertiginosi «e di chi è direttamente o indirettamente contiguo alle banche creditrici e alla speculazione del mercato». Chapeaux Eduardo. Adieu Guy e alla sistematicità di un hawaiano nato a Honolulu (sic…) con piedi e mani immersi nell’imprenditoria della Silicon Valley.
Il parassitismo e le lobby finanziare pare abbiano deciso di che morte deve morire l’Europa, cara a chi ancora sa distinguere una possibile autonomia, persino di giudizio, dalle abbreviazioni intergovernative riconosciute solo su un pezzo di carta: la ghigliottina del “fiscal compact”e l’autoreferenzialità delle corporazioni professionali. Nel caso non dovesse bastare l’unguento utile per la corretta funzionalità della lama a doppio taglio del finanziamento della BCE, coordinata da Mario Draghi e finalizzato al settore bancario alla modica cifra di mille miliardi di euro spalmati in un solo triennio e, applicando un tasso di interesse all’1% ( E. Zarelli cita giustamente l’improvvisa ondata di denaro riversatasi nei forzieri della banche italiane che ammonta a 260 miliardi. Non è stato restituito un solo euro), suona strano quanto gli istituti finanziari si siano guardati bene dal finanziare i loro maggiori contribuenti. Una “casualità” a danno dell’economia reale, acquisendo subito dopo i debiti pubblici degli stati insolventi e applicando a loro volta dei tassi che oscillano dal 3,5% al 7,5% ?
Secondo l’analisi di Alain de Benoist, se vogliamo, sintomatica, delle variabilità sociologiche alla base della “nuova” mondializzazione (globalizzazione) e dei passaggi intermedi che hanno favorito il riassetto attuale da un’economia internazionale a un’economia globalizzata, è impossibile non tenere conto della deterritorializzazione di più settori, volta ad un mercato planetario. Dall’avvento delle banche universali, sostenute in Italia da Guido Carli e Maurizio Scaroni a seguito della seconda direttiva CEE in vigore sin dall’1 gennaio 1993, che sancì il mercato unico dei servizi finanziari (vedasi l’art.28) e le due vie per creare gli istituti di credito, possiamo trarne alcune conclusioni: la prima forma giuridica implica la possibilità per le banche di costituire una struttura con lo stesso iter delle società per azioni; la seconda consente invece, di costituire delle società cooperative per azioni a responsabilità limitata. Una censura irrispettosa delle regolamentazioni dei singoli stati connessa alla mondializzazione? Alain de Benoist non si sofferma su un’unica interpretazione terminologica, specificando l’esistenza di diverse tipologie di mondializzazione supportate dal Capitalismo Pneumatico; quali, la mondializzazione tecnologica, culturale e sociale, che a partire dal secolo scorso, hanno minato le fondamenta degli stati sovrani sospinti dalla sovranità economica, dalla sovranità militare e culturale.
L’opera di Alain de Benoist non ha la presunzione di un saggio economico e sociale rivolto ai mali delle nazioni europee occidentalizzate. Districandosi nei dettagli del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e, riuscendo a frazionare “l’impegno irrevocabile” di un trattato firmato a Bruxelles il 2 febbraio 2012 dai governi europei, pone concretamente più possibilità di uscita dall’incubo vizioso di un meccanismo propenso ad auto-capitalizzarsi, mediante l’indebitamento degli stati membri. Il capitale iniziale del MES, stabilito in 80 miliardi di euro, verrà aumentato a 700 miliardi e il peso della capitalizzazione del “salva stati” domiciliato in Lussemburgo, riconducendo in particolar modo all’articolo 9 del trattato, unisce l’abilità subalterna della rappresentanza politica che siede al Parlamento Europeo e in Commissione: « i membri del MES si impegnano in maniera irrevocabile e incondizionata a versare i fondi richiesti dal direttore generale nei sette giorni che seguono la ricezione della suddetta richiesta». Un ottimo escamotage per dilapidare le esigue risorse economiche degli stati europei, accelerandone la marcia verso la miseria ? Il tributo che l’Italia dovrà pagare è di 125,3 miliardi di euro e quello della Francia sfiorerebbe i 142,7 miliardi. Entrambe, alle prese con la follia programmata dell’austerità e del triplo indebitamento, in vista dell’esborso, saranno costrette a loro volta a contrarre debiti e quindi ad essere soggette all’aumento dei tassi delle banche creditrici pur di elargire la linfa vitale ad un organismo sovra-europeo.
Molto interessante la disamina, concretizzabile, di un primo approccio ad una forma di protezionismo europeo e la nazionalizzazione delle banche. E’ impensabile restituire agli stati la legittimazione di contrarre prestiti presso le proprie banche centrali, senza passare per forza di cosa attraverso gli istituti di credito privati? Nella peggiore delle ipotesi, de Benoist, ne scorge un allontanamento e nell’insieme, un rallentamento graduale dell’ipnotismo reverenziale dell’alta finanza speculativa; sempre pronta ad intervenire quando la volontà dei governi è prossima alla finanziarizzazione dell’economia irreale e al profitto massimo raggiunto grazie all’imposizione fiscale eccessiva da applicare al disavanzo dei deficit pubblici. Ristabilendo le giuste distanze dalle leggende conformiste del sistema liberale, generosissimo nel celebrare a distanza di parecchi anni gli accordi di Breton Woods e l’operato su scala globale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, l’ideologia della mondializzazione continua a beneficiare dei profitti del capitalismo moderno, sposandone un’unica mission: distruggere la capacità protettrice degli spazi definiti e delle loro risorse, disgregati dall’azione propulsiva del libero scambio, riducendoli come scritto da Manuel Castells a mere individualità, ad uno «spazio dei flussi» spoliticizzati.
Alain de Benoist, riporta nel suo libro una citazione dell’economista e saggista Hervè Juvin, cui non possiamo sottrarci dal constatarne gli effetti riconoscibili nella società europea: «la società politica liberale tenta di spingere verso l’astrazione del soggetto di diritto, lo spoglia di tutto ciò che fa dell’individuo un essere in carne e ossa con un passato, delle origini, dei legami, una terra e una storia, per renderlo fluido, liquido, mobile, indefinitamente. In questo senso, la cultura-mondo è davvero una negazione della condizione umana». Aggiungeremmo, visto le ultime sferzate contro la regolamentazione dei flussi di capitali e delle merci a spese dell’occupazione, delle attività produttive e a favore delle delocalizzazioni, la colpa è davvero della moneta unica e dell’incapacità di discernere la realtà dalla finzione sull’uscita dall’euro? Oppure, forse, di coloro che facendo le veci dei popoli, continuano a svenderne la sovranità ad un ingranaggio che Ezra Pound collocò alla nascita del sistema moderno, sorto per imporre la schiavitù avvalendosi del debito infinito? L’Accordo Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (TTIP) tra l’Unione Europea e gli Usa, conferma la volontà di istituire la più grande zona del libero scambio ideata per assorbire al suo interno ottocento milioni di consumatori.
Un progetto giunto a termine grazie all’impegno dei club finanziari e liberali, volto ad agevolare la libertà e il raggio d’azione delle multinazionali del credito, dell’alta finanza, del commercio e dell’investimento, libere di scorazzare a loro piacimento nella vastità messa a loro disposizione; senza essere soggette a obblighi doganali e avvalendosi della deregolamentazione del mercato servita in un piatto d’argento. A farne le spese e a subire l’occidentalizzazione della “Scuola di Chicago” trapiantata in Europa, è la trave portante che sorregge le norme e i regolamenti dell’UE e dei singoli stati membri, ri-convertiti agli standard commerciali americani. Dunque ? Godiamoci ancora per poco, secondo Alain de Benoist «la tutela dei cittadini, le scelte socio-culturali, le realtà storiche, geografiche, linguistiche, le tradizioni regionali e locali», prima dell’appiattimento ad un sistema unico distruttivo e contrario alla nostra autoctonicità. Siamo ancora in tempo a riprenderci la sovranità concessa ai delatori dei popoli e a fermare il travaso della nostra identità. Evitando l’offuscamento di un miraggio di inizi anni ’80, quando vivere una vita e le certezze dettate da altri, perdendo irrimediabilmente la propria, era uso comune. Il sogno di altri.
Alain de Benoist
“La Fine della Sovranità, come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli”
Arianna Editrice, Bologna – 2014
Ppgg. 127 – € 9,80
giovedì 10 aprile 2014
Così il nuovo capitalismo crea (e sfrutta) i nuovi schiavi...
di Luciano Canfora (Corriere della Sera)
Una delle grandi novità del XXI secolo è il riapparire su larga scala delle forme di dipendenza schiavile e semischiavile. Un segnale in tal senso, sia pure espresso con disarmante ingenuità, si è avuto, in sede ufficiale, quando «da Oslo è partita una delegazione guidata da Ole Henning, allarmata dalle notizie sulla diffusione del caporalato nella raccolta del pomodoro nel Sud Italia» («Corriere della Sera», 23 ottobre 2013). Il riferimento è alla condizione semischiavile dei neri impiegati nelle campagne della Capitanata, di Villa Literno o di Nardò. Beninteso, il pomodoro poco «etico» è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno mondiale, nel quale rientrano le maestranze schiave del Sud-Est asiatico o del Bangladesh, per non parlare dei minatori neri del Sud Africa, sui quali spara ad altezza d’uomo una polizia, anch’essa fatta di neri, per i quali la meteora Mandela è passata invano. È chiaro che il profitto si centuplica se il lavoratore è schiavo (schiavo di fatto, se non proprio formalmente). E il profitto è più sacro del Santo Graal nell’etica del «mondo libero».
La mondializzazione dell’economia e il venir meno di qualunque movimento — o meglio collegamento — internazionale dei lavoratori ha creato le condizioni per questo ritorno in grande stile di forme di dipendenza che in verità non erano mai scomparse del tutto. Basti ricordare che soltanto «nel febbraio del 1995 il Senato del Mississippi, uno dei baluardi storici del razzismo Usa, ha approvato il XIII emendamento della Costituzione americana, siglato nel 1865, secondo cui la schiavitù volontaria o involontaria non potrà esistere entro i confini degli Stati Uniti» («Corriere della Sera», 19 febbraio 1995). E, quanto all’Europa, non sarà male ricordare che l’abrogazione della schiavitù coloniale, varata dalla Convenzione nazionale a Parigi nel febbraio 1794, rimase di fatto lettera morta, poiché nel frattempo buona parte delle colonie francesi nelle Antille era passata, nel turbine della rivoluzione in Francia, sotto controllo inglese e la liberale Inghilterra aveva vanificato gli effetti dell’abrogazione. Di qui la necessità di una nuova solenne abrogazione, nel 1848, sotto l’impulso di Henri Wallon e di Victor Schoelcher. Intanto incubava, negli Usa, la feroce guerra civile causata dalla secessione del Sud, baluardo della schiavitù.
Il nesso tra capitale e schiavitù non si è dunque mai del tutto spezzato. Ora un bel libro di Herbert S. Klein (Il commercio atlantico degli schiavi , Carocci, pp. 288, e 20) ricostruisce, con fredda e tanto più efficace documentazione, questa vicenda sulla scala dei secoli (soprattutto XV-XIX), non senza un breve ed efficace preambolo sulle origini antiche dell’ininterrotto fenomeno. Nel rapido sguardo che Klein rivolge alla schiavitù antica si apprezza lo sforzo volto a distinguere l’entità del fenomeno in Grecia da un lato e dall’altro nel mondo mediterraneo e continentale unificato da Roma, dove la massa di schiavi, soprattutto nei secoli II a.C. - fine II d.C., fu di gran lunga più grande che nella Grecia delle poleis . Forse Klein non conosce il sesto libro dei Sofisti a banchetto di Ateneo di Naucrati (fine II d.C.) — cioè la più grande enciclopedia a noi giunta di epoca ellenistico-romana —, ma certo lì la questione viene ampiamente sviscerata, cifre alla mano: e non è del tutto vero, a stare a quell’importante repertorio antiquario, che nella Grecia del tardo V e IV secolo a.C. non si riscontrassero realtà schiavistiche imponenti.
La schiavitù in Grecia ha creato qualche imbarazzo a una parte degli studiosi moderni (quelli in particolare cui è parso che il fenomeno offuscasse la purezza del miracolo greco), i quali perciò si sono affannati a screditare le poche cifre tramandate intorno all’entità del fenomeno. Altri interpreti hanno ritenuto preferibile una linea più provocante, e cioè: la schiavitù fu un bene perché rese possibile il miracolo greco. Altri ancora, come il dilettante onnivoro, ciclicamente «riscoperto» per amor di paradosso, Giuseppe Rensi (1871-1941), propugnarono in pieno XX secolo il ripristino della schiavitù come unica garanzia di difesa del capitale: «Il lavoratore — scriveva Rensi nei Principi di politica impopolare (1920) — in quanto lavora non può non essere dipendente, sottoposto, servo di colui che gli richiede le sue funzioni (…). Aveva perfettamente ragione Aristotele quando sosteneva la necessità e l’eternità della schiavitù».
Questo modo di ragionare può avere vaste ramificazioni. Per esempio negli anni Settanta ebbe un quarto d’ora di celebrità Eugene D. Genovese: non già per i suoi studi molto utili sull’Economia politica della schiavitù (Einaudi, 1972), ma per i suoi paradossi sul carattere «progressivo» della schiavitù negli Usa del XIX secolo (Neri d’America , Editori Riuniti, 1977). E invece gli studi di Genovese meritano di essere ricordati per altre ragioni: per aver messo in luce l’intreccio nell’epoca nostra, o molto vicina a noi, tra capitalismo e schiavitù. «Il capitalismo — scrisse — ha assorbito e anzi addirittura incoraggiato molti tipi di sistemi sociali precapitalistici: servitù della gleba, schiavitù etc.» (L’economia politica della schiavitù ). Quelle sue osservazioni risalenti all’inizio degli anni Sessanta, e focalizzate — tra l’altro — sul caso emblematico dell’integrazione perfetta dell’Arabia Saudita nel sistema capitalistico mondiale, tornano attualissime oggi, visti il ritorno in grande stile del fenomeno schiavitù come anello indispensabile del cosiddetto «capitalismo del Terzo millennio», nonché il ruolo cruciale della feudale monarchia saudita nella difesa del cosiddetto «mondo libero» e nella strategia planetaria degli Stati Uniti.
Per gli Usa infatti il criterio realpolitico ha quasi sempre avuto la meglio sulle scelte di principio, in questo come in altri campi: la forza e il tornaconto come potenza erano il fondamento, mentre la «dottrina» volta a volta esibita era, ed è, il paravento. La tratta degli schiavi è stata praticata senza problemi (anche il virtuoso Jefferson aveva i suoi schiavi, con tutte le implicazioni economiche ed etiche che ciò comportava). Klein dimostra molto bene nel suo saggio, dal quale abbiamo preso le mosse, che fu la penuria di mano d’opera interna a incrementare l’opzione in favore della tratta; e che il meccanismo incominciò a declinare nella seconda metà dell’Ottocento, non tanto in conseguenza della guerra civile americana, quanto piuttosto per l’irrompere sulla scena della massiccia emigrazione dall’Europa. Il fenomeno accomunò le due Americhe: «La colonizzazione dell’Ovest statunitense e la conquista argentina del deserto furono movimenti del primo e del tardo Ottocento che provocarono il massacro delle native popolazioni amerindie che vi si opposero e la loro sostituzione con coloni immigrati».
La «macchia» rappresentata dalla schiavitù non passava inosservata in Europa: non bastava l’autoesaltazione retorica americana a celarla. Nel 1863 un politico inglese di rango, che era anche un fine studioso di storia antica, John Cornewall Lewis, pubblicò un dialogo, di tipo platonico-socratico, intitolato Qual è la miglior forma di governo? (riedito vent’anni fa da Sellerio), nel quale la pretesa dell’interlocutore denominato «Democraticus» di provare la possibilità di attuare il modello democratico e repubblicano con l’argomento «gli Stati Uniti lo sono» viene demolito dall’antagonista, il quale osserva che tale non può essere un Paese in cui esista la schiavitù.
È una considerazione, oltre che un monito, che vale anche per il nostro presente. Nel giugno 2013 si tenne a Kiev, mentre era al governo il presidente eletto Yanukovich, la conferenza dell’Osce sul traffico di esseri umani. Nel rapporto conclusivo si leggeva: «Dal 2003 il traffico di esseri umani ha continuato a evolversi fino a diventare una seria minaccia transnazionale, che implica gravi violazioni dei diritti umani. Sono stati sviluppati nuovi sofisticati metodi di reclutamento, sottile coercizione e abuso della vulnerabilità delle vittime, nonché di gruppi emarginati e discriminati». A questo si aggiungano le risultanze del rapporto Eurostat sul traffico di esseri umani in Europa dell’aprile 2013. Negli stessi mesi «La Civiltà Cattolica» pubblicava un saggio del gesuita Francesco Occhetta, La tratta delle persone, la schiavitù nel XXI secolo , mentre sul versante giuridico appariva un volume denso non solo di dottrina ma anche di storia, La giustizia e i diritti degli esclusi di Giuseppe Tucci con una significativa introduzione di Pietro Rescigno. Si può ben dire, in conclusione, che l’intreccio tra ramificata, onnipresente e indisturbata malavita e finanza incontrollata e incontrollabile (riciclaggio del denaro «sporco») rappresenta ormai il contesto ideale per lo sfruttamento intensivo e lucroso delle nuove forme di schiavitù. Altro che articolo 600 del nostro codice penale! Il culto feticistico del profitto, del denaro che produce sempre più denaro, è giunto al suo criminogeno apogeo. Ed è tragicomico vedere e ascoltare il personale politico che amministra i Paesi in cui tutto questo è consentito pontificare ipocritamente sulla tutela, in casa d’altri, dei «diritti umani».
mercoledì 9 aprile 2014
Orban e le ricette vincenti (mal tollerate a Bruxelles)...
tratto da L'Intellettuale Dissidente
La rivalità sorta con l’Europa affonda le sue radici nel rifiuto da parte di Orban di sottostare ai dettami economici “suggeriti” dalla Troika, o almeno di rispettarli a modo suo. Respinge l’intromissione da parte del FMI e delle sue misure di austerità per riportare il rapporto deficit/PIL al di sotto della fatidica soglia del 3% e attua invece iniziative profittevoli che non vadano a colpire – caso pressoché unico nell’UE – la classe media.
A dispetto delle speranze degli europeisti e degli ammonimenti della Troika, il popolo ungherese si tiene ben stretto il suo primo ministro Orban, riconfermandolo con un plebiscito che gli garantisce nuovamente una maggioranza schiacciante del parlamento di Budapest. Non va oltre una lieve crescita la formazione di destra Jobbik e si assesta sul risultato di quattro anni fa anche la coalizione “moderata”, un fronte che riuniva liberali, socialisti e verdi nel vano tentativo di fermare il premier uscente. Viktor Orban si gode dunque la meritata vittoria frutto dei risultati conseguiti negli ultimi anni, che, pur convincendo gli ungheresi, avevano fatto drizzare i capelli alle istituzioni europee e d’oltreoceano a causa della cosiddetta “deriva autoritaria” del paese magiaro, frettolosa definizione con cui è stata dipinta la riforma costituzionale attuata dal premier nell’ultimo mandato
La rivalità sorta con l’Europa affonda le sue radici nel rifiuto da parte di Orban di sottostare ai dettami economici “suggeriti” dalla Troika, o almeno di rispettarli a modo suo. Respinge l’intromissione da parte del FMI e delle sue misure di austerità per riportare il rapporto deficit/PIL al di sotto della fatidica soglia del 3% e attua invece iniziative profittevoli che non vadano a colpire – caso pressoché unico nell’UE – la classe media; come ad esempio quella di alzare la tassazioni sugli investimenti dei grandi gruppi stranieri e non sugli stipendi o sui consumi dei cittadini. Riporta così l’economia a crescere dopo una crisi che coinvolgeva il Paese da ben prima di quella scoppiata nel 2008, guarda ad Est e stringe importanti accordi commerciali con Kazakistan e Cina aumentando le infrastrutture atte alla distribuzione delle merci dirette verso l’Europa e si lega più forte a Mosca e quindi a Putin, con il quale Orban ha instaurato cordiali rapporti di amicizia e una certa affinità ideologica. Con Gazprom che fornisce già all’Ungheria quasi il 90% del totale di gas e petrolio a prezzi competitivi, i nuovi accordi prevedono un prestito di 10 miliardi di dollari per ammodernare due reattori dell’unica centrale nucleare ungherese da parte di Rosatom, l’agenzia nucleare russa in grande espansione. L’abbattimento dei costi energetici costituisce il mantenimento di una delle grandi promesse di Orban e la garanzia di competitività per l’economia ungherese; con la disoccupazione che, non a caso, cala inesorabilmente ed il PIL che arriva a crescere del 2,7 % nell’ultimo trimestre del 2013. Non male.
Ecco quindi come si spiega la netta riconferma del leader ungherese, politico navigato e da sempre alfiere della sovranità nazionale, tenace paladino dell’anticomunismo – in una terra che più di tante altre subì l’atroce dominazione sovietica – ma capace, oggi, di superare le antiche classificazioni volgendo lo sguardo in modo distensivo proprio ai paesi un tempo appartenenti al blocco socialista. Senza lasciarsi attrarre dalle sirene liberiste e liberaliste degli Stati Uniti, fatte proprie, come purtroppo spesso accade, anche dall’Unione Europea. Accanto alle coraggiose misure economiche vi è infatti un profondo orgoglio nazionale insito nel popolo ungherese e un desiderio di emancipazione da ogni singolo dettame di Bruxelles, reso ancor più evidente dalla tanto esecrata riforma costituzionale che ha dato una scossa ad un Paese ancora avvolto nel torpore socio-economico provocato da decenni di comunismo. Fra le misure più contestate della nuovaMagna Charta di Budapest – che va ricordato, ne sostituiva una figlia ancora della dominazione russa e che un’aggiustatina la meritava – l’aver stabilito la natura eterosessuale del matrimonio, la maggior interdipendenza fra Stato e Chiesa, leggi più dure contro l’accattonaggio e una riforma universitaria che vincoli gli studenti meritevoli e vincitori di borse di studio a restare in Ungheria per alcuni anni dopo la laurea, per non disperdere il capitale umano del Paese in giro per il mondo. Ma non solo, anche nel campo istituzionale piovono critiche per la riforma elettorale che annulla il secondo turno e per la decisione di dimezzare i seggi del parlamento (che fanno gridare alla “deriva autoritaria”) e infine per un maggior controllo sui media da parte di organi statali, per quanto votati dal parlamento.
Se come si suol dire “sono i risultati a parlare”, ecco che allora il popolo ungherese sembra esser più che soddisfatto dell’operato del suo primo ministro, a dispetto di quanto proclamato dai toni allarmistici dei leader europei. L’opposizione tanto agognata, quella d’ispirazione liberal e che attui senza fiatare ogni singola politica promossa dall’Europa, non si vede all’orizzonte; così come non s’intravede alcun pericolo totalitario per l’Ungheria che, anzi, sembra emergere meglio di molti altri paesi all’interno del pantano della crisi economica, non rinunciando per questo ad una dignitosa sovranità nazionale che inorgoglisca il popolo.
In un’epoca in cui si parla solo di diritti, ben venga anche chi ricorda alla sua gente, in maniera paterna, come per crescere forti e sani ci si debba ricordare anche dei propri doveri. E che a Washington e Bruxelles s’indignino pure.
martedì 8 aprile 2014
L’Arcangelo Sindacalista...
Di Mario M. Merlino
Mi sono intestardito. Non è facile orientarsi fra le doline del Carso. E, a quanto pare, i punti di riferimento, non sono sufficienti. Il Monte San Michele con le caverne che ospitavano l’artiglieria austriaca, la strada deserta che vi conduce con dei cartelli gialli e arrugginiti a indicare tappe della Grande Guerra, il monumento alla Brigata Sassari e la Trincea delle Frasche… Già, all’assalto di essa, quel 23 ottobre 1915, cadde con il 32° reggimento brigata Siena – né mai il corpo fu ritrovato (fu per questo che divenisti per tutti l’Arcangelo Sindacalista?) – Filippo Corridoni. Tra San Martino al Carso e monte Sei Busi. Ed io vado cercando il Cippo, eretto nel 1923, per volontà di Benito Mussolini che gli fu amico e compagno di battaglie sociali prima e poi interventiste.
Infine, dei cipressi e una stele alta e bianca compare e scompare alla vista. Una visione, un desiderio del cuore, nella mente le pagine lette di vecchie pubblicazioni sui sentieri e le trincee della I Guerra Mondiale, non so e poco m’importa. Fermo la vecchia e rossa 127, mi inoltro per un sentiero, discendo tra pietre e ciottoli che rendono insicuro il passo ed eccolo davanti a me, imponente nei suoi 23 metri d’altezza, la mano aperta in gesto di saluto, l’aquila che si volge ad Oriente, il fascio, i simboli del lavoro quali la ruota dentata e l’aratro. E la scritta apposta ‘Qui eroico combattente cadde Filippo Corridoni fecondando col sacrificio della vita la gloria della patria e l’avvenire del lavoro’. Mi irrigidisco sull’attenti stendo il braccio con la mano levata.
Rifletto. Si è detto che Mussolini abbia voluto arruolare Corridoni quale precursore del Fascismo, per nobilitare se stesso e le idee che, al contrario, andavano sempre più asservendosi alle istituzioni liberali e ai valori della borghesia. Il paese di nascita, Pausula, in provincia di Macerata, vide il nome cambiato in Corridonia – e questo è privilegio assai raro. Inoltre la Scuola di mistica fascista lo elevò a profeta e martire di chi, in nome degli ideali, si dona con la mente ed il cuore. Eppure la fondazione dei Fasci di combattimento avvenne quattro anni dalla sua morte (obiezione risibile e stupida chè gli uomini vivono e muoiono nel tempo loro dato, le idee e gli esempi sono e appartengono ad altra sfera). E inadeguata mi sembra anche l’osservazione dell’ex ambasciatore Sergio Romano, pur sobrio e attento a pronunciare giudizi affrettati e di parte. Scrive: ‘ho l’impressione che nel rendere onore a questa singolare figura di interventista rivoluzionario fosse animato anche da un sentimento di nostalgia per le origini del fascismo e, forse, per il proprio passato’.
E’ una ipotesi che si allinea con la interpretazione di De Felice che, ad esempio, parla della rapida trasformazione del movimento, che ai suoi esordi è ancora impregnato di ideali socialisti e libertari, in un regime pronto a sposare le esigenze della monarchia, della classe imprenditoriale ed agraria, del ceto medio timoroso e ‘pantofolaio’… Eppure in quella epigrafe il combattente della Grande Guerra è colui che s’immola anche e soprattutto per ‘l’avvenire del lavoro’ che è non soltanto rispettosa della vicenda umana e politica di Corridoni (mentre sui morti è facile mettere parole ed etichette di comodo), ma esprime la volontà di realizzare quanto e di più si è sognato per l’avvenire (quel tipo di interventismo che intese la guerra quale ardente fucina per trasformare le masse in popolo e un paese in nazione, coniugando il senso della patria con la giustizia sociale).
Che, poi, il fascismo soggetto a troppi compromessi finì per confondere i mezzi con il fine, ad adagiarsi in una coreografia più che alimentare uno spirito nuovo, siamo purtroppo disposti a concederlo. Mai dimentico, però, che era nato come altra cosa e ad altro avrebbe voluto tendere e intendere, magari in alcune sue componenti, quelle più legate al mondo del lavoro, appunto. Di quel mondo del lavoro, di quel sindacalismo le cui radici si chiamavano Filippo Corridoni e si nutrivano dei tanti che, come lui, s’erano dati con tutta l’anima e il corpo al sogno di redenzione delle masse in nome di un mondo più equo.
‘Ho amato le mie idee più di una madre, più di qualsiasi amante cara, più della vita. Le ho servite sempre ardentemente, devotamente, poveramente. (Scrive) Chè anche la povertà ho amato, come San Francesco d’Assisi e fra Jacopone, convinto che il disprezzo delle ricchezze sia il migliore ed il più temprato degli usberghi per un rivoluzionario’. (E, raccontava l’attore Walter Chiari che dalle tasche del Duce, appeso nello scempio di piazzale Loreto ad un distributore di benzina, non cadesse neppure una monetina). Confronto con l’oggi non è ammissibile; mi rifiuto.
Nel mio studio, in modesta cornice, con la firma tremolante della madre Enrichetta e la data del 24 ottobre 1936, vi è la fotografia di Corridoni, il volto di un giovane dallo sguardo diretto e franco, dal fiocco nero al posto della cravatta come erano usi i socialisti e gli anarchici (e il sottoscritto il giorno del suo matrimonio). Penso. Dopo il ’45 c’è stata una mutazione di carattere genetico (Julius Evola ricordava come, all’uomo di Mussolini, caduto in massima parte sui fronti di guerra – i Niccolò Giani, ad esempio, i Guido Pallotta e Berto Ricci, i giovani e giovanissimi, fieri e disperati, volontari della guerra perduta -, s’è andato sostituendo l’uomo della razza di Andreotti e, dietro la facile ironia della fisiognomica, la ben più triste immagine di un modus operandi). E il volume di circa mille pagine di Ivon de Begnac L’arcangelo sindacalista, si badi bene, pubblicato nel marzo del 1943 dalla Mondadori. Si badi bene la data, pochi mesi prima la caduta del fascismo, oltre vent’anni dalla morte di Corridoni. Un tempo lungo se si vuole dimenticare, un tempo breve di fronte al sogno infranto…
Lo sfoglio, mi soffermo su una pagina fra le tante. ‘E quando scoccherà l’ora del bello e grande cimento, ognuno di voi, ognuno di noi, saprà compiere il proprio dovere e saprà ben morire per sapere ben vivere’. Già, di che parliamo noi, oggi? Un po’ di barricate, qualche bastone e qualche bottiglia molotov, nella notte il lampo traditore della P38, dei giovani corpi sull’asfalto, manette chiavistelli e sbarre alla finestra, poi i tribunali le gabbie e i molti che non hanno retto al primo urto, alla prospettiva del sacrificio… Domenica, all’uscita della metropolitana Laurentina, il luogo ove Peppe Dimitri è corso incontro alla morte involontaria. Allora, se è vero che ben poco ha dato la nostra generazione, ha però saputo essa stessa partorire degli Arcangeli…
lunedì 7 aprile 2014
Renzi, gaffe in tv su Eni: “E’ un pezzo fondamentale dei nostri servizi segreti”...
da IL FATTO
Gaffe di Matteo Renzi sull‘Eni. Ieri sera il premier era ospite a Otto e mezzo, su La7. Si parlava di nomine ai vertici delle aziende pubbliche e, in particolare, dei requisiti di onorabilità che il ministro dell’Economia, Padoan, vuole imporre ai loro amministratori. Tentando di dribblare una domanda di Lilli Gruber sulla possibilità che Paolo Scaroni, ad del gruppo energetico, sia riconfermato nonostante la recente condanna in primo grado, il premier si è però fatto scappare una rivelazione ben più compromettente: ha rivelato, in pratica, che il gruppo energetico ha stretti legami con gli uomini dei servizi. Questa, testualmente, la frase incriminata: “L’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti“.
Apriti cielo: Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia, ora grida allo scandalo e parla di “gaffe inqualificabile e pericolosa“. Che cosa c’è sotto è presto detto: a livello ufficioso è noto che le sedi estere del Cane a sei zampe spesso ospitano anche le nostre “barbe finte”, più o meno mascherate da dipendenti. Un segreto di Pulcinella, forse, ma custodirlo è buona norma e dichiararlo in prima serata non è certo consigliabile. In primo luogo per la sicurezza stessa di chi per l’Eni lavora, magari in Paesi politicamente turbolenti. Ma anche perché, come ha sottolineato Guido Crosetto, coordinatore di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale, l’affermazione “potrebbe essere usata da qualunque concorrente, all’estero, per bloccare contratti o gare”. Per non dire del fatto che potrebbe addirittura configurarsi l’ipotesi di rivelazione di segreto di Stato.
venerdì 4 aprile 2014
Un nuovo saggio sul delitto Gentile: il ruolo dell’intelligence britannica e l’ipocrisia degli intellettuali fiorentini...
di Renato Berio (Secolo d'Italia)
C’è qualcosa che lega l’omicidio del filosofo Giovanni Gentile – avvenuto il 15 aprile del 1944, settanta anni fa – al delitto Moro e al delitto Calabresi. Qualcosa di irrisolto, di oscuro, di inedito. Si conoscono gli esecutori, cioè, ma non i mandanti. Lo ha scritto Paolo Mieli presentando sul Corriere l’imminente uscita (il 16 aprile) del saggio di Luciano Mecacci, La ghirlanda fiorentina (Adelphi, pp. 528, euro 25) dedicato proprio ai risvolti “indicibili” dell’assassinio di Gentile. Un libro che apre squarci notevoli sulle pagine grigie del caso Gentile che segue altri titoli (i saggi di Francesco Perfetti e Paolo Poletti, rispettivamente usciti nel 2004 e nel 2005) che rimandano a una pista plausibile: il coinvolgimento dei servizi segreti inglesi nell’eliminazione di un filosofo scomodo. Anche Luciano Canfora, nel saggio La sentenza (Sellerio, 1985) si era occupato del caso. Come ricorda Paolo Mieli erano stati due filosofi, Cesare Luporini e Gennaro Sasso, a parlare di un livello “indicibile” del delitto Gentile.
Gennaro Sasso dopo l’uscita del saggio di Canfora si spinse a dire che “i servizi segreti d’Oltremanica possono essere entrati in qualche modo nell’assassinio, in parte manovrando i partigiani comunisti, facendo così una sorta di prova generale di un’altra ben più importante uccisione: quella di Mussolini”. Nel suo libro Mecacci cerca di ricostruire i rapporti tra i servizi segreti inglesi, Radio Cora (emittente clandestina del Partito d’Azione) e un circolo di intellettuali fiorentini (tra cui Eugenio Garin e Antonio Banfi) che avrebbero avuto anch’essi un ruolo nell’affaire Gentile. Mieli spiega che probabilmente Gentile fu ucciso non per il suo passato ma per il suo futuro: attorno a Gentile “si stava creando una corrente politica pronta a offrire una soluzione di compromesso – la pacificazione nazionale – per fare uscire dalla guerra la Rsi”. Un’eventualità di cui gli Alleati non volevano neanche sentir parlare.
Retroscena che di certo sono importanti per chiarire meglio un contesto tutt’altro che limpido anche se, sopra ogni cosa, resta l’avallo e il sigillo forniti da Palmiro Togliatti all’omicidio e ricordati da Sergio Romano in risposta a una lettera delCorriere (2008). Romano ricorda che qualche giorno prima dell’uccisione di Gentile «lo storico Concetto Marchesi, già rettore dell’Università di Padova, aveva scritto in Svizzera un articolo polemico contro Gentile e i suoi inviti alla riconciliazione nazionale. L’articolo apparve anonimo su un giornale clandestino dei comunisti milanesi in una versione che terminava con queste parole: Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!. Le parole conclusive non appartenevano al testo di Marchesi ed erano state aggiunte da Girolamo Li Causi. Ma divennero parole di Marchesi quando Palmiro Togliatti riprodusse l’articolo su Rinascita dell’1 giugno 1944 e lo fece precedere da una nota intitolata Sentenza di morte di cui Sergio Bertelli ha ritrovato il testo autografo. Eccolo: Questo articolo di Concetto Marchesi venne pubblicato nel numero 4 (marzo 1944) della rivista del Partito comunista La nostra lotta che si pubblica clandestinamente nelle regioni occupate dai tedeschi.
Esso venne scritto in risposta a un miserando e vergognoso appello di Giovanni Gentile alla “concordia”, cioè al tradimento della patria, apparso nel Corriere della Sera fascista. Poche settimane dopo la divulgazione di questo articolo, che suona come atto di accusa di tutti gli intellettuali onesti contro il filosofo bestione, idealista, fascista e traditore dell’Italia, la sentenza di morte veniva eseguita da un gruppo di giovani generosi e la scena politica e intellettuale italiana liberata da uno dei più immondi autori della sua degenerazione. Per volere ed eroismo di popolo, giustizia è stata fatta».
mercoledì 2 aprile 2014
Vietato studiare gli autori di destra...
di Dino Messina
Quanto conta il fattore ideologico nella valutazione del curriculum di un professore universitario? La risposta dovrebbe essere «zero», altrimenti si ritornerebbe all’incubo degli anni Settanta, quando in alcuni atenei e in alcune materie difficilmente riuscivi ad andare in cattedra se non professavi la fede nel «metodo marxista». Il pregiudizio ideologico nei concorsi universitari in realtà non è scomparso né è valsa ad eliminarlo la riforma Gelmini che ha istituito liste nazionali di abilitazioni.
Le cronache dei concorsi recenti parlano di candidati bocciati insoddisfatti, cosa del tutto normale. Ma anche di scandalo tra i colleghi a leggere certe motivazioni negative. A Simonetta Bartolini, biografa di Ardengo Soffici, come rilevava ieri Renato Besana su «Libero», è capitato di essere bocciata al concorso di abilitazione a professore associato perché, come si legge nella valutazione di uno dei commissari, Mario Sechi, omonimo del giornalista, «presenta un profilo marcatamente militante», essendosi occupata di «autori rivendicati dalla destra politica come fondativi di una tradizione alternativa a quella “vincente” ed egemonicamente canonizzata: da Soffici a Barna Occhini, di cui ha pubblicato il carteggio, a Papini e Guareschi...». Insomma, va bene tutto, ma guai a occuparsi di autori di destra.
Un po’ lo stesso criterio con cui è stata negata l’abilitazione a professore ordinario a uno studioso più noto, come Alessandro Campi, autore di saggi su Niccolò Machiavelli e Carl Schmitt, Giovanni Gentile e Gianfranco Miglio. Commentando i diciotto titoli presentati per ottenere l’abilitazione da ordinario in storia delle dottrine politiche, l’esaminatore Angelo d’Orsi ha commentato: «Buona parte di tali lavori affronta il fascismo e i movimenti politici reazionari. Suscita perplessità il carattere fortemente ideologico di tanta parte della sua produzione...». Un giudizio duro per uno storico affermato, non condiviso dalla comunità accademica. Tanto che un’autorità della sinistra come il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha invitato Campi nel comitato scientifico di Biennale democrazia che si svolge a Torino. I casi di valutazione ideologica sono diversi e sembra siano già partiti molti ricorsi.
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