Di Mario M. Merlino
Mi sono intestardito. Non è facile orientarsi fra le doline del Carso. E, a quanto pare, i punti di riferimento, non sono sufficienti. Il Monte San Michele con le caverne che ospitavano l’artiglieria austriaca, la strada deserta che vi conduce con dei cartelli gialli e arrugginiti a indicare tappe della Grande Guerra, il monumento alla Brigata Sassari e la Trincea delle Frasche… Già, all’assalto di essa, quel 23 ottobre 1915, cadde con il 32° reggimento brigata Siena – né mai il corpo fu ritrovato (fu per questo che divenisti per tutti l’Arcangelo Sindacalista?) – Filippo Corridoni. Tra San Martino al Carso e monte Sei Busi. Ed io vado cercando il Cippo, eretto nel 1923, per volontà di Benito Mussolini che gli fu amico e compagno di battaglie sociali prima e poi interventiste.
Infine, dei cipressi e una stele alta e bianca compare e scompare alla vista. Una visione, un desiderio del cuore, nella mente le pagine lette di vecchie pubblicazioni sui sentieri e le trincee della I Guerra Mondiale, non so e poco m’importa. Fermo la vecchia e rossa 127, mi inoltro per un sentiero, discendo tra pietre e ciottoli che rendono insicuro il passo ed eccolo davanti a me, imponente nei suoi 23 metri d’altezza, la mano aperta in gesto di saluto, l’aquila che si volge ad Oriente, il fascio, i simboli del lavoro quali la ruota dentata e l’aratro. E la scritta apposta ‘Qui eroico combattente cadde Filippo Corridoni fecondando col sacrificio della vita la gloria della patria e l’avvenire del lavoro’. Mi irrigidisco sull’attenti stendo il braccio con la mano levata.
Rifletto. Si è detto che Mussolini abbia voluto arruolare Corridoni quale precursore del Fascismo, per nobilitare se stesso e le idee che, al contrario, andavano sempre più asservendosi alle istituzioni liberali e ai valori della borghesia. Il paese di nascita, Pausula, in provincia di Macerata, vide il nome cambiato in Corridonia – e questo è privilegio assai raro. Inoltre la Scuola di mistica fascista lo elevò a profeta e martire di chi, in nome degli ideali, si dona con la mente ed il cuore. Eppure la fondazione dei Fasci di combattimento avvenne quattro anni dalla sua morte (obiezione risibile e stupida chè gli uomini vivono e muoiono nel tempo loro dato, le idee e gli esempi sono e appartengono ad altra sfera). E inadeguata mi sembra anche l’osservazione dell’ex ambasciatore Sergio Romano, pur sobrio e attento a pronunciare giudizi affrettati e di parte. Scrive: ‘ho l’impressione che nel rendere onore a questa singolare figura di interventista rivoluzionario fosse animato anche da un sentimento di nostalgia per le origini del fascismo e, forse, per il proprio passato’.
E’ una ipotesi che si allinea con la interpretazione di De Felice che, ad esempio, parla della rapida trasformazione del movimento, che ai suoi esordi è ancora impregnato di ideali socialisti e libertari, in un regime pronto a sposare le esigenze della monarchia, della classe imprenditoriale ed agraria, del ceto medio timoroso e ‘pantofolaio’… Eppure in quella epigrafe il combattente della Grande Guerra è colui che s’immola anche e soprattutto per ‘l’avvenire del lavoro’ che è non soltanto rispettosa della vicenda umana e politica di Corridoni (mentre sui morti è facile mettere parole ed etichette di comodo), ma esprime la volontà di realizzare quanto e di più si è sognato per l’avvenire (quel tipo di interventismo che intese la guerra quale ardente fucina per trasformare le masse in popolo e un paese in nazione, coniugando il senso della patria con la giustizia sociale).
Che, poi, il fascismo soggetto a troppi compromessi finì per confondere i mezzi con il fine, ad adagiarsi in una coreografia più che alimentare uno spirito nuovo, siamo purtroppo disposti a concederlo. Mai dimentico, però, che era nato come altra cosa e ad altro avrebbe voluto tendere e intendere, magari in alcune sue componenti, quelle più legate al mondo del lavoro, appunto. Di quel mondo del lavoro, di quel sindacalismo le cui radici si chiamavano Filippo Corridoni e si nutrivano dei tanti che, come lui, s’erano dati con tutta l’anima e il corpo al sogno di redenzione delle masse in nome di un mondo più equo.
‘Ho amato le mie idee più di una madre, più di qualsiasi amante cara, più della vita. Le ho servite sempre ardentemente, devotamente, poveramente. (Scrive) Chè anche la povertà ho amato, come San Francesco d’Assisi e fra Jacopone, convinto che il disprezzo delle ricchezze sia il migliore ed il più temprato degli usberghi per un rivoluzionario’. (E, raccontava l’attore Walter Chiari che dalle tasche del Duce, appeso nello scempio di piazzale Loreto ad un distributore di benzina, non cadesse neppure una monetina). Confronto con l’oggi non è ammissibile; mi rifiuto.
Nel mio studio, in modesta cornice, con la firma tremolante della madre Enrichetta e la data del 24 ottobre 1936, vi è la fotografia di Corridoni, il volto di un giovane dallo sguardo diretto e franco, dal fiocco nero al posto della cravatta come erano usi i socialisti e gli anarchici (e il sottoscritto il giorno del suo matrimonio). Penso. Dopo il ’45 c’è stata una mutazione di carattere genetico (Julius Evola ricordava come, all’uomo di Mussolini, caduto in massima parte sui fronti di guerra – i Niccolò Giani, ad esempio, i Guido Pallotta e Berto Ricci, i giovani e giovanissimi, fieri e disperati, volontari della guerra perduta -, s’è andato sostituendo l’uomo della razza di Andreotti e, dietro la facile ironia della fisiognomica, la ben più triste immagine di un modus operandi). E il volume di circa mille pagine di Ivon de Begnac L’arcangelo sindacalista, si badi bene, pubblicato nel marzo del 1943 dalla Mondadori. Si badi bene la data, pochi mesi prima la caduta del fascismo, oltre vent’anni dalla morte di Corridoni. Un tempo lungo se si vuole dimenticare, un tempo breve di fronte al sogno infranto…
Lo sfoglio, mi soffermo su una pagina fra le tante. ‘E quando scoccherà l’ora del bello e grande cimento, ognuno di voi, ognuno di noi, saprà compiere il proprio dovere e saprà ben morire per sapere ben vivere’. Già, di che parliamo noi, oggi? Un po’ di barricate, qualche bastone e qualche bottiglia molotov, nella notte il lampo traditore della P38, dei giovani corpi sull’asfalto, manette chiavistelli e sbarre alla finestra, poi i tribunali le gabbie e i molti che non hanno retto al primo urto, alla prospettiva del sacrificio… Domenica, all’uscita della metropolitana Laurentina, il luogo ove Peppe Dimitri è corso incontro alla morte involontaria. Allora, se è vero che ben poco ha dato la nostra generazione, ha però saputo essa stessa partorire degli Arcangeli…
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