di Mario M. Merlino
Lunedì 2 giugno, piazza del Popolo. All’ombra della torre del municipio, simbolo di Latina, della Littoria della bonifica.. I gazebo con i libri fanno come una sorta di corona al salottino dove si svolgono gli incontri letterari. Pomeriggio di sole, aria di mare. Presentiamo, Roberto ed io, La guerra è finita. Mezz’ora in tutto, lasciando maggior spazio a Carla che s’è prestata ad introdurci. Mi aggiro, poi, a curiosare in attesa della sera, una pizza, e il rientro a Roma. Trovo un tascabile della Historica edizioni, dalla copertina intrigante, il tricolore svettante e con al centro il fascio e la falce, dal titolo Nicola Bombacci, tra Lenin e Mussolini. L’autore è un giovane ricercatore Daniele Dell’orco, laureando all’università di Tor Vergata. L’acquisto. Il merito di questo libricino, centosessanta pagine in formato ridotto e con i caratteri robusti (ottimo per i miei occhi!), lo si trova in poche righe alla pagina 8: ‘La coltre di silenzio calata sul nome di Bombacci è forse ancora più infamante dell’appellativo di super traditore’…
Già. Eppure era stato appeso a testa in giù alla pompa di benzina in quello scempio che fu piazzale Loreto, volendo restare vicino all’amico Benito, prima compagno di battaglie socialiste e Duce poi del fascismo. Fra i fondatori del partito comunista, al teatro San Marco di Livorno, gennaio 1921, stimato dallo stesso Lenin con cui ebbe colloqui privati. Ebbene, in quei giorni di tragedia dell’aprile ’45, egli volle seguirne la sorte là, lungo la spalletta del lago di Como, accanto ai fedelissimi dell’ultima ora con il pugno chiuso levato e il grido strozzato verso la fede nel socialismo e in nome dell’amicizia per Mussolini. Avverso in vita e in morte, negata la memoria, sia da parte dei suoi compagni, che ne spurgarono il nome nelle rievocazioni apologetiche della nascita del partito, sia nell’ambito della destra che aveva sposato, nel dopoguerra, tutto il ciarpame borghese e messo in soffitta quanto di ‘rivoluzionario’ il fascismo aveva proposto e tentato di realizzare…
Io stesso – e mi duole ammetterlo – in questi interventi ne ho trascurato di ricordarne la vicenda umana politica di idee… E nell’esperienza giovanile prima nella Giovane Italia, brevemente nel MSI e, infine, all’università il nome di Nicolino, come lo chiamava affettuosamente Mussolini, appariva assai raramente. Troppo pervasi, noi, di anticomunismo, di scontri davanti le scuole in strada a piazza della Minerva de La Sapienza, lenti a intendere come il nemico vero era un altro – quello che oggi, spudoratamente, fa bella mostra di sè, avendo fagocitato sia la sinistra sia la destra, comprando le loro avversioni reticenze radici con la camicia intonata alla cravatta, il salotto della Roma-bene, gli appalti le finanziarie le poltrone e spalmando su tutto e tutto il grigio putrido della corruzione…
E, forse, sta anche qui il silenzio, la pietra tombale, che ricopre la figura di Bombacci. Il disagio di confrontarsi non tanto con un uomo che fu amico di Lenin e andò consapevole a morire a fianco di Mussolini quanto con un ‘galantuomo’ (la definizione appartiene a Dell’orco e noi la condividiamo volentieri), un uomo che non volle e non ebbe incarichi, vivendo sempre al limite dell’indigenza, fedele di fatto all’ideale di riscatto del proletariato e dei suoi bisogni e della sua dignità, figlio di quel socialismo che animò il nostro paese già dalla metà dell’Ottocento e a cui lo stesso Mussolini, pur con i troppi compromessi con la monarchia la chiesa gli industriali, rimase legato e che tentò di rinverdire nel momento più cupo della nostra storia (cupo tragico ma anche esaltante e degno d’ogni nostro sentire…). Essere coerenti, anteporre l’ideale agli interessi pratici, vivere nel disprezzo dei beni ed essere pago di servire la mente ed il cuore è moneta svalutata, di pessimo conio agli occhi dei servi degli usurai…
‘Voi vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, comunista, amico di Lenin, di vent’anni fa. Sissignori, sono sempre lo stesso, perché io non ho mai rinnegato i miei ideali per i quali ho lottato e per i quali, se Dio mi concederà di vivere ancora, lotterò sempre. Ma se mi trovo nelle file di coloro che militano nella Repubblica Sociale Italiana, è perché ho veduto che questa volta si fa sul serio e che si è veramente decisi di rivendicare i diritti degli operai…’ (primi giorni di marzo del ’45, discorso pronunciato davanti agli operai dell’Ansaldo).
Cresciuto nella Romagna, ove forti sono le passioni i legami l’amicizia e i contrasti, egli si avvia sulla strada di quella lotta politica che lo metterà in contatto con Mussolini, entrambi maestri, entrambi fautori di quella linea radicale che male sopportava e digeriva l’ala riformista di cui si faranno fautori dell’espulsione al congresso di Reggio Emilia del 1912. Entrambi si rifanno all’altro romagnolo che fu Alfredo Oriani, che ne forgiò con i suoi scritti l’animo ardente e la profezia di una ‘aristocrazia dello spirito’, che nel futuro Duce divennero i giovani in camicia nera e che in Bombacci rappresentavano l’avanguardia di popolo in armi. Lo stesso Pietro Nenni, storica figura del socialismo nel dopoguerra, anch’egli romagnolo e di cui, si dice, che in esilio in Francia ricevesse denaro dal suo vecchio compagno tramite l’OVRA. E l’elenco potrebbe continuare. Io stesso, trascorsa gran parte della mia infanzia e giovinezza sulla costa romagnola, confermo la presenza di una sorta di ‘romagnolità’ tacita e tenace…
Mentre Mussolini si muove, prima da direttore della redazione milanese de L’Avanti e poi, dopo la sua espulsione, attraverso le pagine de Il Popolo d’Italia, verso l’intervento e la consapevolezza della Grande Guerra come fenomeno rivoluzionario, Nicolino tende al contrario a radicalizzare le sue posizioni convinto che sarà, sempre e comunque, il proletariato a pagare in sangue e lavoro. Ed ecco apparire in Russia Lenin, artefice principale della rivoluzione bolscevica, aprire il sogno – sovente una illusione – di poter realizzare qualcosa di analogo in tante parti d’Europa. Italia compresa. E la conclusione del conflitto sembra dare ragione al socialismo – soli contro tutti –. Già nel 1913 Bombacci si era rivolto ai suoi compagni, ammonendo come fosse di certo ‘Meglio la solitudine ideale che fortifica, piuttosto che i connubi degenerati che sfibrano’ (e quanti ne abbiamo subiti di ‘connubi’ con la giustificazione che poi, poi si sarebbero realizzati ‘dal di dentro’ i nostri sogni i nostri ideali… di questa destra simile ad assetati nel deserto in cerca di un’oasi ove scoppiare per il troppo bere!).
La coerenza, dunque, e prima di tutto e in ogni caso. E, ancora una volta, la consapevolezza che, essendo il fascismo complessità – e non, come dà da intendere Renzo De Felice che lo trasforma in un contenitore vuoto ad uso personale e di comodo del Duce –, sta a noi riconoscere le componenti con cui confrontarci e da cui continuare il cammino. ‘Immenso e rosso’, di quel fascismo proletario quale ricerca di una via nazionale al socialismo e capace di incarnare il suo anticonformismo, l’essere antiborghese, avere in privilegio l’irriverenza al confine dell’eresia… Ecco: quando il Duce si prepara a lasciare Milano e sale in automobile, a fianco gli siede il vecchio amico e compagno, sereno e consapevole d’essere parte di quell’immensa tragedia che si consumerà lungo il lago di Como. Così, mentre la destra si manifesta immergendo fino ai gomiti l’avidità l’incuria l’inconsistenza, c’è chi sa riconoscere coloro che gli sono maestri e gli camminano a fianco…