lunedì 31 marzo 2014

Mondialismo e Sessualità. L’avvento dell’uomo senza identità...



di Giovanni Sessa (centro studi La Runa)

Il nemico principale di chi, nella realtà contemporanea, si batta per valori comunitari e tradizionali, senza dubbio alcuno, va identificato nell’ideologia liberale. Essa ha saputo produrre e produce allo stato attuale delle cose un’azione profonda e pervasiva tale da condizionare visioni del mondo che, almeno al loro sorgere, avevano tratti oppositivi nei confronti del dominio incontrastato dell’utile e delle prassi sociali mirate alla realizzazione di profitti sempre più ampi. Oggi assistiamo ad una fuorviante e teatrale divisione dei ruoli politici che, falsamente, contrappone una destra ad una sinistra. Nella realtà la “destra del mercato” impone le regole economico-finanziare alle società globalizzate, mentre la “sinistra del costume” indica e contribuisce a diffondere i modelli e gli stili di vita funzionali alla riproduzione del sistema economico totalitario della governance. Entrambe, come è stato ben spiegato da Guy Hermet, segnano i confini intellettuali del politicamente corretto, oltre i quali sono posti in “isolamento ininfluente” (nei migliori dei casi), i Nuovi Reprobi, coloro che ripropongono Tradizione, ragione naturale o, addirittura, valorizzano il senso comune quale difesa dai Lumi rinascenti del Nuovo Regime.

Sul tema, e su altro ancora, ha attirato la nostra attenzione un recente volume di Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta,Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità” edito da Arianna editrice (per ordini:051/8554602;redazione@ariannaeditrice.it). Dopo aver abbattuto gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del mondo global, dopo aver di fatto straziato ogni appartenenza identitaria, ogni forma residuale di legame o vincolo tradizionale tra gli uomini, dopo aver de-sacralizzato la natura, ridotta a mera estensione, ecco i potentati mondialisti porsi “laicamente” (questa è la loro religione) al servizio dell’ideologia di genere. Ciò nel tentativo di creare l’uomo nuovo, consumatore “senza identità”. Secondo tale ideologia il maschile e il femminile non sarebbero distinzioni naturali ma prodotti culturali, imposti dalle scelte educative “sessiste” nel corso di millenni. Tra il maschio e la femmina esisterebbero, inoltre, un numero indefinito di altri generi, comprendenti le diverse forme di omosessualità, la pedofilia, la bisessualità, considerate naturali allo stesso modo dell’eterosessualità.



Il libro, ricco di dati e statistiche e che coinvolge nel narrato il lettore, ripercorre la storia dell’ideologia di genere. Ricordano gli autori che padre ufficiale del gender è da considerarsi lo psichiatra americano John Money, sostenitore della “nuova sessualità”. A suo dire la differenziazione culturale dei sessi sarebbe riducibile a: “…mero ornamento, una realtà che quindi può diventare superata e obsoleta” (p. 41). Purtroppo, uno dei suoi primi e tristemente noti pazienti, David Reimer, divenuto a seguito di un intervento chirurgico subito da bambino, Brenda Reimer, lo smentì drammaticamente, suicidandosi per gli squilibri indotti dal cambio di sesso. Le tesi di Money cominciarono a circolare ampiamente nel momento in cui diventarono uno strumento che i Poteri Forti decisero, dopo gli anni Settanta, di utilizzare per i loro fini: creare l’Uomo Nuovo compatibile con il progetto del Nuovo Ordine Mondiale. Un essere: “… resettato e omologabile, stereotipato e apolide” (p. 33). Il braccio militante del gender è oggi facilmente individuabile nei movimenti gay che, allo scopo, come ricordano con dati puntuali Perrucchietti e Marletta, dispongono di ingenti fondi elargiti da Fondazioni e miliardari, tra i quali figurano gli immancabili George Soros e Bill Gates. Tra i sostenitori politici d’oltreoceano del movimentismo omosessuale, del resto, non vanno annoverati solo liberal come Obama, ma anche nomi importanti degli ambienti neoconservatori.

Il successo propagandistico delle loro azioni negli ultimi decenni è stato rilevante in tutto il mondo. Non solo nelle leggi di molti paesi occidentali, ma nell’immaginario collettivo dell’uomo medio, l’omofobia è equiparata al razzismo e all’antisemitismo, un reato, quindi, punibile penalmente e ritenuto esecrabile sotto il profilo etico. Le recenti polemiche internazionali che hanno coinvolto Putin e la Russia ortodossa e antimondialista stanno a testimoniare come le cose oggi procedano. Noi italiani non possiamo certo meravigliarci. L’imprenditore Guido Barilla, uno dei nomi più noti internazionalmente del nostro settore agroalimentare, ha subito un vero e proprio linciaggio mediatico per aver sostenuto in una intervista che non si sarebbe servito di una coppia gay in spot pubblicitari, ritenendo naturale la famiglia etero. Apriti cielo! In poco tempo è stato costretto a correggere il tiro e a “edulcorare” le dichiarazioni, affinché i prodotti delle sue imprese non venissero boicottati sul mercato.

Molto interessante, in un capitolo del libro, è l’analisi delle strategie messe in atto per diffondere l’ideologia gender. Innanzitutto ladesensibilizzazione: consiste nell’inondare la società di messaggi di genere affinché l’opinione pubblica giunga a considerarli normali. Il secondo momento è detto delbloccaggio: fermare immediatamente, attraverso il discredito pubblico, bollando come reazionario, nazista, bigotto, chiunque si opponga alle tesi gender. Le prime due strategie sono mirate alla conversione finale, in parte già realizzata. Il comune modo di sentire ha accettato l’ideologia di genere. Il nuovo modello di umanità è costruito sull’idea dell’incontro di tratti somatici dell’uomo con quelli della donna. È l’Unisex trionfante. A ciò hanno contribuito la moda, la chirurgia estetica, il mondo dello spettacolo e i serial televisivi. I maggiori divulgatori di questa tendenza, in particolare presso le nuove generazioni, sono state star internazionali della musica che, a bella posta, hanno giocato sulla presunta o reale ambiguità sessuale. Basti al riguardo fare il nome di Lady Gaga. Lo stesso sistema educativo è ormai condizionato da un modello umano sessualmente e moralmente incerto, si parla di Genitore 1 o 2, anziché di padre e madre. In alcuni paesi europei, al momento della nascita, la definizione del sesso è facoltativa, si può addirittura indicare sul certificato il genere intersessuale con una “x”.

Siamo destinati, pertanto, ad andare verso un mondo che non conoscerà più le diversità che si attraggono e si respingono nell’eterno gioco cosmico della vita? Ci auguriamo di no. In ogni caso rispetto alla situazione attuale, descritta organicamente dai due autori, è necessario attivare degli anticorpi che inneschino una reazione salutare. E’ indispensabile recuperare la tensione all’originario, sempre centrale nelle dottrine tradizionali dell’eros. L’androgino platonico è l’archetipo cui guardare quale ancestrale aspirazione alla completezza perduta. L’uomo potrà incontrarlo di nuovo solo se la tensione che muove le polarità opposte e complementari del maschio e della femmina, sia esperita, prima che nella realtà fisiologica del corpo umano, sotto forma di potenza spirituale. Al riguardo, nel momento in cui il consumismo nell’Italia degli anni Cinquanta cominciava a travolgere le radici tradizionali del nostro popolo,Julius Evola scrisse un’opera in grado di rispondere alla follia del gender, Metafisica del sesso.Bisogna tornare a leggerla con attenzione. Nelle sue pagine l’eros apre all’Alto, è forza riconnetteva e realizzante. Una risposta forte alla debolezza, anche erotica, della modernità.

sabato 29 marzo 2014

Rugby. Marcello de Angelis: “Inconcepibile discriminare un giocatore per il settarismo”...


da barbadillo.it (Michele De Feudis)

“Sei di destra, non giochi”. Il veleno delle contrapposizioni ideologiche scorre anche nello sport e nel rugby con il caso Cirimbilla a Roma: al giocatore dei Corsari non è stato permesso di giocare la partita di campionato contro gli All Reds. Ne abbiamo parlato con Marcello de Angelis, ex rugbista nonché animatore dell’associazione parlamentare amici del Rugby.

Marcello de Angelis, ex militante, ex parlamentare, ex rugbista… Si può dire ex di un rugbista?

Probabilmente no (e direi che non si può dire nemmeno di un militante…) perché è una di quelle attività che si porta dietro un etica e uno stile di vita che nessuno oserebbe intaccare. O almeno così ti direbbe un rugbista vero, anche l’ultimo dei rugbisti, anche uno che abbia solo guardato il rugby dagli spalti.

Chi deve impegnarsi per evitare la riproposizione di dinamiche di un’Italia ormai lontana? La Federazione rugby? La politica?

La vicenda di cui è stato vittima Luca Cirimbilla a Roma ci dice una sola cosa – che nel mondo del rugby capitolino a dire il vero pensavano in tanti – e cioè che questa congrega che si presenta col nome di All Reds col rugby e con i rugbisti non c’entra nulla…
Ovviamente la Federazione, che deve buttare fuori chi si è macchiato di una infamia del genere – qualora sia un iscritto – e dovrebbe anche togliere l’abilitazione al campo occupato dove, evidentemente, la scuola di odio e intolleranza prevale sulla attività sportiva. Sarebbe stato sicuramente bello leggere comunicati bipartisan sui valori dello sport che non devono essere sporcati da questo tipo di atteggiamenti, comunicati che piovono da tutti i lati per eventi di gran lunga meno gravi. Per ora non ce ne sono stati. Ma è pur vero che Cirimbilla – che è un rugbista vero e non un “piagnone” – non si è certo andato a lamentare 

Cosa ha rappresentato nella sua esperienza di militante politico, la passione per il rugby?

Il rugby per me è una cosa di famiglia. Io sono sicuramente quello tra i miei fratelli che ha dato meno lustro allo sport e sono più un amante appassionato che un giocatore. Nanni era un grande giocatore. Giorgio ha fatto di più e più a lungo, lanciando la splendida esperienza della Namau. Al suo funerale c’era tutto il rugby della provincia di Roma e anche oltre. Mancavano solo gli All Reds ma, francamente, sarebbero stati fuori luogo. Germana ha realizzato qualcosa di grandissimo portando il rugby in carcere e formando la squadra dei Bisonti che oggi è considerata anche dal Coni una delle esperienze sportive più meritevoli. Renato è una grande ala, uno sportivo di valore assoluto. Questo è il rugby per me. Forse non è un caso che tutta la mia famiglia condivida anche gli stessi valori.

Avrà giocato con avversari di sinistra, no?

Certo, moltissime volte. Con alcuni c’è grande affetto e non sono di una sinistra moderata. Anche quando ero presidente dell’associazione parlamentari amici del rugby c’erano colleghi del Pd e anche di Rifondazione. Il vicepresidente era Massimo Cialente, l’attuale sindaco di L’Aquila. Il senso dell’associazione, c’era scritto nello statuto, era di portare anche nella politica i valori indiscutibili del rugby: la lealtà, il rispetto dell’avversario che, fuori dalla contesa, può diventare e spesso diventa un fraterno amico, il senso del sacrificio e dell’onore. Tutte cose che – mi sembra evidente – quelli che hanno impedito la partita in cui doveva giocare Cirimbilla non conoscono e non condividono. Non credo siano in buona fede e quindi non sprecherei parole. Se uno fosse un rugbista vero un tale comportamento non l’avrebbe mai concepito. Mi sembra evidente che per queste persone il rugby è solo un travestimento e la loro intenzione è quella di infettare con la loro sottocultura di intolleranza vile una cosa nobile e bella. Quindi gli direi solo di cambiare sport perché questo non fa per loro.

venerdì 28 marzo 2014

L’Uomo “usa e getta” nell’era dell’obsolescenza programmata...

di Guido Rossi (L'Intellettuale Dissidente)

Parlando di oggetti “usa e getta” il primo pensiero va a qualcosa di pratico e di uso immediato, quali magari supporti sanitari (come un banale ago) che per evidenti motivi igienici non vengono utilizzati (si presume) piu’ di una volta. A qualcuno piu’ “vintage” potrebbero pure venire alla mente le ormai storiche macchinette fotografiche che anni fa potevano essere acquistate per cifre ridicole presso qualsivoglia tabaccheria, un facile sostituto per i turisti pigri o distratti che lasciavano a casa le loro “reflex a rullino”, oggi purtroppo quasi estinte. All’alba del XXI secolo si potrebbe credere che la caducità di un oggetto possa essere riferibile soltanto a cose di piccola entità o costo, come ad esempio il cibo, il quale non di meno è diventato ben piu’ “longevo”, venendo sempre piu’ plastificato con conservanti ed altre oscenità chimiche.
In ogni caso è evidente che invece oggi, delle due, tutto si è fatto monouso, con scadenza precedentemente pianificata. CI si sta riferendo in particolare alla “obsolescenza programmata”, un crimine industriale che prevede la manipolazione della vita utile di un prodotto, volta a ridurne drasticamente la temporaneità del suo utilizzo. Un fenomeno, questo, sempre piu’ diffuso tra le maggiori compagnie, prima fra tutte la Apple, che piu’ volte e’ stata citata in giudizio al riguardo, ovviamente senza mai riceve pene di qualsivoglia importanza.
Chiunque avrà notato che oggetti come il computer, il cellulare, il televisore, il lettore mp3 e tutta quella incredibile accozzaglia di prodotti tecnologici presto o tardi comincia a dar problemi spesso di origine ignota. I problemi in questione, evidentemente non dovuti ad incidenti o a manipolazioni esterne (per capirci, nessuno ha lanciato o messo a mollo il cellulare), saranno invece il risultato di coscienziosi programmatori che grazie ai loro “accorgimenti” garantiranno una breve (e voluta) durata ai prodotti sopra citati.
Curiosamente, tutte queste “scadenze”sono spesso facilitate da “aggiornamenti” che appesantiscono i supporti rallentandoli enormemente, ed arriveranno poco dopo un’altra scadenza, quella di garanzia. Verosimilmente si tratterà di un intervento il cui costo sarà praticamente pari al valore di acquisto. Contemporaneamente campagne di marketing apposite non mancheranno di invogliare gli acquirenti verso altri “desideri” ancora piu’ appetibili, seducenti, necessari. L’uomo nel frattempo avrà lasciato spazio ad un’altra creatura, il consumatore, un bipede addomesticato in laboratorio, il quale, circuìto sin dalla nascita, ha difficoltà motorie e cerebrali quando non supportate da congegni tecnologici.
Questi ultimi ovviamente devono essere continuamente sostituiti, giacchè i camici da laboratorio hanno reso l’umanoide consumista assolutamente indipendente dai beni materiali, succube del “like”, vittima delle “selfie”, figlio del cibernetico giudizio. Intanto le compagnie multinazionali ingrassano rifilando a folle materialiste montagne su montagne di materiale scadente rivenduto a caro prezzo, un valore per supportare il quale persone carenti di attenzione vanno spesso a siglare prestiti demoniaci con banche tiranne, perchè l’anima e la salute son ben misera cosa dinanzi allo “status simbol”. La generazione dei bambini nati con l’etichetta.   

mercoledì 26 marzo 2014

La complessità del Front National e le radici solidariste...

Le-Pen
di Mario Bozzi Sentieri (Barbadillo.it)
Al di là della vulgata corrente e delle trite e ritrite analisi dei soliti commentatori  male informati, volete capire qualcosa di più del Front National, delle sue idee, del suo successo, della sua “consistenza sociale” ?
Leggetevi  “Le FN et le social” (a cura di Francois Vial, Editions de L’AEncre, Paris, pagg. 110, Euro 10,00;  per acquisti: diffusion@francephi.com ).
Il libro non è un saggio teorico, con l’immancabile elenco di buoni principi e di ottimi proponimenti, né un pamphlet di denuncia. E’ molto di più. E’ l’assunzione di responsabilità di un mondo, di una comunità politica, rispetto alla crisi economica e sociale che ha segnato il popolo francese ed insieme una risposta concreta ed immediata, fatta di presenza sul territorio, di vicinanza al mondo dei più poveri e degli “esclusi”. E’ la Storia dell’ ASP (Action Sociale Populaire) e del suo fondatore, Padre  Jean-Pierre Blanchard, grande amico di Jean-Marine Le Pen.
Creata nel  2005 l’ASP è la risposta “da destra” all’aumento della povertà, inizialmente Blanchard_Le-FN-et-le-Socialattraverso  la distribuzione di vestiario e di  generi alimentari , poi con la costruzione di una vera e propria rete di solidarietà verso gli indigenti, fino all’ambizione di dare un tetto a chi non lo ha, rompendo la spirale della precarietà esistenziale.
Dall’iniziale esperienza parigina, l’ azione dell’ ASP si è diffusa in altre zone del Paese, grazie all’impegno diretto dei quadri e dei militanti del FN. I giovani sono in prima linea, coniugando la crisi economica  con l’ultra liberismo e l’iper nomadismo, la precarietà sociale con  l’immigrazione clandestina  ed il silenzio della “buona” borghesia di sinistra, nel segno della “fraternité francaise”, espressione della solidarietà nazionale e della giustizia sociale.
Il libro è la sintesi di quell’esperienza, con decine di testimonianze, ed un significativo apparato fotografico,  dal quale si coglie immediatamente l’orgoglio  per un’appartenenza insieme umana e politica,  sociale e culturale,  che aiuta a capire, anche  da lontano, i recenti fatti francesi, i successi elettorali del FN, e l’emergere di Marine Le Pen quale figura centrale del panorama politico  d’oltralpe. Anche da lì, da quella vicinanza sociale, si può comprendere come oltre lo slogan “Le social, c’est le Front National !” ci sia di più, molto di più. Ed i francesi evidentemente lo hanno capito.

venerdì 21 marzo 2014

All'ombra dei fiori...




Di Mario M. Merlino

Dopo oltre due anni condivido la cella con Emilio Borghese, poco più che diciottenne, mio coimputato (è figlio di un alto magistrato, Sofo, giudice di Cassazione, che ha fatto una esemplare carriera modello Scalfaro. Entra in magistratura per evitare il possibile invio al fronte, dove va – in Albania e Grecia – per presiedere le corti marziali e ne ritorna con la collezione di tutti quelli che ha fatto fucilare o impiccare. Poi, un bel giorno, dopo aver aderito alla Repubblica Sociale, con furbizia tutta italica, rendendosi conto di come stanno andando le cose e, forse, di dover rispondere di qualche ‘peccatuccio’ di troppo ai prossimi e sicuri vincitori, va in montagna con dei fascicoli che sono la sua garanzia di impunità. E’ a Milano, dopo il 25 aprile, quando sulle scalinate del Palazzo di Giustizia gli sparano contro un colpo di pistola senza colpirlo – avvertimento o cattiva mira –. Capisce che è l’ora di cambiare aria; si trasferisce a Roma, fa carriera, si sposa, ha due figli, rimane vedovo e colleziona cacciaviti di cui ha una cassapanca piena. Quando vanno ad arrestare il figlio, con cipiglio, indica ai poliziotti l’ala dell’appartamento dove dorme Emilio…).


Emilio, esile, curvo, biondo scuro con una folta barba, fuma di continuo un pestifero mezzo Toscano. Fragile. Dopo la nostra scarcerazione va a vivere al Nord e fa perdere le sue tracce in un anonimato, mi sembra di ricordare, quale commesso in qualche negozio di elettrodomestici. Non si farà vedere nelle varie fasi dei processi, non lo vedrò più. Una mattina, simili a animali in gabbia, si va avanti e indietro per la cella, chissà quale l’origine, afferma lapidario:
‘I fiori sono stupidi vegetali!’…
(Come d’abitudine annoto introduzioni che sono invasioni, occupazione di spazio riservato al contenuto principale…insomma un ligio professore di lettere avrebbe facile gioco a utilizzare la matita rossa e blu…).
Manciuria, settembre 1941‘…ho visto migliaia di donne che gareggiavano nel bucato e che distendevano drappi rossi, bianchi e azzurri sul vallo di pietra: sembrava di vedere un immenso campo di fiori’; ancora e su altro fronte ‘…camelie, camelie, lungo lo steccato del villaggio contadino le camelie rosso-cupo salutano la primavera. Un corso d’acqua tranquilla specchia le loro forme bellissime in modo completo e tranquillo. La camelia non è gioiosa e fine come il fiore di ciliegio. Ma io amo questi fiori che affermano la loro essenza con più passione e originalità di quanto lo facciano i fiori del ciliegio’ e, di citazioni si potrebbero riempire fogli e ancora fogli ‘…il carro armato procedeva nella penombra verso oriente, attraverso la provincia di Musashino. Musashino! Come profumano i bambù, i cedri, le risaie! Sento l’odore della minestra di Miso; giunge fino alle mie narici confondendosi con quello dei giovani germogli. Il leggero fumo della battaglia pende nell’aria. Sono assorto in pensieri’.

Traggo queste righe da una antologia di lettere di soldati giapponesi caduti durante la guerra, volutamente ho selezionato quelle più scarne, anonime, elementari. Prive di quella poesia, l’haiku, dei piloti-suicidi dove ricorre sovente il paragone con il fiore di ciliegio che, nella tradizione giapponese, si identifica con il bushi, il guerriero ( così si esprime il tenente Nagatsuka, volontario pilota e fra i pochi sopravvissuti: ‘I fiori del ciliegio selvatico dispiegano il loro splendore, poi perdono i petali senza rimpianto: è così che noi dobbiamo prepararci a morire, senza rimpianti’).
E mi chiedo: sono veramente i fiori degli stupidi vegetali? Solo se sapremo immaginare la bellezza, l’arte come frutto di una lacerazione, sapremo il perché i fiori assumono la muta testimonianza dell’Iki, elemento estetico che è anche segno dell’imperfezione nell’armonia (credo di averne scritto in altra e lontana occasione intorno al libro La struttura dell’Iki di Kuki Shuzo, che fu discepolo di Martin Heidegger).

E i fiori li ritrovo in una antologia di poesie, Note di samisen (Shamisen è strumento musicale a tre corde, utilizzato durante la rappresentazione del teatro Kabuki), Carabba editore, anno 1919, quando il libro veniva curato quasi fosse un piccolo gioiello, un delicato lavoro di intarsio stile liberty (‘Stanotte il cielo è nero./ Nel buio, i fiori del pero/ non hanno più colore;/ ma che importa, se è vero/ che sanno tanto odorare?’).
Nel divenire non nell’essere è racchiuso il senso del nulla che, vale la pena annotare, è per i giapponesi l’essenza del pensiero. Un fiore germoglia si raccoglie nella pienezza si disperde in fragili e caduchi petali – purezza e morte perché non soltanto il ciclo delle stagioni lo richiede, ma perché la vecchiaia è il gambo spoglio e sterile, brutto contrappunto di una bellezza svanita (‘Flebili, i crisantemi/ si ergono/ dietro l’acqua’, haiku del poeta più famoso di questo genere di poesia breve, Matsuo Basho, vissuto nel diciassettesimo secolo, la morte appunto oltre la mutevolezza, lo scorrere del tempo).
Seguendo la tradizione Mishima Yukio si prepara, prima dell’azione stessa e del conseguente e previsto seppuku, ad andare di fronte alla morte come si conviene ad un antico guerriero. Fra l’altro compone due poesie d’addio, su testo waka, in cui il senso della fugacità della grazia non devono mai alludere alla morte imminente dell’autore. Ne trascrivo la seconda, ove più forte si evidenzia l’idea dello scrittore che solo una morte giovane nobilita la condizione umana: ‘Soffia una piccola tempesta notturna/ dice: caduca è l’essenza di un fiore -/ e precede coloro che esitano’… Questo è di certo uno dei motivi per cui il fiore di ciliegio venne accostato alla figura del samurai, divenne simbolo della sua eticità: basta un leggero soffio di vento per vederne disperdere i suoi petali. ‘Ho scoperto che la Via del samurai è nella morte’: è l’inizio (Yamamoto Tsunetomo, già guerriero e divenuto monaco buddista, autore dell’Hagakure, traducibile come All’ombra delle foglie).

I fiori, dunque, disegnano la bellezza e la caducità. Non è casuale che si ritrovino sovente in un classico della scrittura nipponica, Momenti d’ozio, del monaco buddista Kenko dove coabitano in perfetta armonia riflessioni tra il distacco verso le cose e il gusto del particolare anche il più effimero (‘Dobbiamo guardare i ciliegi soltanto se sono in fiore, la luna soltanto se è limpida? … E dobbiamo guardare la luna e i fiori di ciliegio soltanto con gli occhi?).

Essi sono anche la sfida (o forse lo sono nello spirito dell’Occidente, il luogo prescelto per rendere la parola azione…). Mi tornano a mente dei versi, forse strofa di una canzone, di un tempo lontano e pur vicino nella mia memoria: ‘Il cavallo e la spada/ la rosa e l’onore/ mi furon compagni,/ Fedeli d’Amore’… Non essi, i fiori, stupidi vegetali, semmai gli uomini che vivono nell’illusione d’essere immortali e coltivano nella mente fugaci, frammenti di pensieri mentre, sia Julius Evola che Moana Pozzi, ci invitavano a ‘vivere come se fosse l’ultimo giorno; a pensare come se si fosse eterni’…

giovedì 20 marzo 2014

«Fuoco alle chiese». I neo-comunisti profanano la Basilica del Sacro Cuore a Parigi...


di Gabriele Farro (Il Secolo d'Italia)

Come nell’Italia degli anni Settanta, stesso linguaggio, stessi concetti e praticamente la stessa firma. Manca il simbolo della falce e martello, ma è sottinteso. Shock e indignazione in Francia per la profanazione della Basilica del Sacro Cuore, uno dei momumenti simbolo di Parigi. L’ingresso della celebre basilica di Montmartre, con vista mozzafiato sulla capitale, è stata imbrattata da scritte rosso fuoco, tra cui: “Né dio né Stato”, “Fuoco alle cappelle”, “Abbasso ogni autorità”. Un’azione vandalica dal vago sapore anarchico che suscita indignazione da parte di cittadini e politici. 

Tra gli altri graffiti lasciati davanti all’ingresso della celebre basilica, che i parigini paragonano spesso a una meringa per le sue forme tondeggianti e per il bianco acceso della sua pietra, anche “Burn me” (bruciami in lingua inglese), “Fuck tourism” (abbasso il turismo) e “1871, viva la Comune”. Un riferimento all’anniversario della Comune di Parigi, il 18 marzo 1871, che separò lo Stato dalla Chiesa e stabilì l’istruzione laica e gratuita, poi interrotta dalla repressione del governo e dell’Assemblea Nazionale. Una squadra del municipio è giunta sul posto per cancellare le scritte e ripulire il vasto ingresso della Basilica. Il sindaco uscente di Parigi, il socialista Bertrand Delanoe, ha condannato con forza la profanazione dell’edificio religioso. «È inaccettabile», ha accusato il primo cittadino della capitale. Una reazione indignata è stata espressa anche dalla candidata socialista nelle elezioni municipali di fine mese, Anne Hidalgo. 


Su Twitter, la candidata sindaco della destra Ump, Nathalie Kosciusko-Morizet, ha chiesto una «reazione forte» contro questi atti. Mentre un altro candidato dissidente della destra all’Hotel de Ville, Charles Beigbeder, ha denunciato quello che ha definito «odio anti-cristiano». «Così come mi sono sempre indignato per gli atti islamofobici o antisemiti, sono profondamente scioccato da questa odiosa profanazione», ha detto da parte sua il segretario dell’Ump, Jean-François Copé. Rabbia e sconcerto anche da parte dell’ex ministro della Giustizia ed europarlamentare dell’Ump, Rachida Dati. «Dopo la profanazione della Chiesa della Madeleine da parte di una Femen, della chiesa Sainte Odile nel 17/o arrondissement, e ora della Basilica del Sacro-Cuore – sostiene in una nota – mi chiedo quando il governo (di Francois Hollande, ndr.) prenderà finalmente delle misure per lottare contro la crescente cristianofobia che si sta manifestando in Francia». Il Sacro Cuore è uno dei monumenti più famosi di Parigi, con circa 10 milioni di visitatori all’anno.

domenica 16 marzo 2014

UN FIUME IN PIENA...


Ogni anno è un'emozione. Questo era il nono corteo consecutivo organizzato da Casaggì, ed è stato un successo oltre ogni aspettativa. Un successo possibile solo grazie ai sacrifici e agli sforzi militanti di tanti ragazzi che hanno donato se stessi senza tregua per la realizzazione di una giornata che ormai è diventata un pezzo di storia. Anche quest'anno centinaia di persone hanno marciato, tricolore alla mano, per colorare il grigiore di questa città. Anche quest'anno è stata data una magnifica lezione di coraggio, di compostezza e di maturità. 

Per la prima volta il corteo non ha toccato soltanto il tema del ricordo dei martiri infoibati e dell'esodo dalle terre italiane di Istria, Fiume e Dalmazia, ma è partito da quella tragedia e - connettendosi all'anniversario dell'unità d'Italia - ha affrontato il presente e immaginato il futuro. 



Dietro a Giorgia Meloni e ai tanti ospiti presenti, decine di striscioni hanno invocato un'Italia sovrana, libera dalle catene della tecnofinanza e della burocrazia europea, capace di farsi rispettare e di non lasciare i propri soldati a marcire in qualche galera straniera, forte delle proprie radici e della propria identità. Un'Italia in grado di riappropriarsi della propria moneta, lontana parente di quel paese che ha svenduto Bankitalia con un blitz parlamentare. Un'Italia in piedi, capace di recuperare quella partecipazione popolare che, solitamente, sceglie i governi nei sistemi democratici. Un'Italia in grado di uscire dalla crisi senza cadere nel tranello di delegarne le soluzioni agli artefici delle sue cause. 


Quei tricolori al vento e quell'entusiasmo sono stati la migliore risposta alle minacce, alle contromanifestazioni e alle invettive dei soliti rancorosi, quelli delle bandiere sovietiche e titine, delle scritte sui monumenti e della quotidiana demenza dettata dall'odio e dal risentimento. La nostra è una piazza diversa: senza simboli, senza personalismi, senza rancori, senza prepotenze e senza paura. Una piazza pulita, fatta di gente vera, di giovani, di cittadini che hanno a cuore il futuro della propria Nazione e del proprio Popolo. 


Una piazza per la quale vale la massima che recita così: "Nei momenti felici la gioventù di una nazione riceve gli esempi, nei momenti difficili li dà. Un grazie di cuore a chi c'era: siamo il futuro dell'Italia. 

venerdì 14 marzo 2014

Omaggio a Drieu il poeta del binomio “sogno e azione”...

pierre drieu la rochelledi Sandro Marano (Barbadillo.it)
“Nonostante la mia passione politica, io non apparterrò mai a un regime”. (Da Diario 1939-1945). Drieu La Rochelle (3 gennaio 1983, 15 marzo 1945)
L’esordio letterario di Pierre Drieu La Rochelle è rappresentato da due volumetti di poesie: Interrogation, pubblicato nel 1917, che raccoglie alcune poesie scritte nel 1916 durante la convalescenza per le ferite riportate sul fronte di guerra; e Fond de Cantine, pubblicato nel 1920. In esse sono già presenti alcuni dei temi che segneranno il suo percorso intellettuale e politico. Già nei primi versi di Interrogation compare il binomio « e il sogno e l’azione » che costituisce, a buon diritto, la sua cifra esistenziale. Stilisticamente, risentono del clima d’avanguardia allora dominante, in particolare del futurismo e dadaismo, e guardano al verso lungo di Walt Whitman. Drieu non fu, per la verità, un eccellente poeta, poiché, come egli stesso riconosce in una pagina del suo diario, il suo verso manca di  musicalità.
Ci sono, però, magnifiche eccezioni, come questa che riportiamo, dedicata al tennis, che fu il suo sport prediletto.  
TENNIS
Chiarezze nude
E bianche in volo
Linee
Ecco il gioco, la vita, la fine.
Oh nobile allegria!
L’uomo è confinato nel semplice esercizio.
Una gioiosa saggezza giovanile rinchiude i giocatori tra le reti.
Ecco il luogo, finalmente, dove lo spirito regna  da solo.
Una figura sotto il piede ordina la danza.
La linea lega lo slancio,
dai brevi salti nasce un ritmo.
Modestia del corpo atletico che si accontenta della sua perfezione.
Anche tu potresti limitare la tua esigenza umana e riempire con un muscolo la  forma.
La curva secca di una vergine orna l’angolo imposto allo spazio.
Un punto nel suo corpo congiunge le linee.
(da Fond de cantine, traduzione a cura di Milo De Angelis pubbicata su “POESIA” n. 62, maggio 1983)    
* * *
Con amarezza e lucidità, profeticamente, nel suo primo saggio politico risalente al 1922, Misura della Francia, Drieu fece una diagnosi e una profezia della condizione dell’uomo d’oggi, che può considerarsi esemplare ed attuale:
Oggi ci sono i moderni, cioè gente che vive o di profitti o di salari, che pensa solo a ciò e che discute solo di questo argomento… Tutti passeggiano soddisfatti nell’incredibile inferno, nell’enorme illusione, nell’universo di spazzatura che è il mondo moderno e in cui molto presto non penetrerà nemmeno più un raggio di luce spirituale… Ormai non c’è che un solo problema fondamentale. L’uomo che riflette e che è capace di superare le distinzioni ormai prive di consistenza coglie un solo pericolo, immenso [costituito dalla] decadenza dell’uomo. Dietro tutte le piccole questioni politiche e sociali, che a poco a poco perdono ogni senso, sta sorgendo una grande domanda che investe le basi di tutto il mondo, dei nostri costumi, della nostra cultura e della nostra civiltà… uno strano delirio acceca gli uomini. Con la scusa di un benessere, a cui oggi in verità non si pensa nemmeno più, lo sforzo economico si è esasperato e pervertito. Si produce per produrre, si fabbrica per fabbricare senza tener conto né dei fini né degli strumenti: ma che cosa vogliamo ottenere?“.
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Il pensiero politico di Drieu fu, come scrive lo studioso italiano Moreno Marchi, “di notevole spessore esegetico” e il suo contributo tra gli intellettuali fascisti fu senz’altro “tra i più analitici e scientificamente meditati”. Spiccano, tra l’altro, la sua concezione ritmica della storia, l’idea di un’Europa federata capace di superare i gretti nazionalismi e le sue intuizioni ecologiste, per le quali possiamo annoverarlo tra i pensatori ecologisti tout court:
Il pensatore non si stupisce di nulla. Conosce le leggi della vita, aspetta il ritorno delle stagioni e le saluta con sguardo immutato. Sa che ognuna nutre amorevolmente nel segreto del proprio seno il suo contrario che fiorirà in superficie alla successiva. Il duro inverno cova le gentilezze e le dolcezze della primavera e l’estate è gravida delle immense distruzioni dell’autunno…Queste epoche di crollo e di restaurazione, di corruzione che abbatte e di energia che fa risorgere hanno lati magnifici. Il pensatore non rifiuta nulla.” (da La violenza in Europa, 1939)
Europei, non siete stanchi di inchinarvi di fronte all’orgoglio americano, all’orgoglio russo, all’orgoglio indiano, all’orgoglio cinese?… Agli occhi di un cinese che differenza può esserci fra uno scozzese e uno spagnolo? Hanno la stessa religione, mangiano e sono governati più o meno nello stesso modo, hanno lo stesso colore della pelle. Il cinese ha ragione. Se lo negate, giocate solo sulle parole, fate distinzioni bizantine, oppure ingigantite una differenza di sviluppo storico che domani sarà abolita dal tunnel sotto la Manica. Se il cinese vi parla di un certo sentimento della vita e della morte, che ha valore per quattrocento milioni di uomini, gli risponderete distinguendo il Cristo scozzese da quello catalano?… Fra Calais e Nizza io soffoco; vorrei allungarmi sino agli Urali. Il mio cuore nutrito di Goethe e di Dostojeski truffa le dogane, tradisce le bandiere, sbaglia i francobolli delle lettere d’amore… Dobbiamo trovare, al di là delle culture nazionali, al di sotto di esse, qualcosa che possa nutrirle tutte, nella loro parte migliore e più autentica.” (daGinevra o Mosca, 1928)
Non possiamo sperare più nulla da nessun popolo in quanto nazione. Non ci resta che una via, richiamarci agli uomini, agli europei. Utopia? Un uomo che scrive traccia nell’atto stesso un’utopia. Le sole garanzie degli uomini contro sé stessi sono le utopie. Io non nutro alcun amore morboso per la Francia; se lo nutrite voi per la Germania, tanto peggio…” (da L’Europa contro le patrie, 1931)
E’ il mito del progresso che è in discussione. Durante questo vostro progresso non ha perso l’uomo la metà di sé stesso? Ciò che guadagnato non è stato profumatamente pagato da ciò che ha perduto?… Sviluppando il suo spirito l’uomo ha sacrificato a poco a poco il suo corpo… Il secolo XX sotterrerà la inutile dottrina del progresso; se sarà un secolo di rinascita, potrà farlo allegramente… L’uomo nuovo parte dal corpo, sa che il corpo è l’articolazione dell’anima e che l’anima non può esprimersi, spiegarsi in tutta la sua ampiezza, trovare una base consistente se non nel corpo. Non c’è nulla di più spirituale di questo riconoscimento del corpo… Niente è meno materialista di questo movimento… Cari signori della Borsa o del Parlamento, gli Scouts o i Wandervogel, che riscoprivano la marcia nel sole o nella pioggia, la notte allo scoperto, gli alberi, i ruscelli, il gioco, il coltello, non erano materialisti. Trascendevano la grande città, la fabbrica, il laboratorio, preparavano nei corpi il vaso spirituale della collera contro la schiavitù di una scienza e di una industria ancora ferme alle prime forme di applicazione sociale dei loro prodotti…” (da Note per comprendere il secolo, 1940)    
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In un articolo pubblicato sulla Nouvelle Revue Francaise Drieu, facendo un bilancio della propria attività politica, orgogliosamente rivendicava la sua scelta:
Sono diventato fascista perché ho misurato i progressi della decadenza in Europa. Ho visto nel fascismo il solo strumento capace di frenare e di contenere questa decadenza” (da Bilancio, in Nouvelle Revue Française, 1943)
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Racconto segreto è un insieme di brevi testi scritti dopo i due tentativi di suicidio dell’agosto del 1944 e poco prima di quello andato a segno la notte tra il 15 e il 16 marzo 1945. Racconto segreto rappresenta il testamento politico-esistenziale di Drieu, riassume con tratti di efficace lirismo lo scrittore, la sua arte, il suo pensiero, la sua sensibilità:
La funzione degli intellettuali, o almeno di un certo tipo di intellettuali, è di andare al di là dell’avvenimento, di tentare cammini rischiosi, di percorrere tutte le strade possibili della storia. Niente di grave se sbagliano. Hanno compiuto una missione necessaria, quella di andare dove non c’è nessuno. In avanti, indietro, o di fianco: non ha importanza. Basta che siano usciti dal gregge della massa. Il futuro è fatto con una materia diversa da quella attuale. Il futuro è fatto da ciò che visto la maggioranza e anche la minoranza. Una nazione non è una voce unica, è un concerto. E’ necessario che vi sia una minoranza; noi siamo stati appunto quella: Abbiamo perduto, siamo stati dichiarati traditori: è più che giusto. Se voi foste stati sconfitti, sareste diventati automaticamente i traditori…. Io sono un intellettuale la cui funzione è di rimanere sempre con la minoranza…. Sono fiero di essere stato un intellettuale della minoranza. Fra qualche tempo i giovani ci leggeranno per cogliere un suono diverso da quello comune…. Non ho voluto essere un intellettuale che misura prudentemente le sue parole. Avrei potuto scrivere nella clandestinità, in zona libera, all’estero. No, bisogna assumere le proprie responsabilità, entrare in gruppi impuri, ubbidire alle leggi della politica che consiste nell’accettare alleati spregevoli o odiosi. Non mi sono sporcato le mani, solo i piedi… Siate fedeli all’orgoglio della Resistenza, come io sono fedele a quello della Collaborazione. Non barate come non baro io… Non sono solo un francese, ma un europeo. Anche voi lo siete, coscientemente o incoscientemente. Ma abbiamo giocato e io ho perduto. Esigo la morte.” (da Perorazione, in Racconto segreto, 1944)

mercoledì 12 marzo 2014

Angelo Mancia, il “cuore nero” ucciso 34 anni fa dalla Volante Rossa...


di Antonio Panullo (Secolo d'Italia)
Come scrisse il giornalista Tommaso Besozzi nella sua inchiesta sulla mafia del 1950, «di sicuro c’è solo che è morto». Ma in quanto al resto, sull’omicidio di Angelo Mancia avvenuto il 12 marzo del 1980, stiamo ancora a quel giorno. È vero, nel 2010 le indagini furono riaperte perché si ipotizzò che l’efferato omicidio fosse collegato con l’altro, altrettanto efferato, dello studente Valerio Verbano, avvenuto meno di un mese prima, il 22 febbraio, in un luogo non distante, ossia sempre a Montesacro. La rivendicazione dei “Compagni organizzati in Volante Rossa”, in effetti, parlava di vendetta per l’assassinio del compagno Verbano, ma i responsabili non sono mai venuti fuori, né di questo né di quell’omicidio, tanto che è appena il caso di far notare se veramente i due fatti sono o furono mai collegati. Per la verità, la stragrande maggioranza degli omicidi politici dei militanti del Msi e del Fronte della Gioventù è rimasta impunita, vuoi per lo scarso interesse nell’opinione pubblica e ancora di più nell’apparato statale per l’individuazione dei responsabili, vuoi per il modo a volte superficiale e approssimativo in cui le indagini stesse furono condotte, come nel caso dell’omicidio di Francesco Cecchin, giovane missini assassinato a piazza Vescovio, non molto lontano da Montesacro. Stesso discorso per Paolo Di Nella, ucciso a piazza Gondar, a pochi metri da piazza Vescovio, nel 1983, da persone rimaste per sempre sconosciute, e per Angelo Pistolesi, freddato con tre colpi di pistola al quartiere Portuense il 28 dicembre del 1977, pochissimi giorni prima della strage di Acca Larenzia. Gli assassini di Falvella, di Mantakas, di Ramelli sono stati individuati, invece, ma hanno scontato pene talmente lievi che non ne è neanche valsa la pena, si ha la percezione di non avere avuto giustizia. Neanche un risultato per Pedenovi, ucciso a Milano, Zilli, ucciso a Pavia, Zicchieri, ucciso a Roma, tutte vittime senza giustizia. Quel 12 marzo del 1980 Angelo Mancia, che lavorava per questo giornale, che allora aveva la sede in via Milano, stava uscendo da casa sua, a via Federigo Tozzi al quartiere Talenti (il vecchio “Montesacro alto”) per andare, in motorino, al centro. Sarà stato poco dopo le 8,30. mentre è nel vialetto che sta slegando il Garelli, si sente chiamare, capisce, e tenta di tornare nel palazzo. Troppo tardi, un a pallottola lo prende alla schiena e poi altre lo raggiungono. In tutto sette, compresa quella con cui i killer lo finiscono. A quanto si è ricostruito dopo, gli assassini della Volante Rossa lo hanno atteso, forse tutta la notte, dentro un pulmino Volkswagen azzurrino parcheggiato lì davanti, e a quanto pare indossavano camici da infermieri. Subito dopo, una Mini Minor rossa ha raccolto i killer e li ha portati via. Verde era invece la Mini Minor dalla quale partirono i colpi che uccisero Stefano Cecchetti, sempre a Talenti, un anno prima. Appena due notti precedenti altrettanto ignoti assassini avevano ucciso al quartiere Flaminio il cuoco Allegretti, scambiato per il segretario della sezione locale del Msi, continuando nell’errore anche nella rivendicazione del giorno successivo: «Abbiamo ucciso il fascista tal dei tali…». Anche questo capitava quegli anni, che un innocente finisse in mezzo agli odi politici di chi non voleva che altri ragazzi esprimessero le loro idee. Cinque giorni prima, ancora, una bomba era esplosa nella tipografia del Secolo d’Italia, dove Angelo lavorava. Oggi è impossibile negare il disegno terrorista della sinistra teso a eliminare fisicamente i loro avversari politici. Ma negli anni Settanta i giornali, e non solo quelli di sinistra, a ogni omicidio di un “fascista”, tiravano fuori la favola della “faida interna”, come fecero per la strage di Primavalle, che – e si seppe anni dopo – era stata effettivamente fatta da tre esponenti dell’ultrasinistra, come il Msi aveva sostenuto sin dal primo momento. E ogni volta, puntuale quanto sistematica, la mistificazione, che però fu sempre smentita dai fatti. Addirittura Paese Sera mandò un volenteroso inviato ad Atene, dopo che fu ucciso Mantakas, il quale dovette ritornare senza aver scoperto trame di alcun genere. Così con Mancia non ci provarono neanche: era benvoluto e amato da tutti, nella comunità umana e politica dove viveva. Era il segretario della sezione Talenti di via Martini, sezione che gli antifascisti avevano fatto saltare diverse volte. Era un entusiasta tifoso della Lazio, quasi ogni domenica era all’Olimpico, e nel quartiere più volte si era scontrato davanti alle scuole con i temibili collettivi di Val Melaina e del Tufello. Insomma, era un militante molto in vista, e per di più facile da colpire, perché era sempre disarmato, come tutti i ragazzi del Msi, anche se qualche volta capitò che ne arrestassero qualcuno sostenendo che il pennello per attaccare i manifesti era un’arma impropria… Quanto alla Volante Rossa originaria, era un gruppo partigiano “rosso” che agì sino al 1949 che si macchiò di orrendi delitti a guerra finita, tanto che quando i componenti furono catturati, i giornali titolarono «Fino di un incubo». Attentati, sequestri, omicidi, la Volante Rossa si macchiò di un numero impressionante di reati: tra l’altro, furono loro ad assassinare nel 1947 Franco De Agazio, il direttore del Meridiano d’Italia.    I 32 imputati furono tutti condannati e pesanti pene, anche se alcuni erano stati aiutati a riparare oltre cortina. Negli anni Settanta, poi, altri membri della banda furono graziati prima dal presidente Saragat e poi da Pertini.

martedì 11 marzo 2014

Nel romanzo “Vittoria” gli anni Settanta visti con occhi di ragazza. Perché anche i “fasci” riuscivano a sognare…


di Alessandro Moscè (Il Secolo d'Italia)

Raramente è successo, in letteratura, che la rivoluzione di chi voleva cambiare il mondo e i movimenti giovanili dopo il Sessantotto, fossero accompagnati da uno sguardo proveniente dalla destra missina e non dalla sinistra ideologica. Il romanzo Vittoria (Giubilei Regnani 2014) di Annalisa Terranova ci offre uno sguardo verso l’altra parte della sponda. Una storia degli anni Settanta, come recita il sottotitolo, scritta dalla giornalista del Secolo d’Italia, che è anche un romanzo di formazione, quel “bildungsroman” di derivazione tedesca attinente all’evoluzione della protagonista dall’infanzia all’età adulta in una sorta di rotocalco sentimentale, denso di episodi, di memorie circostanziate, rapide e indelebili.

Quelli di destra erano i “lebbrosi” della politica italiana, ma il padre di famiglia, rigoroso reazionario, e la madre, discreta ancella della casa, sembrano una coppia serena, risolta. Nelle scuole e nelle università si diffonde la protesta che Annalisa Terranova narra come fosse un’avventura svilente, e al centro figura la scoperta di molte altre cose del tutto estranee alla tensione e alla guerriglia romana. Per esempio l’amore per la Lazio, i pranzi domenicali che si concludevano con i bignè al cioccolato e la glassa rosa, la gita con la 850 color crema verso Venezia, le canzoni di Dalida e Edoardo Vianello, il libro e il film Via col vento. Vittoria incomincia a respirare un clima diverso quando partecipa ai funerali dei fratelli Mattei uccisi nel rogo di Primavalle. Annota l’autrice: “Il padre leggeva che nelle scuole accadeva di tutto: fascisti accerchiati, comunisti in spavalda maggioranza, spalleggiati dai professori compiacenti e complici. E diceva che era colpa del Sessantotto”. Quindi le foto dei volti sfatti del Duce e di Claretta Petacci, ma anche l’osservanza rituale di alcuni gesti, come quando, sul vassoio di alluminio, nel più completo silenzio, il 2 novembre si disponevano le foto dei morti di famiglia e un santino di Mussolini. O la visita a donna Rachele, a Villa Carpena, a questa donna dignitosa, con il fazzoletto in testa alla contadina, piccola e dagli occhi azzurrissimi. E poi l’entrata rabbiosa nell’atmosfera della piazza, i ragazzi che portavano il tricolore senza vergogna, gli anni tesi al liceo autogestito, “l’ostilità rocciosa e persistente” che circonda Vittoria, fino ai dubbi dell’amore e al bisogno di tenerezza oltre la semiclandestinità degli incontri nelle polverose sedi missine.

Infine le pagine conclusive con le bombe messe davanti alla saracinesca di una sezione, tra sconcerto e collera, la morte prima di un compagno e poi di un camerata, l’incontro con un distaccato Almirante e il tentativo di riannodare un filo intricato. Rimangono le domande esistenziali a fare da sfondo scenico: quella, era davvero la guerra? “Uno finisce abbattuto, a terra, uno del gruppo a caso, uno che poche ore fa rideva e si faceva le sigarette con le cartine”. Tutto si cancella con la morte di Aldo Moro, in uno stato di eccezione e in una consapevolezza maggiore dell’Italia intera: “Centinaia di persone pallide, sconvolte, si guardavano tra loro come se fossero in attesa dell’apocalisse”. Anni pazzi, anni di promesse, anni di entusiasmo e di morte. Cosa rimane? La nostalgia dell’età del sogno, ci sembra, dove tutto è in continua metamorfosi. Non l’attivismo e neppure i tragici epiloghi. Non l’appartenenza, ma una sola panchina, dopo trent’anni, “dove dare tempo a quel peso di sciogliersi”.


*Alessandro Moscè, scrittore, è autore del libro “Il talento della malattia” da cui è stato tratto un film che uscirà nelle sale quest’anno

lunedì 10 marzo 2014

“Vita di Charles Bukowski”: quando nello scrittore riconosci te stesso...


Promessa. Qui non si parla delle sue sbornie. Neppure della parte sporca di Hollywood o di quanto fosse stronzo con tutti quelli che non sopportava. Non si parla neppure di donne. Niente Hemingway e niente Cèline.Nessun racconto sulle sue giornate da postino precario. Niente sesso. Nessun consiglio su come scrivere un romanzo che puzza di vero. Tanto certe cose non si insegnano. Non c’è neppure la malattia, i gatti, le scommesse, le risse, i colpi bassi sulle strade della beat generation e neppure di quella volta che disse a Ginsberg: «Sei finito, dopo Howl non hai scritto più nulla di decente». Tutto questo naturalmente Roberto Alfatti Appetiti lo racconta. È nella biografia Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti, pagg. 300, euro 19). Quello che manca invece è la parte più insopportabile di Bukowski, cioè il poster. Bukowski è morto. È morto vent’anni fa e da allora è diventato uno stereotipo. Ogni tanto incontri qualcuno che assomiglia a Bukoswki e ti vomita addosso. Poi non si scusa perché è alternativo. Poi comincia a declamare, fingendo di biascicare, bestemmie banali sullo schifo del mondo. Poi ti dice che Hank è antiamericano e la sua scrittura rivoluzionaria. Poi occupa un teatro. E infine si fa pagare il conto perché è un’artista e per grazia divina e volontà della nazione va a scrocco. A questo punto per fortuna arriva una vera reincarnazione di Bukowski e gli chiude la bocca.
Il Bukowski di Roberto Alfatti Appettiti si mette a fare il poster solo se ha molto bisogno di soldi, se non è ancora abbastanza nervoso da mandare a quel paese i suoi lettori, se serve a rimorchiare. Il resto è uno che sogna di fare lo scrittore e ci riesce dopo i cinquanta. È disprezzo per accademici, colleghi, intellettuali e affini. È individualismo e egocentrismo. È quello che scrive. Sono le lettere che scrive a tutti quelli che gli scrivono. È menefreghismo verso le sorti del mondo. È rabbia verso i capatàz. È ammirazione per chi ha coraggio. È umano troppo umano. E ci sono tre figure che svelano la sua umanità. Tre uomini. Uno è il dolore, il secondo è l’occasione, il terzo è quello in cui sceglie di riconoscersi.

Non si sceglie il padre. Ti tocca in sorte e se ti va male lo disprezzi e ti disprezzi. Bukowski padre era un ubriacone di Philadelfia rotto in culo che abitava in via del nulla. Un fallito, ma questo è il meno. Il peggio è che ti picchia tre volte a settimana fino a tirarti fuori le budella. La paura è assomigliargli. Essere o non essere come lui. È quello che confessa nella poesia I gemelli. «Allargo le braccia come uno spaventapasseri al vento, ma non serve a niente: non posso tenerlo in vita, non ha importanza quanto ci odiassimo. Sembravamo identici, avremmo potuto essere gemelli, il mio vecchio e io. Questo è quello che dicevano… Va bene così. Concedeteci questo momento: in piedi di fronte a uno specchio, con addosso l’abito di mio padre morto, aspettando anch’io di morire».

Non si scelgono neppure i benefattori. Ti scelgono loro e ti cambiano la vita. Hank si arrabatta. Sogna di scrivere un romanzo, ma i racconti sono più veloci e lo fanno guadagnare. Serve un mecenate. Lo trova. Ora come cavolo gli è venuto in testa a John Martin di puntare sul poeta ubriacone? Oltretutto Martin è astemio. Non fa neppure l’editore. È un lettore seriale, un maniaco collezionista di prime edizioni, ma per lavoro fa il direttore di una ditta di forniture per ufficio. Questo signore della middle class trova i fondi per una casa editrice, la Black Sparrow Press, e passa a Bukowski 100 dollari al mese. È abbastanza per lasciare il posto da postino e scrivere romanzi. Uno dice: Martin sarà un riccone che non sa dove spendere i soldi? No, è solo uno che ha scommesso su un cavallo e ha vinto. È Bukoswski ad aver paura, perché un conto è sentirsi un grande scrittore, altro dimostrarlo. Ti dicono vai, non preoccuparti, devi solo scrivere. A quel punto o ti ubriachi o batti sui tasti. Oppure tutte e due le cose. Non con tutti funziona.


Gli ultimi tempi andava così. Quasi tutti i giorni stava lì, in quell’ospedale, seduto accanto al suo letto. «Mi trovai davanti a un omino sotto le lenzuola. Non gli rimaneva molto delle gambe. Gli avevano lasciato braccia e mani. La faccia era portentosa, da piccolo bulldog». Che si dicevano Chinaski e Bandini? Dicono che fosse l’italoamericano a parlare. Il diabete segna i giorni che ti mancano alla fine. Chinaski ascoltava. Trovi uno scrittore che riconosci come te stesso. Lo scovi nei romanzi dimenticati in una biblioteca pubblica. Dici al mondo che esiste un genio chiamato John Fante. Fai in modo che la tua fama lo renda immortale. Fai per la prima volta qualcosa di davvero grande per un tuo simile. Lo scegli come maestro. E finalmente ti ritrovi in lui. Bukowski come Bandini. Un personaggio che ha trovato l’autore. (da Il Giornale)

giovedì 6 marzo 2014

FIRENZE: CASAGGì "ASSEDIA" PALAZZO VECCHIO, CONTRO IL RENZI-SHOW!





FIRENZE: CASAGGì "ASSEDIA" PALAZZO VECCHIO CON BLITZ A SORPRESA. "RENZI PASSI DAL VOTO DEGLI ITALIANI: RIDATECI LA SOVRANITA' POPOLARE". BASTA SHOW, RIPRENDIAMOCI IL FUTURO. 

Firenze, 5 marzo 2014

Quest’oggi un centinaio di militanti di Casaggì e Fratelli d’Italia hanno “assediato” Palazzo Vecchio con un blitz a sorpresa. Oggetto della manifestazione della destra fiorentina era il premier Matteo Renzi, ex sindaco della città. All’evento ha preso parola Francesco Torselli, consigliere comunale a Firenze e portavoce regionale del partito di Giorgia Meloni. In testa al sit-in uno striscione con la scritta “Rottamiamo il Renzi-Show”. Cori, fumogeni e bandiere tricolori hanno accompagnato il tutto.

“Matteo Renzi – ha dichiarato Torselli al megafono – ha utilizzato il palcoscenico di Firenze e di Palazzo Vecchio per arrivare ai vertici della politica italiana. Dietro alle battute in fiorentino e alle tante passerelle televisive si nasconde una triste realtà: il nostro premier è il terzo consecutivo Presidente del Consiglio che non viene eletto dal Popolo Italiano. Renzi, che lascia una città uguale o peggiore di quella che ha trovato, si è distinto in questi anni per assenteismo e promesse inattese, dai cento punti del suo programma ai proclami che non hanno trovato riscontro nella politica sul territorio”. 

“La nostra protesta – affermano dal centro sociale di destra Casaggì Firenze – è simbolica e importante: i problemi del paese non si risolvono con le “staffette” e i passaggi di testimone nelle segreterie dei partiti, ma con le consultazioni popolari e l’affrancamento da quei poteri forti dei quali Renzi è uomo fidato. Dietro al “rottamatore”, che ha rottamato la sovranità popolare, vi sono quei poteri che stanno delocalizzando le nostre aziende, svendendo le arterie vitali della Nazione, affossando ogni forma di sovranità. L’Italia non ha bisogno degli show di Renzi, ma di una politica che torni tra la gente, che sappia parlare di problemi reali, che sappia valorizzare il patrimonio umano e culturale del paese senza asservirsi alle logiche finanziarie di altre forze”.