Di Mario M. Merlino
Dopo oltre due anni condivido la cella con Emilio Borghese, poco più che diciottenne, mio coimputato (è figlio di un alto magistrato, Sofo, giudice di Cassazione, che ha fatto una esemplare carriera modello Scalfaro. Entra in magistratura per evitare il possibile invio al fronte, dove va – in Albania e Grecia – per presiedere le corti marziali e ne ritorna con la collezione di tutti quelli che ha fatto fucilare o impiccare. Poi, un bel giorno, dopo aver aderito alla Repubblica Sociale, con furbizia tutta italica, rendendosi conto di come stanno andando le cose e, forse, di dover rispondere di qualche ‘peccatuccio’ di troppo ai prossimi e sicuri vincitori, va in montagna con dei fascicoli che sono la sua garanzia di impunità. E’ a Milano, dopo il 25 aprile, quando sulle scalinate del Palazzo di Giustizia gli sparano contro un colpo di pistola senza colpirlo – avvertimento o cattiva mira –. Capisce che è l’ora di cambiare aria; si trasferisce a Roma, fa carriera, si sposa, ha due figli, rimane vedovo e colleziona cacciaviti di cui ha una cassapanca piena. Quando vanno ad arrestare il figlio, con cipiglio, indica ai poliziotti l’ala dell’appartamento dove dorme Emilio…).
Emilio, esile, curvo, biondo scuro con una folta barba, fuma di continuo un pestifero mezzo Toscano. Fragile. Dopo la nostra scarcerazione va a vivere al Nord e fa perdere le sue tracce in un anonimato, mi sembra di ricordare, quale commesso in qualche negozio di elettrodomestici. Non si farà vedere nelle varie fasi dei processi, non lo vedrò più. Una mattina, simili a animali in gabbia, si va avanti e indietro per la cella, chissà quale l’origine, afferma lapidario:
‘I fiori sono stupidi vegetali!’…
(Come d’abitudine annoto introduzioni che sono invasioni, occupazione di spazio riservato al contenuto principale…insomma un ligio professore di lettere avrebbe facile gioco a utilizzare la matita rossa e blu…).
Manciuria, settembre 1941‘…ho visto migliaia di donne che gareggiavano nel bucato e che distendevano drappi rossi, bianchi e azzurri sul vallo di pietra: sembrava di vedere un immenso campo di fiori’; ancora e su altro fronte ‘…camelie, camelie, lungo lo steccato del villaggio contadino le camelie rosso-cupo salutano la primavera. Un corso d’acqua tranquilla specchia le loro forme bellissime in modo completo e tranquillo. La camelia non è gioiosa e fine come il fiore di ciliegio. Ma io amo questi fiori che affermano la loro essenza con più passione e originalità di quanto lo facciano i fiori del ciliegio’ e, di citazioni si potrebbero riempire fogli e ancora fogli ‘…il carro armato procedeva nella penombra verso oriente, attraverso la provincia di Musashino. Musashino! Come profumano i bambù, i cedri, le risaie! Sento l’odore della minestra di Miso; giunge fino alle mie narici confondendosi con quello dei giovani germogli. Il leggero fumo della battaglia pende nell’aria. Sono assorto in pensieri’.
Traggo queste righe da una antologia di lettere di soldati giapponesi caduti durante la guerra, volutamente ho selezionato quelle più scarne, anonime, elementari. Prive di quella poesia, l’haiku, dei piloti-suicidi dove ricorre sovente il paragone con il fiore di ciliegio che, nella tradizione giapponese, si identifica con il bushi, il guerriero ( così si esprime il tenente Nagatsuka, volontario pilota e fra i pochi sopravvissuti: ‘I fiori del ciliegio selvatico dispiegano il loro splendore, poi perdono i petali senza rimpianto: è così che noi dobbiamo prepararci a morire, senza rimpianti’).
E mi chiedo: sono veramente i fiori degli stupidi vegetali? Solo se sapremo immaginare la bellezza, l’arte come frutto di una lacerazione, sapremo il perché i fiori assumono la muta testimonianza dell’Iki, elemento estetico che è anche segno dell’imperfezione nell’armonia (credo di averne scritto in altra e lontana occasione intorno al libro La struttura dell’Iki di Kuki Shuzo, che fu discepolo di Martin Heidegger).
E i fiori li ritrovo in una antologia di poesie, Note di samisen (Shamisen è strumento musicale a tre corde, utilizzato durante la rappresentazione del teatro Kabuki), Carabba editore, anno 1919, quando il libro veniva curato quasi fosse un piccolo gioiello, un delicato lavoro di intarsio stile liberty (‘Stanotte il cielo è nero./ Nel buio, i fiori del pero/ non hanno più colore;/ ma che importa, se è vero/ che sanno tanto odorare?’).
Nel divenire non nell’essere è racchiuso il senso del nulla che, vale la pena annotare, è per i giapponesi l’essenza del pensiero. Un fiore germoglia si raccoglie nella pienezza si disperde in fragili e caduchi petali – purezza e morte perché non soltanto il ciclo delle stagioni lo richiede, ma perché la vecchiaia è il gambo spoglio e sterile, brutto contrappunto di una bellezza svanita (‘Flebili, i crisantemi/ si ergono/ dietro l’acqua’, haiku del poeta più famoso di questo genere di poesia breve, Matsuo Basho, vissuto nel diciassettesimo secolo, la morte appunto oltre la mutevolezza, lo scorrere del tempo).
Seguendo la tradizione Mishima Yukio si prepara, prima dell’azione stessa e del conseguente e previsto seppuku, ad andare di fronte alla morte come si conviene ad un antico guerriero. Fra l’altro compone due poesie d’addio, su testo waka, in cui il senso della fugacità della grazia non devono mai alludere alla morte imminente dell’autore. Ne trascrivo la seconda, ove più forte si evidenzia l’idea dello scrittore che solo una morte giovane nobilita la condizione umana: ‘Soffia una piccola tempesta notturna/ dice: caduca è l’essenza di un fiore -/ e precede coloro che esitano’… Questo è di certo uno dei motivi per cui il fiore di ciliegio venne accostato alla figura del samurai, divenne simbolo della sua eticità: basta un leggero soffio di vento per vederne disperdere i suoi petali. ‘Ho scoperto che la Via del samurai è nella morte’: è l’inizio (Yamamoto Tsunetomo, già guerriero e divenuto monaco buddista, autore dell’Hagakure, traducibile come All’ombra delle foglie).
I fiori, dunque, disegnano la bellezza e la caducità. Non è casuale che si ritrovino sovente in un classico della scrittura nipponica, Momenti d’ozio, del monaco buddista Kenko dove coabitano in perfetta armonia riflessioni tra il distacco verso le cose e il gusto del particolare anche il più effimero (‘Dobbiamo guardare i ciliegi soltanto se sono in fiore, la luna soltanto se è limpida? … E dobbiamo guardare la luna e i fiori di ciliegio soltanto con gli occhi?).
Essi sono anche la sfida (o forse lo sono nello spirito dell’Occidente, il luogo prescelto per rendere la parola azione…). Mi tornano a mente dei versi, forse strofa di una canzone, di un tempo lontano e pur vicino nella mia memoria: ‘Il cavallo e la spada/ la rosa e l’onore/ mi furon compagni,/ Fedeli d’Amore’… Non essi, i fiori, stupidi vegetali, semmai gli uomini che vivono nell’illusione d’essere immortali e coltivano nella mente fugaci, frammenti di pensieri mentre, sia Julius Evola che Moana Pozzi, ci invitavano a ‘vivere come se fosse l’ultimo giorno; a pensare come se si fosse eterni’…
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