di Antonio Panullo (Secolo d'Italia)
Come scrisse il giornalista Tommaso Besozzi nella sua inchiesta sulla mafia del 1950, «di sicuro c’è solo che è morto». Ma in quanto al resto, sull’omicidio di Angelo Mancia avvenuto il 12 marzo del 1980, stiamo ancora a quel giorno. È vero, nel 2010 le indagini furono riaperte perché si ipotizzò che l’efferato omicidio fosse collegato con l’altro, altrettanto efferato, dello studente Valerio Verbano, avvenuto meno di un mese prima, il 22 febbraio, in un luogo non distante, ossia sempre a Montesacro. La rivendicazione dei “Compagni organizzati in Volante Rossa”, in effetti, parlava di vendetta per l’assassinio del compagno Verbano, ma i responsabili non sono mai venuti fuori, né di questo né di quell’omicidio, tanto che è appena il caso di far notare se veramente i due fatti sono o furono mai collegati. Per la verità, la stragrande maggioranza degli omicidi politici dei militanti del Msi e del Fronte della Gioventù è rimasta impunita, vuoi per lo scarso interesse nell’opinione pubblica e ancora di più nell’apparato statale per l’individuazione dei responsabili, vuoi per il modo a volte superficiale e approssimativo in cui le indagini stesse furono condotte, come nel caso dell’omicidio di Francesco Cecchin, giovane missini assassinato a piazza Vescovio, non molto lontano da Montesacro. Stesso discorso per Paolo Di Nella, ucciso a piazza Gondar, a pochi metri da piazza Vescovio, nel 1983, da persone rimaste per sempre sconosciute, e per Angelo Pistolesi, freddato con tre colpi di pistola al quartiere Portuense il 28 dicembre del 1977, pochissimi giorni prima della strage di Acca Larenzia. Gli assassini di Falvella, di Mantakas, di Ramelli sono stati individuati, invece, ma hanno scontato pene talmente lievi che non ne è neanche valsa la pena, si ha la percezione di non avere avuto giustizia. Neanche un risultato per Pedenovi, ucciso a Milano, Zilli, ucciso a Pavia, Zicchieri, ucciso a Roma, tutte vittime senza giustizia. Quel 12 marzo del 1980 Angelo Mancia, che lavorava per questo giornale, che allora aveva la sede in via Milano, stava uscendo da casa sua, a via Federigo Tozzi al quartiere Talenti (il vecchio “Montesacro alto”) per andare, in motorino, al centro. Sarà stato poco dopo le 8,30. mentre è nel vialetto che sta slegando il Garelli, si sente chiamare, capisce, e tenta di tornare nel palazzo. Troppo tardi, un a pallottola lo prende alla schiena e poi altre lo raggiungono. In tutto sette, compresa quella con cui i killer lo finiscono. A quanto si è ricostruito dopo, gli assassini della Volante Rossa lo hanno atteso, forse tutta la notte, dentro un pulmino Volkswagen azzurrino parcheggiato lì davanti, e a quanto pare indossavano camici da infermieri. Subito dopo, una Mini Minor rossa ha raccolto i killer e li ha portati via. Verde era invece la Mini Minor dalla quale partirono i colpi che uccisero Stefano Cecchetti, sempre a Talenti, un anno prima. Appena due notti precedenti altrettanto ignoti assassini avevano ucciso al quartiere Flaminio il cuoco Allegretti, scambiato per il segretario della sezione locale del Msi, continuando nell’errore anche nella rivendicazione del giorno successivo: «Abbiamo ucciso il fascista tal dei tali…». Anche questo capitava quegli anni, che un innocente finisse in mezzo agli odi politici di chi non voleva che altri ragazzi esprimessero le loro idee. Cinque giorni prima, ancora, una bomba era esplosa nella tipografia del Secolo d’Italia, dove Angelo lavorava. Oggi è impossibile negare il disegno terrorista della sinistra teso a eliminare fisicamente i loro avversari politici. Ma negli anni Settanta i giornali, e non solo quelli di sinistra, a ogni omicidio di un “fascista”, tiravano fuori la favola della “faida interna”, come fecero per la strage di Primavalle, che – e si seppe anni dopo – era stata effettivamente fatta da tre esponenti dell’ultrasinistra, come il Msi aveva sostenuto sin dal primo momento. E ogni volta, puntuale quanto sistematica, la mistificazione, che però fu sempre smentita dai fatti. Addirittura Paese Sera mandò un volenteroso inviato ad Atene, dopo che fu ucciso Mantakas, il quale dovette ritornare senza aver scoperto trame di alcun genere. Così con Mancia non ci provarono neanche: era benvoluto e amato da tutti, nella comunità umana e politica dove viveva. Era il segretario della sezione Talenti di via Martini, sezione che gli antifascisti avevano fatto saltare diverse volte. Era un entusiasta tifoso della Lazio, quasi ogni domenica era all’Olimpico, e nel quartiere più volte si era scontrato davanti alle scuole con i temibili collettivi di Val Melaina e del Tufello. Insomma, era un militante molto in vista, e per di più facile da colpire, perché era sempre disarmato, come tutti i ragazzi del Msi, anche se qualche volta capitò che ne arrestassero qualcuno sostenendo che il pennello per attaccare i manifesti era un’arma impropria… Quanto alla Volante Rossa originaria, era un gruppo partigiano “rosso” che agì sino al 1949 che si macchiò di orrendi delitti a guerra finita, tanto che quando i componenti furono catturati, i giornali titolarono «Fino di un incubo». Attentati, sequestri, omicidi, la Volante Rossa si macchiò di un numero impressionante di reati: tra l’altro, furono loro ad assassinare nel 1947 Franco De Agazio, il direttore del Meridiano d’Italia. I 32 imputati furono tutti condannati e pesanti pene, anche se alcuni erano stati aiutati a riparare oltre cortina. Negli anni Settanta, poi, altri membri della banda furono graziati prima dal presidente Saragat e poi da Pertini.
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