di Renato de Robertis (Barbadillo.it)
Ardengo Soffici: le mostre, i paesaggi e la tradizione
Dopo Arturo Martini ecco Ardengo Soffici. Ecco un’altra mostra sull’arte italiana del Novecento. Un’altra storia artistica da rileggere. Ma, principalmente, ecco una vicenda artistica vissuta nel ciclone del secolo breve. C’è veramente in giro un’attenzione culturale molto frizzante. C’è chi scrive sull’ultimo Sironi, quello cupo e pessimista. Chi rilegge il Martini minimalista, quello della terracotta. E ora c’è chi propone i paesaggi di Soffici: quelli toscani, silenziosi, cézanniani. Ed è questa la proposta: Ardengo Soffici: giornate di paesaggio, nelle Scuderie Medicee, Poggio Caiano (Prato), sino al 27 luglio.
All’artista toscano la cultura italiana deve molto. Deve una grande attività di divulgazione culturale. L’uomo, che appoggiò il Fascismo, divulgò l’opera poetica di Arthur Rimbaud; e quanti oggi lo ricordano? L’uomo, che firmò il ‘Manifesto della Razza’, internazionalizzò l’arte italiana proponendo analisi su Cèzanne e il Cubismo. Un artista con grandi contraddizioni. Ma un vero artista. I suoi paesaggi italiani tentavano nuove sintesi artistica. Per rinnovare la pittura. Per ‘asciugare’ il paesaggio dopo la stagione impressionista. E per ritornare all’essenzialità della rappresentazione.
Tuttavia, qualcosa appare non detto. Una mostra su Soffici necessita di una più chiara storicizzazione; per questo si ha l’impressione di una mostra un po’ disattenta al relativo quadro storico-culturale; una mostra in cui viene ricordato più un pittore di paesaggi che l’artista del suo tempo; sembra, allora, che non ci sia traccia dell’intellettuale borghese elacerbiano, dello “spalancatore di porte e finestre” come lo considererà Giorgio Morandi.
Un pittore emozionante il Soffici. Il pittore delle valli toscane e profonde. Ma quei paesaggi furono un suo momento di tregua; una tregua dopo gli anni di “combattimento ideale” con Papini e con il Fascismo. Va scritto esplicitamente: la figurazione essenziale delle giornate di paesaggio è comprensibile solo dopo aver inquadrato la stagione del ritorno all’ordine. Cioè, non si scopre il lirismo pittorico di Soffici senza riferirsi ad una certa idea dell’arte che, dopo le infatuazioni futuriste, ritornò a Giotto, alla pittura sacra, al racconto della dignitas italica e medievale.
Di sicuro questa mostra conduce il critico a recuperare i nomi di Funi e Drudeville, cioè di quegli artisti che non accettavano l’idea della morte della civiltà occidentale. In questi, come in Soffici, era forte l’idea di un’arte indirizzata al cambiamento ma senza perdere il contatto con la tradizione. Quante verità ci sono nei contadini toscani di Soffici! Quanta poesia nelle sue donne stilizzate e laboriose! In lui si respira la modernità che si congiunge con la forma dell’arte toscana e con la pittura murale del Quattrocento.
Nella mostra, accanto ai paesaggi di Soffici, è positivamente rimarchevole la visione di tele di altri pittori. Quindici opere di italiani del Novecento invitano a considerare Soffici nel quadro di una generazione che esprime De Chirico e Carrà. Ed è questo un aspetto che andrebbe sviluppato maggiormente. Ed è questo un punto di partenza per evitare di de-storicizzare un altro artista. In tanti vorrebbero de-storicizzare la scomoda arte della prima metà del Novecento e farlo per appropriarsi di una carica storico-artistica unica.
Insomma, per conoscere Ardengo Soffici, per dialogare con la sua arte, per percepire lo spirito del paesaggio italiano da lui dipinto, diviene fondamentale rileggere la personalità di questo artista. Un artista che dall’avanguardia giunse alla restaurazione fascista; dal rifiuto del classicismo poi arrivò ad imitare Giotto; e dal caos delle vicende del secolo spietato raggiunse le immagini di un mondo ideale, le immagini del paesaggio italiano.
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