venerdì 3 aprile 2015
L’ecologia contemporanea e il pensiero di Alain de Benoist...
di Francesco Marotta
Uno dei presupposti delle società attuali, è un approccio superficiale e metodico che ha stravolto nel corso degli anni i filoni della materia che si occupa degli ecosistemi presenti sulla Terra. L’ecologia, purtroppo, non è immune dalle questue che si basano su un arrangiamento anacronistico ed interpretativo, spesso assolutista, quando si parla degli organismi che delimitano i margini dell’interazione con l’ambiente che li circonda; capovolgendone il senso e gli elementi distintivi, predisposti ad un certo uso comune. Emerge, quando parliamo di ecologia, sempre più una volontà che si adatta alla riformulazione di un ruolo interattivo ed utilitarista, che è poi la base e la voce del lasciapassare sistemico e massificante di una tendenza: un’unica specificità, morfologica e biologica, che deve essere somministrata con sregolatezza. In che modo? Riformulando le trasfigurazioni prese alla lettera da Eraclito e dalle sue trasformazioni del “fuoco vitae”, riadattate ad un elemento e ad un magistero, quale è diventata in alcune sue diramazioni l’ecologia contemporanea. Conglobate in un assolo ripetitivo che richiama alla memoria a qualsiasi organismo, purché provvisto di caratteristiche proprie, una certa autenticità sommaria in cui «Tutte le cose sono uno». Quel principio che si basa su un criterio paritario che agisce destrutturando tutte le peculiarità e le differenze delle autonomie che tra l’altro, definiscono la storia dell’uomo, livellate da una mentalità progressista che è contro le identità collettive. A fronte di questa inconcepibile alterazione che ha investito addirittura i processi economici e finanziari (vedasi l’ultima invenzione dei green bond), poniamo alcune domande, ad Alain de Benoist. Per conoscere le sue osservazioni sul rapporto fra l’uomo e la natura, il suo parere sui movimenti ecologisti moderni e sull’ecologia profonda, espressione del filosofo e alpinista norvegese Anes Naess. Tanti argomenti per analizzare una branchia della scienza, vittima illustre del personalismo liberal-capitalista.
Gli stati occidentali sono accomunati dai due principi base: quello tecnico-industriale e quello della produttività, con il fine ultimo di incidere sulle prospettive del mercato. In tutto questo, quale può essere una corretta relazione tra uomo e natura ?
Gli autori liberali sono a favore di un mercato « autoregolatore e autoregolato »: essi ritengono che la « mano invisibile » (Adam Smith) sarebbe in grado di operare tanto più efficacemente sui mercati se si eliminasse ogni ostacolo politico, culturale e ambientale, che potrebbe arrestare una libertà commerciale intesa come libertà fondamentale. In una simile prospettiva, è chiaro che le preoccupazioni ecologiste non sono affatto tenute in considerazione. Gli stessi autori liberali riconducono tutti i valori all’unico valore dello scambio commerciale. Essi considerano come inesistente tutto ciò che non si riesce a concepire in termini di calcolo e di quantità. Si mostrano indifferenti verso la qualità della vita in quanto non é quantificabile. Infine, hanno creduto per molto tempo che le risorse naturali fossero al contempo gratuite e inesauribili, mentre oggi sappiamo che non sono né le une né le altre. Per tutte queste ragioni, la logica profonda del capitalismo liberale, che é una logica dell’illimitato, vale a dire del « sempre di più », risulta inconciliabile con le esigenze de conservazione degli ecosistemi.
Un rapporto corretto con la natura implica rompere con l’idea che già si trova nella tradizione biblica, secondo la quale l’uomo deve « dominare la Terra» (Gen. 1, 28) – diventare il « signore e sovrano » della natura, come voleva Cartesio. In altre parole, si tratta di farla finita con questo concetto secondo il quale la Terra sarebbe un mero oggetto appropriabile da un soggetto umano per mezzo della tecno-scienza. Al rapporto di dominio si deve sostituire un rapporto di coappartenenza. La natura non è soltanto « buona » in virtù di quello che ci offre, essa è intrinsecamente buona, indipendentemente perfino dall’utilizzo che se ne fa. Il mondo naturale non è un semplice scenario della nostra esistenza, ma è invece una delle condizioni sistemiche della vita. L’etica dell’ambiente si pone così immediatamente come antagonista della concezione utilitarista o strumentale della natura, sia che quest’ultima si esprima come indifferenza nei confronti dei problemi ambientali sia per la loro considerazione nella sola prospettiva di una gestione dell’ambiente naturale conforme all’assiomatica dell’interesse. Al di là delle illusioni dello « sviluppo durevole » e del « capitalismo verde », questo modo di vedere le cose deve portare finalmente a formulare una critica in profondità dell’ideologia della crescita: non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito.
Che idea si è fatto dei movimenti ecologici moderni e dei “nuovi” parametri del progresso che alcuni di essi seguono con costanza da diversi anni ?
Il grande problema dei movimenti ecologisti moderni é che in realtà non si interessano molto all’ecologia. Trascorrono più tempo a tutelare l’immigrazione, la teoria del gender, il femminismo egualitario o la legalizzazione delle « droghe leggere », tutte cause il cui carattere «ecologico» è assai poco evidente, piuttosto che lottare per restaurare gli equilibri naturali. In molti paesi, i Verdi si sono storicamente alleati a partiti socialisti o socialdemocratici acquisiti al culto della crescita, del produttivismo, e del sovrappiù, e per di più oggi sempre più convinti dei benefici dell’economia di mercato. E’ il motivo per il quale molti di loro esitano a rimettere in discussione i postulati dell’ideologia del progresso o la nozione stessa dello «sviluppo».
E’ appunto per uscire da questo circolo vizioso che un certo numero di economisti, teorici o gruppi ecologisti propongono di adottare un approccio alternativo. Invece di limitarsi a valutare il costo finanziario dei rischi, a determinare tassi d’inquinamento sopportabili, a moltiplicare le sanzioni, tasse e regolamentazioni d’altro genere, sarebbe a loro avviso il caso di ripensare interamanente il modello attuale di società, di farla finita con l’egemonia del produttivismo e della ragione strumentale; insomma, di agire sulle cause piuttosto che sugli effetti, rompendo con la religione della crescita e con il monoteismo del mercato. Sono i partigiani della decrescita.
Secondo lei, quali spazi può occupare nella società europea il pensiero dell’ecologia profonda, espresso dal filosofo e alpinista norvegese Anes Naess ? È evidente una cattiva interpretazione dell’ecosofia contemporanea, mescolata all’ecologia superficiale ?
Ci sono delle cose molto interessanti nell’Ecologia profonda, di cui il norvegese Arne Naess, scomparso nel 2009, è stato il principale teorico. Naess, ad esempio, riconosceva a pieno titolo il valore intrinseco della natura: « Il benessere della vita non umana sulla Terra ha valore per se stessa, scrive Naess. Questo valore é indipendente da ogni forma di utilità strumentale per i limitati scopi umani». Per arrivare a tale conclusione, la Scuola profonda usa un’argomentazione di tipo spinozista, secondo la quale la prova del valore intrinseco della natura è che l’uomo che cerca di realizzare se stesso finisce per diventare parte integrante con la natura.
L’Ecologia profonda diventa più criticabile quando spinge fino all’assurdo il suo rifiuto di quella visione « antropocentrica » e « specista ». Certo, non c’è dubbio che la sfida ecologista implichi una riforma del nostro modo di pensare, e l’avvento di una forma di pensiero più globale, meno « insulare » – dunque meno « antropocentrica ». Ma non si deve cadere neppure nell’eccesso opposto, che consiste nel credere che il miglior modo di impedire all’uomo di ritenersi soggetto sovrano della Terra, sia negare la sua specificità e del suo “dissolversi” nell’essere vivente, considerandolo solo come un’entità naturale fra altre. L’Ecologia profonda cade in questo eccesso quando loda un biocentrismo egualitario o riduzionista, o ancora quando interpreta l’unità del mondo come semplice identità, senza considerare che in una vera concezione olistica, il tutto è sempre articolato su diversi livelli. In questo modo, essa si delinea come una falsa alternativa fra l’antropocentrismo dominatore e il rifiuto di riconoscere all’uomo le caratteristiche specifiche che gli appartengono. Una simile alternativa continua furtivamente ad appoggiare sul dualismo cartesiano. Il compito che attende gli ecologisti è superare in toto questo dualismo. Non si tratta dunque di scegliere cultura contro natura, come fanno quelli che credono che quest’ultime si contrappongano come la libertà e la necessità, né natura contro cultura come pensa chi crede che il solo modo per proteggere l’ambiente naturale sia dissolvere l’uomo nel flusso dell’ esistenza, e perfino farlo scomparire. Si tratta, al contrario, di rifiutare l’umanesimo erede degli Illuministi, che crede che si possa riconoscere all’uomo la sua dignità strappandola al mondo naturale, e l’ideologia di quelli che dimenticano ciò che crea in proprio il fenomeno umano. Riconoscere la specificità umana non legittima più il dominio e la distruzione della Terra, così come la difesa e la conservazione della natura non implicano la negazione di ciò che vi è di unico nella specie umana.
(Traduzione a cura di Cristina Laura Masetti)
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