Abbiamo
intervistato Marco Tarchi, professore ordinario presso la Facoltà di
Scienze Politiche dell'Università di Firenze ma anche animatore delle
riviste Diorama Letterario
( www.diorama.it) e Trasgressioni. Buona lettura.
Professor
Tarchi, Lei sin dalla giovane età si è occupato di politica, prima come
militante poi come studioso. Cos'è cambiato nel panorama politico dagli
anni settanta ad oggi?
Prima di tutto, è
cambiata un’atmosfera. Si è modificato un clima psicologico. Gli anni
Settanta sono stati l’epoca delle speranze, delle utopie, delle
illusioni. Un tempo in cui alla politica veniva assegnato un ruolo
salvifico. Solo negli ambienti più radicali, di diverso segno, si ambiva
a fare della militanza uno stile di vita, ma nelle società di molti
paesi una qualche aspirazione alla modifica – attraverso la politica –
della situazione esistente era ampiamente diffusa. Oggi viviamo l’era
della rassegnazione, del pragmatismo spicciolo, del piccolo cabotaggio.
Si dà per scontato un po’ ovunque che debba essere l’economia, con i
suoi postulati e i corrispondenti imperativi, a guidare le mosse della
classe politica. Lo spirito del tempo induce i più a credere che stiamo
vivendo nel migliore dei mondi possibili, e che tutto quel che dobbiamo
fare è salvaguardarlo. L’obiettivo a cui si guarda è rendere eterno il
presente, cercando soltanto di rappezzarne qualche toppa. Nel
Sessantotto si esagerava, sognando di mandare la fantasia al potere, ma
adesso si esagera in senso inverso, riducendo la politica alla mera
amministrazione di risorse materiali più o meno scarse.
Cosa è successo
alle ideologie? Che fine hanno fatto le folle che riempivano le strade e
si impegnavano per vedere l'affermazione delle idee in cui credevano?
Quelle folle di
giovani, come più d’uno a suo tempo aveva previsto, hanno “messo la
testa a posto” in tempo per prendere l’ascensore di una dinamica sociale
che, fino a una quindicina di anni fa, ha consentito un ricambio
generazionale a somma positiva. È fin troppo scontato fare il censimento
delle posizioni di vertice cui sono approdati, in vari settori, tanti
animatori della contestazione del ’68 e del ’77. Può darsi che
credessero davvero che sarebbero riusciti a scardinare il “sistema” e a
costruire quello che i colti definivano “un altro orizzonte di senso”.
Resta il fatto che, non appena si sono resi conto che non ce l’avrebbero
fatta – o che provarci sul serio fino in fondo era troppo faticoso o
rischioso – in quel sistema si sono scavati una comoda nicchia. Certo,
ci sono stati anche i combattenti e i perdenti, ma su di loro è calato
l’oblio, mentre i capetti più furbi continuano a pontificare, in pieno
stile borghese, su temi molto meno “pericolosi” di quelli difesi un
tempo. Dalla dittatura del proletariato sono passati ai “diritti
dell’uomo”, dal rovesciamento della piramide sociale alla difesa dei
matrimoni omosessuali, dal terzomondismo all’elogio dell’american dream.
Sanno fiutare il vento e lo alimentano col loro fiato. Ma non tutte le
ideologie sono scomparse. Una – il liberalismo – ha sbaragliato il
campo, si è fatta paradigma di idee, opinioni e comportamenti e,
proiettata e protetta dalla potenza statunitense (che è fatta, come si è
intelligentemente notato, del soft power informativo e culturale non
meno che dell’hard power delle armi), prospera indisturbata,
stigmatizzando e penalizzando ogni punto di vista non “politicamente
corretto”.
Deluso dallo scarso spessore dell'uomo?
Ogni volta che lo
ammetto, qualche grillo parlante, in genere un ex “non conformista”
avido di visibilità mediatica e incarognito per non essere riuscito ad
ottenerla o conservarla, mi assesta una bacchettata, proclamando che la
politica è un gioco per duri e chi non vince non può dare la colpa agli
altri e recitare la parte dell’incompreso. Ma, ad onta di questa banali
osservazioni, che non sono certo state coniate da questi improvvisati
maestri del pensiero, ci troviamo di fronte ad un dato ineludibile: la
mentalità collettiva alimentata da un certo generico progressismo,
frutto del matrimonio di interesse fra il postmarxismo in ritirata dopo
la caduta del Muro di Berlino e il materialismo pratico del liberalismo
individualista, ha reso impermeabile l’uomo medio ad ogni tentazione di
uscire dal sistema oggi vigente.
Nonostante, tutto però continua a condurre la sua battaglia culturale, no?
Sì, anche se senza
illusioni e fra molte delusioni. Lo considero un dovere, perché chi
coltiva credenze e le collega a visioni del mondo coerenti, come a me
accade, non può paragonare il compito degli “uomini di idee” (la
definizione è, fra gli altri, di Norberto Bobbio, e dà un’immagine meno
arida e stereotipata degli intellettuali) con quello degli esponenti di
un partito. I secondi, da quando è in auge il marketing
politico-elettorale, sanno che, per conquistare consensi, devono
adattare il proprio prodotto alle aspettative che in quel momento sono
diffuse fra i potenziali sostenitori. Se tentano di “convertirli”, di
farli ragionare, di stimolarne il senso critico (e quindi,
letteralmente, di “mettere in crisi” le loro convinzioni preesistenti),
sono condannati all’insuccesso. I consulenti politici professionali lo
insegnano, e hanno buone ragioni. Ma chi vuol diffondere idee deve
svolgere proprio quella funzione che poco fa ho indicato: non deve
adeguarsi a ciò che pensano gli altri, ma convincere loro della bontà di
ciò che propone. Poi, certo, c’è il fattore logoramento umano ad
entrare in gioco. Passano gli anni, i lustri e i decenni, e a forza di
non raggiungere gli obiettivi sperati cresce la tentazione di gettare la
spugna. Io la sento da un pezzo. Fin qui sono stati l’autostima,
l’orgoglio e il senso del dovere verso ciò che resta dell’ambiente che
si è a suo tempo creato attorno al progetto metapolitico che attraverso
convegni, conferenze, dibattiti, interviste, libri e riviste (due delle
quali, “Diorama” e “Trasgressioni”, tuttora vive) mi sono sforzato, con
altri amici, di animare, ad impedirmi di mollare.
Vede spiragli per una nuova era?
Pochi. Sarà l’età,
con il suo pesante carico, sarà il mio carattere troppo incline a
lasciare a briglia sciolta gli entusiasmi, ma ho l’impressione che
quanti si riconoscono nell’attuale sistema politico e, soprattutto,
culturale, alimentandolo e dirigendolo, lo abbiano efficacemente
blindato. Alcuni amici continuano a ripetermi che a cambiare le cose
sarà l’evoluzione degli scenari internazionali, perché la “grande
politica” da sempre da lì trae la propria linfa. Può darsi, ma non mi
faccio illusioni. Mi pare che l’unico elemento del panorama che, pur con
molti difetti e almeno altrettante ingenuità, non sia del tutto
integrabile nello stato di cose esistente sia il tanto vituperato
populismo. Ovvero quella mentalità che contrappone le virtù idealizzato
del popolo alle élites corrotte e autoreferenziali e fa appello alla
rigenerazione di alcuni valori del “buon tempo antico”. In forme
diverse, il fenomeno sta facendosi strada, e per ora il cordone
sanitario della denigrazione, che gli è stato teso immediatamente
attorno, non lo ha domato. Staremo a vedere cosa ne sortirà.
Cosa pensa della frase di Heidegger, "solo un Dio ci può salvare"??
Se non la si assume come mero farmaco autoconsolatorio, è una massima acuta. Che ci lascia una traccia di speranza.
A cura di Sergio Terzaghi