di Mario Michele Merlino (ereticamente.net)
Nella notte tra il 18 e il 19 dicembre 1941 il sommergibile italiano
Scirè, comandato dal Tenente di Vascello MOVM Junio Valerio Borghese, si
porta all’imboccatura del porto di Alessandria, alla cui fonda sono
ancorate due corrazzate inglesi ed altro naviglio militare e mercantile.
Tre ‘maiali’ con due piloti ciascuno superano la rete d’acciaio a
protezione ed infliggono la più pesante sconfitta nel Mediterraneo alla
flotta britannica. Sei piloti, sei medaglie d’oro. La settima al
sommergibile. Una impresa entrata nella leggenda, invidiata,
ineguagliata. Il principe Borghese la descrive in Decima Flottiglia Mas,
libro entrato in adozione e di studio nelle Accademie militari di gran
parte degli Stati nel mondo. Non in Italia, va da sé. Quando a Yuri
Gagarin, il primo astronauta sovietico, fu chiesto quale libro italiano
conoscesse, rispose senza esitazione ‘quello del Comandante Borghese’.
Con imbarazzo dei cronisti accompagnatori autorità.
Libro che si conclude, dopo aver ricordato come avesse appreso
casualmente, accendendo la radio ‘dalla gracchiante voce’,
dell’armistizio: ‘Nessuno dei miei numerosi superiori diretti o
indiretti aveva ritenuto necessario darmene, sia pure riservatamente,
preventiva comunicazione. Mi sembrò strano’ (E con questa espressione il
libro tutto diviene poesia, come gli riconosceva il poeta americano e
fra i più grandi del Novecento Ezra Pound).
La Marina italiana, nell’anniversario di quell’impresa, sessantatre anni
dopo, ne ha voluto farne perenne ricordo dando il nome di Scirè,
appunto, ad un nuovo sommergibile. Madrina del varo Elisabetta, figlia
di Emilio Bianchi, allora novantaduenne ed ultimo ancora in vita di
quella pattuglia di ardimentosi. Per l’occasione, con una lettera alla
stampa, l’Ammiraglio di Squadra Sergio Biraghi, Capo di Stato Maggiore
della Marina, ha ricordato l’avvenimento. Ebbene: accanto a tutta una
serie di proposizioni di dubbia interpretazione, non una volta ha citato
il Comandante Borghese che di quella impresa fu animatore e guida.
Timoroso, forse, di ricordare chi, dopo l’8 settembre del ’43, volle
mantenere alto sul pennone della caserma di San Bartolomeo, a La Spezia,
quello stesso tricolore frettolosamente ammainato dal re e il suo
sodale Pietro Badoglio in fuga. Nessuna novità, si badi bene, nessuno
scandalo. L’Ammiraglio Biraghi fa il suo mestiere, in un Paese dove la
memoria collettiva è monca e, di conseguenza, anche le Forze Armate
rappresentano questa divisione. (Non tornerò su la mia lezione alla
scuola di fanteria a Cesano).
Mi piace, però, a commento, raccontare questo episodio, raccolto dalla
viva voce del Comandante. Anni dopo la guerra egli e sua moglie, la
principessa russa Donna Daria, durante un viaggio in Inghilterra, furono
invitati nell’esclusivo Club dell’Ammiragliato inglese. Al termine
della cena l’Ammiraglio Cunningham, presidente del Club e già Comandante
della flotta inglese dal 1940 al 1942 nel Mediterraneo, levò il
bicchiere per il tradizionale brindisi all’ospite. E aggiungendo queste
testuali parole: ‘Comandante Borghese, quando sapevamo che Lei e i Suoi
uomini eravate in mare, ci sentivamo dei sitting ducks’ (dei bersagli
seduti che, in gergo della marina equivale ad essere sotto tiro e senza
difesa alcuna).
Vorrei sottolineare che, certo, fu gesto di cortesia, ma anche – e
soprattutto – un atto di sincero riconoscimento al valore e al merito
verso l’avversario d’allora. E Cunningham non poteva ignorare come
Borghese avesse combattuto anche dopo l’armistizio, nella RSI, in nome
della fedeltà alla parola data e all’Onore, che divenne il motto della
Decima, accanto all’alleato tedesco. Un atto di cortesia; un gesto di
nobile cavalleria tra vecchi avversari. Di stile, appunto, di quello
stile che, con la sua sciocca omissione, è mancato all’Ammiraglio Sergio
Biraghi.
Episodio questo, nel suo complesso, che m’è tornato a mente ascoltando
(anch’io casualmente) la radio l’altro giorno. Alla Camera parlano della
vergognosa vicenda dei due marò, La Torre e Girone, il Ministro degli
Esteri Terzi e quello della Difesa l’Ammiraglio Di Paola (quanti,
purtroppo, ammiragli abbiamo avuto… a cominciare da quel Carlo Pellion
di Persano che si dimostrò incompetente e imbelle nella battaglia di
Lissa il 20 luglio del 1866, passando per Franco Maugeri che, al termine
del conflitto, venne decorato di alta onorificenza USA per il
contributo fornito alla causa degli alleati). Quest’ultimo, in contrasto
con il dimissionario Terzi, dichiara di restare sulla nave fino
all’ultimo…
Ed io penso a quegli ufficiali, questi sì eredi e testimoni d’antiche
virtù marinaresche, che vollero e seppero restare sulla loro nave e con
essa immergersi nelle acque mortali di una notte senza stelle. Penso, ad
esempio, al comandante del sommergibile Tazzoli, Carlo Fecia di
Cossato, che per fedeltà al Re aveva obbedito e portata la sua nuova
unità, l’avviso-scorta Aliseo, a Malta dopo l’8 settembre. Resosi conto,
però, di essere stato ‘indegnamente’ tradito e d’aver commesso ‘un
gesto ignobile’, si suicidava a Napoli il 28 agosto ’44. ‘Da mesi penso
ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e
penso che il mio posto è più con loro che con i traditori e i ladruncoli
che ci circondano’(dalla lettera indirizzata alla madre e datata il 21
agosto). Quei traditori e quei ladruncoli che abbiamo imparato a
conoscere e disprezzare fuori e dentro le istituzioni…
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