lunedì 11 marzo 2013

Non dobbiamo adeguarci al pensiero unico



Abbiamo intervistato Marco Tarchi, professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze ma anche animatore delle riviste Diorama Letterario 
( www.diorama.it) e Trasgressioni. Buona lettura.
Professor Tarchi, Lei sin dalla giovane età si è occupato di politica, prima come militante poi come studioso. Cos'è cambiato nel panorama politico dagli anni settanta ad oggi?
Prima di tutto, è cambiata un’atmosfera. Si è modificato un clima psicologico. Gli anni Settanta sono stati l’epoca delle speranze, delle utopie, delle illusioni. Un tempo in cui alla politica veniva assegnato un ruolo salvifico. Solo negli ambienti più radicali, di diverso segno, si ambiva a fare della militanza uno stile di vita, ma nelle società di molti paesi una qualche aspirazione alla modifica – attraverso la politica – della situazione esistente era ampiamente diffusa. Oggi viviamo l’era della rassegnazione, del pragmatismo spicciolo, del piccolo cabotaggio. Si dà per scontato un po’ ovunque che debba essere l’economia, con i suoi postulati e i corrispondenti imperativi, a guidare le mosse della classe politica. Lo spirito del tempo induce i più a credere che stiamo vivendo nel migliore dei mondi possibili, e che tutto quel che dobbiamo fare è salvaguardarlo. L’obiettivo a cui si guarda è rendere eterno il presente, cercando soltanto di rappezzarne qualche toppa. Nel Sessantotto si esagerava, sognando di mandare la fantasia al potere, ma adesso si esagera in senso inverso, riducendo la politica alla mera amministrazione di risorse materiali più o meno scarse.
Cosa è successo alle ideologie? Che fine hanno fatto le folle che riempivano le strade e si impegnavano per vedere l'affermazione delle idee in cui credevano? 
Quelle folle di giovani, come più d’uno a suo tempo aveva previsto, hanno “messo la testa a posto” in tempo per prendere l’ascensore di una dinamica sociale che, fino a una quindicina di anni fa, ha consentito un ricambio generazionale a somma positiva. È fin troppo scontato fare il censimento delle posizioni di vertice cui sono approdati, in vari settori, tanti animatori della contestazione del ’68 e del ’77. Può darsi che credessero davvero che sarebbero riusciti a scardinare il “sistema” e a costruire quello che i colti definivano “un altro orizzonte di senso”. Resta il fatto che, non appena si sono resi conto che non ce l’avrebbero fatta – o che provarci sul serio fino in fondo era troppo faticoso o rischioso – in quel sistema si sono scavati una comoda nicchia. Certo, ci sono stati anche i combattenti e i perdenti, ma su di loro è calato l’oblio, mentre i capetti più furbi continuano a pontificare, in pieno stile borghese, su temi molto meno “pericolosi” di quelli difesi un tempo. Dalla dittatura del proletariato sono passati ai “diritti dell’uomo”, dal rovesciamento della piramide sociale alla difesa dei matrimoni omosessuali, dal terzomondismo all’elogio dell’american dream. Sanno fiutare il vento e lo alimentano col loro fiato. Ma non tutte le ideologie sono scomparse. Una – il liberalismo – ha sbaragliato il campo, si è fatta paradigma di idee, opinioni e comportamenti e, proiettata e protetta dalla potenza statunitense (che è fatta, come si è intelligentemente notato, del soft power informativo e culturale non meno che dell’hard power delle armi), prospera indisturbata, stigmatizzando e penalizzando ogni punto di vista non “politicamente corretto”.
Deluso dallo scarso spessore dell'uomo? 

Ogni volta che lo ammetto, qualche grillo parlante, in genere un ex “non conformista” avido di visibilità mediatica e incarognito per non essere riuscito ad ottenerla o conservarla, mi assesta una bacchettata, proclamando che la politica è un gioco per duri e chi non vince non può dare la colpa agli altri e recitare la parte dell’incompreso. Ma, ad onta di questa banali osservazioni, che non sono certo state coniate da questi improvvisati maestri del pensiero, ci troviamo di fronte ad un dato ineludibile: la mentalità collettiva alimentata da un certo generico progressismo, frutto del matrimonio di interesse fra il postmarxismo in ritirata dopo la caduta del Muro di Berlino e il materialismo pratico del liberalismo individualista, ha reso impermeabile l’uomo medio ad ogni tentazione di uscire dal sistema oggi vigente.

Nonostante, tutto però continua a condurre la sua battaglia culturale, no? 
Sì, anche se senza illusioni e fra molte delusioni. Lo considero un dovere, perché chi coltiva credenze e le collega a visioni del mondo coerenti, come a me accade, non può paragonare il compito degli “uomini di idee” (la definizione è, fra gli altri, di Norberto Bobbio, e dà un’immagine meno arida e stereotipata degli intellettuali) con quello degli esponenti di un partito. I secondi, da quando è in auge il marketing politico-elettorale, sanno che, per conquistare consensi, devono adattare il proprio prodotto alle aspettative che in quel momento sono diffuse fra i potenziali sostenitori. Se tentano di “convertirli”, di farli ragionare, di stimolarne il senso critico (e quindi, letteralmente, di “mettere in crisi” le loro convinzioni preesistenti), sono condannati all’insuccesso. I consulenti politici professionali lo insegnano, e hanno buone ragioni. Ma chi vuol diffondere idee deve svolgere proprio quella funzione che poco fa ho indicato: non deve adeguarsi a ciò che pensano gli altri, ma convincere loro della bontà di ciò che propone. Poi, certo, c’è il fattore logoramento umano ad entrare in gioco. Passano gli anni, i lustri e i decenni, e a forza di non raggiungere gli obiettivi sperati cresce la tentazione di gettare la spugna. Io la sento da un pezzo. Fin qui sono stati l’autostima, l’orgoglio e il senso del dovere verso ciò che resta dell’ambiente che si è a suo tempo creato attorno al progetto metapolitico che attraverso convegni, conferenze, dibattiti, interviste, libri e riviste (due delle quali, “Diorama” e “Trasgressioni”, tuttora vive) mi sono sforzato, con altri amici, di animare, ad impedirmi di mollare.

Vede spiragli per una nuova era? 
Pochi. Sarà l’età, con il suo pesante carico, sarà il mio carattere troppo incline a lasciare a briglia sciolta gli entusiasmi, ma ho l’impressione che quanti si riconoscono nell’attuale sistema politico e, soprattutto, culturale, alimentandolo e dirigendolo, lo abbiano efficacemente blindato. Alcuni amici continuano a ripetermi che a cambiare le cose sarà l’evoluzione degli scenari internazionali, perché la “grande politica” da sempre da lì trae la propria linfa. Può darsi, ma non mi faccio illusioni. Mi pare che l’unico elemento del panorama che, pur con molti difetti e almeno altrettante ingenuità, non sia del tutto integrabile nello stato di cose esistente sia il tanto vituperato populismo. Ovvero quella mentalità che contrappone le virtù idealizzato del popolo alle élites corrotte e autoreferenziali e fa appello alla rigenerazione di alcuni valori del “buon tempo antico”. In forme diverse, il fenomeno sta facendosi strada, e per ora il cordone sanitario della denigrazione, che gli è stato teso immediatamente attorno, non lo ha domato. Staremo a vedere cosa ne sortirà.
Cosa pensa della frase di Heidegger, "solo un Dio ci può salvare"??
Se non la si assume come mero farmaco autoconsolatorio, è una massima acuta. Che ci lascia una traccia di speranza.

                                                                           A cura di Sergio Terzaghi

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