“Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane” Italo Calvino
Gioventù che vive di studio e di sogni, di inadeguatezza e insoddisfazione. Quella gioventù simbolo di ideali, lotta per conquistarsi un posto nel mondo, ma al contempo quella buona dose di spensieratezza senz’altro assente negli anni più maturi, sembra oggi durare più a lungo che un tempo. Anche se non fisiologicamente, vari fattori stanno contribuendo a spostare sempre più in avanti l’asse di demarcazione tra gioventù e maturità, in riferimento a quello che caratterizza un vero e proprio status etico, economico, sociale, degli individui della nostra società.
Viene da pensare alla sindrome, formulata dallo Junghiano Hillman, del puer aethernus, più nota come sindrome di Peter Pan, che affligge chi rifiuta categoricamente di entrare in quel mondo degli adulti considerato grigio e ostico e anacronisticamente, si sforza di restare bambino, in una sorta di infantilismo forzato in un corpo all’ apparenza maturo. Il puer preferisce così rinchiudersi nella gabbia dorata e artificiale di una prolungata fanciullezza, in una sorta di Eden in cui regna un ottimismo che altro non è che illusione, negazione della realtà. In questo modo, inconsciamente, il Peter Pan di turno si fa scudo dalla vita e dal dolore, dalle responsabilità, dalla maturità che è crescita ma anche perdita di innocenza. Precludendosi il passaggio obbligato da infanzia a maturità, non presenta possibilità di evoluzione, ma solo di degenerazione. La sua eterna gioventù si rompe quando egli precipita in quello stato definito da Hillman senex -esattamente opposto a quello del puer- in cui precipita nel materialismo più nero, nella disillusione, nella fragilità dello scoprire quanto sia amaro lo scontro con la realtà.
“Per forza il puer è debole sulla terra, egli non appartiene alla terra. (…) Egli non è destinato a camminare, ma a volare.”
J.Hillman
Davvero la nostra società è costituita da pueri eterni? Sono davvero solo “ragazzi un po’ invecchiati” i trentacinquenni/quarantenni di oggi, quelli che magari si incontrano il sabato sera nei locali “giovani” delle città, quelli che si atteggiano a improbabili gran viveur confusi qua e là tra ventenni, convincendosi di far parte di quella massa informe e giovane? Sarà la crisi dei valori, il conformismo che per forza d’inerzia propaga la vuotezza di un’età; eppure la questione è più complessa di come appare.
Che differenza c’è oggi, tra un ventenne e un quarantenne di media cultura e di media condizione sociale? L’uno studia, l’altro ha studiato. Entrambi, per riprendere l’esempio, si possono vedere in locali il sabato sera, intenti a distrarsi. Ma un ventenne forse può alienarsi almeno per una sera, può far finta di dimenticare e far finta di trovarsi, come nel Candido di Voltaire “nel migliore dei mondi possibili”, può concedersi il lusso di accantonare tutto e lasciare spazio al divertimento e alla follia, perché il ventenne fa questo oggi e lo faceva ieri. Ma nella società di ieri un quarantenne era sposato, era padre di famiglia, era impiegato o libero professionista, aveva, pur con i problemi di sempre, la propria vita in mano e non pensava di certo a distrazioni di una non troppo remota gioventù. Questa deresponsabilizzazione che investe molti elementi della generazione precedente alla nostra; questa incapacità di essere qualcuno al mondo; questa non localizzazione all’ interno della società; la disoccupazione dilagante, la non raggiunta indipendenza totale talvolta anche in età avanzata, sembra così sfociare in quello stigmatizzato divertissement – dal latino de vertere, cioè “deviare, allontanarsi da qualcosa”.
“L’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore tra le nostre miserie. “
Pascal
Ma perché, allontanarsi dalle proprie responsabilità?
Questo apparente disimpegno, non dilaga soltanto per conformismo e inerzia. Forse non si tratta solo di voler essere giovani per forza, non si parla solo di immaturità. Non si tratta di volersi allontanare dalle proprie responsabilità, quanto di non possederle affatto e di comportarsi perciò, di conseguenza. Ecco cosa affligge queste vittime di una società che costringe all’ immaturità perché non fornisce mezzi per maturare i propri obiettivi, la propria professionalità e dunque la propria condizione economica, la propria vita di singolo e di componente della famiglia. Molti sono costretti a rimanere eterni coinquilini dei propri genitori, eterni figli, eterni studenti o laureati in cerca di ventura. Se vero è che il lavoro nobilita l’uomo, è forse l’assenza di impiego che relega l’uomo moderno allo stadio primitivo, incapace di varcare la soglia della maturità della propria vita. Non si tratta allora di prendere in considerazione eterni immaturi che rifuggono le proprie responsabilità, quanto di individui che ne sono totalmente privi. E’ quello che potrebbe configurarsi tra gli altri motivi come conseguenza degenerativa dell’immobilismo, dell’insufficienza di opportunità, di un abbassamento di livello quantitativo di personale richiesto e innalzamento del livello di competenze oggettivamente in contro tendenza ad un sistema universitario che non forma eccellenze ma sforna dottori e dottorini che contribuiscono, con la loro mancata collocazione, a far salire gli indici di disoccupazione … mentre il futuro, è sempre più lontano.
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