mercoledì 22 ottobre 2014

Noi, i ribelli…




di Mario M. Merlino

M’è tornato a mente un episodio raccontato dal giornalista Gianpiero Mughini, che ha sempre manifestato coinvolta stima nei confronti di Berto Ricci. Quando costui si sposò, invitò sette amici al bar e offrì loro un cappuccino direttamente al bancone. Si dirà che erano altri tempi, i tempi di un’Italia ‘proletaria e fascista’, dove ancora tanta miseria albergava e la vita si rendeva grama attenta economa, nonostante l’impegno e le iniziative intraprese dal Fascismo – nominato Presidente del Consiglio Benito Mussolini assicura prioritario l’impegno che il pane sia sulla tavola degli italiani (altro che merendine nello zaino degli obesi bambini dell’osceno presente!). Tanto fu fatto, tanto si sarebbe dovuto ancora fare… Una rivoluzione è un inesausto cammino. Se si ferma, se si illude d’essere compiuta se si adagia, come le biciclette, cade nel rovinio della strada (così si esprimeva Ernesto Che Guevara). Anche allora pasciuti borghesi si sposavano con la chiesa addobbata di fiori la Balilla ad attenderli il ristorante. Berto Ricci era un modesto professore di matematica, un precario si direbbe oggi, proveniente dalle file del sovversivismo libertario eppure sognava credeva combatteva con la penna, prima di donare il proprio sangue, alla sabbia della Quarta Sponda affinché il Fascismo realizzasse il suo compito ‘universale’… Retorica follia inganno travisamento della realtà? E’ facile con il senno di poi a grattare la vernice, dopo è sempre troppo facile, dietro la scrivania a far strage delle illusioni con cinismo e ironia e sovente una buona dose di malafede… Erano, Berto Ricci e tanti altri, i Guido Pallotta i Niccolò Giani i giovani della scuola di Mistica fascista, i vecchi squadristi e i giovanissimi dell’ultimo lavacro di sangue, i combattenti di una visione del mondo di idee a disegnare un nuovo ordine europeo di trincee ove realizzare il cambiamento. Fra costoro Giuseppe Solaro. I ribelli dell’esistente, che vedono nel Fascismo e nel suo Capo il cammino, l’unico, verso quel mondo ove finalmente coabiteranno lo spirito di un uomo rigenerato nei valori dello Spirito e reso giusto e sano nel riconoscimento del proprio lavoro.
Alla scomparsa di Giano Accame la figlia Barbara, vedova dell’amico e camerata Peppe Dimitri, chiese di incontrarmi in quanto il padre aveva lasciato incompiuto un libro – in effetti mancava soltanto nei suoi intenti un capitolo dedicato a Mishima Yukio –, che l’editore Mursia si apprestava a dare alle stampe. Un bel libro dal titolo La morte dei fascisti (da professore ‘rompicoglioni’ avrei trovato più corrispondente un ‘per’ al posto del ‘dei’, ma tant’è…), di cui organizzai la presentazione presso l’Istituto Carlo Panzarasa a Trieste. Barbara, per espresso desiderio del padre, avrebbe voluto in copertina la riproduzione di un manifesto, di quelli meno noti, d’arruolamento nella Decima MAS. Mi raccontava che anche per quell’immagine s’era voluto arruolare, per un sol giorno, appunto il 25 aprile del ’45. Qualcuno le aveva detto che ne possedevo copia originale. Non se ne fece nulla, pur assicurandole che non vi erano diritti d’autore; l’editore preferì la fotografia dell’assassinio di Giuseppe Solaro, di quel volto ormai al di là del contingente del provvisorio di certo della canea che lo circonda e di coloro che ghignano si beano della corda già intorno al collo. L’uomo contro il sub-umano, quell’andare essere già oltre nel luogo riservato alla metafisica. Come aveva scritto Filippo Corridoni pochi giorni prima di scomparire nel fuoco della trincea delle Frasche: ‘Io rimarrò sempre il Don Chisciotte del sovversivismo; ma un Hidalgo senza ingegno, pieno soltanto di fede. Morirò in una buca, contro una roccia, o nella corsa di un assalto, ma – se potrò – cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora’… (E la sua stele, fra le doline di Monte San Michele, è il riconoscimento per quel sindacalista rivoluzionario che accettò di partecipare volontario alla guerra ‘borghese’ per trasformarla in guerra di popolo, premessa della giustizia sociale).
Domenica mattina, sede dell’ass. Volontari di guerra, a Trastevere, per la presentazione del libro di Fabrizio Vincenti su Giuseppe Solaro, il fascista che sfidò la FIAT e Wall Street, edizione Ciclostile. Ho avuto copia due giorni prima per prepararmi a sostituire Enzo che s’è reso indisponibile per ragioni di salute. Trecento pagine, arricchite da numerose e inedite fotografie, a riempire uno spazio colpevolmente manchevole verso un uomo che, nella brevità della sua esistenza (viene assassinato che non aveva ancora trentuno anni), ha dato tanto e di più in idee ed azione. Trecento pagine che confermano come il Fascismo rappresenti la sola grande rivoluzione in armi del XX secolo. Con le armi perché nessun potere legato al capitale sarà disposto a suicidarsi volontariamente, a cedere privilegi e profitto, a rendere se stesso altro da sé. ‘Dalla guerra che è oggi universale dipende l’esito della rivoluzione sociale, la sconfitta o il trionfo del lavoro sul soffocamento plutocratico’: scrive. Trecento pagine che ero stato costretto a sfogliare rapidamente e che ora posso leggere con la cura che meritano.
Credo che sia ora stabilire quanto e cosa debba permanere nella riflessione nell’insegnamento nelle linee guida rispetto a questo presente di quella storia a cui restiamo fedeli, incuranti di collocarci dalla ‘parte sbagliata’ anzi fregandoci di essere eredi e testimoni del ‘male assoluto’… Insomma, per citare ancora e sempre Robert Brasillach, il Fascismo ‘immenso e rosso’ (visione del mondo e, quindi, non circoscritta alla fase strettamente storica o limitata alle coordinate europee; superamento sì del comunismo, della sua concezione materialistica, ma pur sempre nell’alveo del socialismo). Come ebbe a dire Nicola Bombacci a Genova, davanti agli operai dell’Ansaldo accorsi a sentire il vecchio tribuno del comunismo: ‘Il Socialismo non lo farà mai Stalin ma lo farà Mussolini’ e il 15 marzo del ’45, sempre a Genova, di fronte ad oltre trenta mila persone riaffermò la coerenza la lealtà delle sue azioni la fedeltà all’idea di riscatto delle masse tramite il lavoro con la socializzazione. Oggi quelle masse sono la voce disperata e offesa che si leva da tante parti, da ogni continente e noi, noi dobbiamo essere possiamo essere – e ‘vogliamo’ essere – la risposta… Ad altri, sempre più a noi distanti e avversi, il ciarpame becero e cretino di una destra borghese, prigioniera dei suoi incubi viltà e paure, a far da reggi-coda al capitale, al potere finanziario, mascherandosi con un dio (che è morto) con una patria (che è morta) con una famiglia (che è morta). Libertari nei diritti da difendere fascisti nello stile di vita e non solo…
Dopo averlo pronunciato alla radio, Giuseppe Solaro si affida al giornale La Riscossa del 12 ottobre ’44 per riproporre quello che può ben dirsi il suo ‘canto del cigno’, il testamento spirituale, certamente il discorso a coronamento di un vissuto tutto speso a difendere le ragioni sociali del Fascismo, in pace e in guerra, e in assoluta fedeltà verso il Duce: ‘E’ facile farsi chiamare ribelli quando si crede di avere gli eserciti amici a pochi giorni di distanza, quando si ritiene la vittoria già scontata, quando si pensa di essere dalla parte del più forte, ormai invincibile, quando si è circondati dalle premure di tanti pavidi che intendono crearsi benemerenze verso ‘il cavallo vincente’… I veri ribelli siamo noi. Ribelli contro un mondo vecchio di egoisti, di privilegiati, di conservatori, di capitalisti oppressori, di falliti sistemi, di superate ideologie, di dottrine ingannatrici, dei falsi e dei bugiardi. Ribelli insomma contro il mondo dell’ingiustizia’. (Varrebbe la pena il riportarlo nella sua interezza). Appunto, ribelli. E questo spiega perché su Giuseppe Solaro ci si è raccolti intorno alla sequenza della sua morte, la doppia impiccagione, il corpo portato attraverso la città di Torino in ‘bella’ mostra per poi essere buttato da una spalletta del ponte giù nel Po. Perché la sua lotta i suoi scritti, il radicalismo delle posizioni dispiacevano a ‘destra’, a quel mondo che solo formalmente diceva di raccogliere l’eredità della Repubblica Sociale. E, a sinistra, il radicale annientamento dell’uomo, cercando di gettargli addosso ogni forma di accusa, di nefandezze, di menzogna. Del resto il primo atto del Comitato di Liberazione fu l’annullamento delle leggi sulla socializzazione…
Un libro non si racconta, anche se trattasi di un saggio, soprattutto se è un libro meritevole d’essere letto e questo lo è. Ad altro era il mio intento. Se vale quanto detto sovente che la nostra speranza si ripone sul territorio, là dove operano le singole realtà, senza pretesa di sedersi a tavolino per improbabili unificazioni politiche, fornendo momenti di cultura quale comune sentire e comuni intenti, questo libro ci fornisce più spunti stimoli inviti e – per quanto mi riguarda – identificazione. Oltre ci affidiamo a quei bastoni e a quelle barricate di contro alla legalità del perbenismo del privilegio del signoraggio…
Il libro di Fabrizio Vincenti riporta, all’inizio, una affermazione di Céline: ‘Quale mondo separa quindi le cose viste, le verità esterne, dalle cose pagate nella carne! Le verità che sappiamo sono decisamente niente, contano solo le verità pagate con il proprio sangue’, eco di quanto già Nietzsche aveva ammonito e che noi condividiamo con entrambi. Il resto è chiacchiere vane battaglie di retroguardia appannamento del senso più autentico del nostro ‘esserci’…

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