di Daniele Zanghi (L'Intellettuale Dissidente)
Pochi sono a conoscenza che tra le opere
di Mishima si puo’ annoverare anche un film, da lui scritto, messo in
scena, interpretato, girato e prodotto. Datato 1966, questo
cortometraggio di 30 minuti fu a lungo creduto andato perso,
probabilmente distrutto dalla sua vedova, per poi essere riscoperto nel
2005. Lungi dall’essere una parentesi o un tentativo, o tantomeno
un’opera minore, una versione propagandistica dell’omonimo racconto da
cui è tratto,Yūkoku (Patriottismo) è da considerarsi
come facente parte a tutti gli effetti del continuum arte-vita
dell’affascinante teorico, ed effettuale protagonista, della filosofia
dell’istante.
La narrazione dei fatti storici che
fungono da pretesto per la presentazione del suicidio rituale viene
affidata a degli intertitoli. In seguito all’Incidente del 26 Febbraio
1936, ossia un tentativo di colpo di Stato organizzato da alcuni alti
ufficiali dell’esercito giapponese, al luogotenente Shinji Takeyama,
amico degli insorti, viene impartito l’ordine di giustiziare i suoi
stessi colleghi. Takeyama si trova nella situazione tragica per
eccellenza: egli è metafisicamente bloccato, incapace sia di tradire i
suoi amici, sia di disobbedire all’Imperatore. Il suo destino è segnato,
l’impossibilità di scegliere una delle due forme di fedeltà lo
costringe ad optare per l’unica soluzione che lo salvi dal disonore: il
seppuku (taglio del ventre). Sua moglie Reiko lo seguirà nella morte
pugnalandosi alla gola.
Le immagini del film, privo di dialoghi, sono accompagnate soltanto da un brano del Tristan und Isolde
di Wagner. L’indefinitezza tonale dell’armonia è coerente con
l’apertura emotiva dei momenti precedenti il rituale: si tratta di una
stessa straziante fumosità sensuale recante pero’ un pesante senso del
definitivo. Separate dal tempo e dallo spazio, le coppie Takeyama-Reiko e
Tristano-Isotta sono accomunate dalla fascinazione per la notte, per il
desiderio insaziabile e fatale, una fascinazione decadente per una
morte voluttuosa che è al contempo una promessa di liberazione: in poche
parole abbiamo uno stesso “rito d’amore e di morte”, una stessa
immersione nell’irrefrenabile notte che sfocia sulla conquista
dell’eternità.
Eppure Yūkoku presenta una
differenza fondamentale rispetto all’estetica decadente occidentale per
così dire “oppiacea”. L’ossessione dell’annullamento che vi ritroviamo
esclude l’informe, il groviglio psicologico e sensuale. Tutto cio’ che
freme e striscia è incompatibile con la purezza ricercata da Mishima. I
suoi personaggi sono dei contemplativi, la loro visione del nulla è agli
antipodi della poca lucidezza di un Tristano in preda a degli attacchi
d’ira. I due amanti sono caratterizzati dalla purezza della loro
intenzione: in particolar modo, ancor più dell’imperturbabilità di
Takeyama, che in quanto uomo non può lasciare trasparire segni di
debolezza -i suoi gesti e le sue espressioni sono freddi, egli è
distante dalla cinepresa e non rivela i propri sentimenti-, colpisce la
risolutezza di Reiko che riesce a vincere il suo istintivo attaccamento
femminile alla vita. Ella sa verso cosa va incontro, ella ha accettato. Nel racconto originale (incluso nella raccolta Morte di Mezza Estate)
si vede bene come Reiko già sapesse dal giorno del suo matrimonio che
questo momento sarebbe infine potuto giungere; il mondo dell’infanzia le
appare lontano e irreale considerata la pienezza identitaria che la
presenza del marito le aveva sempre lasciato intravedere, e alla quale
ora può anch’ella assurgere. Che la sua condotta sia in realtà il
risultato di una cancellazione della sua personalità dettata dall’amore
nevrotico di suo marito, poco importa -Reiko ormai ha deciso.
La pellicola in bianco e nero accentua l’incarnato virginale del suo
volto splendidamente sereno ed i suoi tratti sfiorano la perfezione
nella scena in cui si trucca prima di suicidarsi. Una tale morte è
impensabile per noi occidentali, noi che nelle tragedie abbiamo dei
personaggi divoratori di dubbi.
La filosofia o meglio l’estetica che
anima i due amanti va di pari passo con la severa visività di tutta la
messa in scena. Il debito di Mishima nei confronti del teatro Nō è
evidente, come dimostra l’essenzialità della scenografia. I personaggi
si muovono in due soli ambienti: un giardino e una washitsu, cioè una
stanza tradizionale giapponese, in cui campeggia un kakemono (rotolo di
carta o di seta destinato ad essere appeso ad un muro) recante due
caratteri che significano “fedeltà”. La perfezione formale culmina
nell’inquadratura finale dei due corpi plumbei, quello di Takeyama
vestito dall’abito militare e quello di Reiko dal kimono, adagiati l’uno
sull’altro nella sabbia ondulata del giardino che forma un motivo
circolare. Ecco, ecco gli esseri che, offerti sangue ed interiora,
estirpata l’anima attraverso l’atto estremo, tornano ad essere “dolci e
meravigliosi come gli Dei”*.
*dalla poesia “Le Stelle”
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