giovedì 27 novembre 2014

Se Blob di Rai3 riscopre Ezra Pound (contro l’usura) sulle immagini di Mario Draghi...

di Luca Gallesi (Barbadillo.it)
Che Blob fosse uno dei pochi programmi televisivi da seguire, nonostante non sia più fresco e originale come un tempo, lo sapevamo, ma non avremmo MAI immaginato di trovare il vecchio Ezra correttamente citato, et pour cause, senza alcun intento denigratorio né preamboli esorcizzanti.
E’ successo il 26 novembre, su Rai3, verso le 2, quando l’inconfondibile voce di POUND ha coperto, con le parole e i versi del Canto XLV, Contro l’usura, il discorso di Mario Draghi all’Europarlamento, ed è tornata, pochi minuti dopo, a integrare un’ efficace battuta di Carlo Freccero contro le banche. I titoli in sovrimpressione erano, rispettivamente EZRAPOPPINS e EZRAPOPPER, affettuosi tributi alla scanzonata efficacia, perenne e purtroppo attualissima, del “messaggio” poundiano, e della sua motivata ANALISI critica del meccanismo infernale attraverso il quale le banche creano il DENARO dal nulla, per poi prestarcelo a caro prezzo, imponendo insensati sacrifici e politiche suicide.
Aspettiamo un’altra puntata, magari un po’ più articolata, in cui vedere porre la domanda cruciale, quella che Pound ha spesso provocatoriamente rivolto a politici ed economisti di ogni schieramento: “ma perché i governi continuano a preoccuparsi di dove va a finire il denaro, e quindi cercano di limitarne la spesa, e invece nessuno si chiede mai da dove vengono i soldi, e chi, come e perché li distribuisce? Dire che uno Stato non ha soldi per le opere pubbliche – è sempre Pound che cita una nota battuta – sarebbe come pretendere che gli ingegneri non possono costruire le strade per mancanza di chilometri…”.

martedì 25 novembre 2014

Anniversario della morte di Yukio Mishima. L’uomo che volle vivere per sempre...

di Giorgio Mari (EreticaMente.net)

Un sibilo, ed il fiore del Giappone si stacca dall’albero della vita. Reciso cadde a terra, bello ed elegante in tutta la sua potenza. Era il 25 Novembre del 1970, l’ultimo samurai, cantore del Giappone imperiale, compì il suo estremo atto d’onore dimostrando al mondo un valore superiore dell’attaccamento alla vita. Lui era Yukio Mishima, l’ultima incarnazione dei figli di Amaterasu.
Poeta, letterato, guerriero, nazionalista. Personalità poliedrica a tutto tondo, la sua azione politico-filosofico-idealista fu sempre tesa a riportare in auge i valori del Giappone antico contro una visione consumistica imposta a suon di bombe atomiche dagli americani. La sua vita, fu sempre un continuo battersi contro quella costituzione del 1947 che di fatto occidentalizzava il Paese nipponico ed esautorava il prestigio dell’imperatore, nonché contro quel trattato di San Francisco umiliante verso la sovranità nazionale e le forze armate.
Lui, che fu sole dello spirito ed acciaio del corpo, non poteva accettare l’imposizione USA. Proprio no. Lui che scrisse “Lezioni spirituali per giovani samurai”, un tripudio di bellissime considerazioni sul tradizionalismo giapponese, non poteva sottostare senza far nulla al diktat americano. Lui che della filosofia dell’azione fu l’incarnazione più totale ed autentica. Lui, che dedicò una vita alla bellezza, alla “forma”, alla sostanza della vita e della morte. Lui, che si inscrisse a pieno titolo in un nichilismo attivo nietzscheano, pronto a trasmutare i valori di una società consumistica, vuota e di plastica. Pronto a sostituire il codice a barre con il codice del Bushido, la via del guerriero. Lui, l’ultimo grande commentatore dell’Hagakure, il libro del samurai per eccellenza. Il libro della sapienza e dell’onore nipponico.
Lui che non esitò a concretizzare le sue idee nel Tate no kai, l’associazione degli scudi. Un ristretto gruppo di pochi uomini addestrati ed educati secondo i più ferrei principi del tradizionalismo nipponico. Un esempio di “meglio gioventù” in un mondo decadente. Una sorta di piccolo esercito personale dello scrittore e uomo d’azione.
Il pensiero. L’idea. L’onore di chi combatte per un ideale, quel 25 Novembre 1970 si fece carne, sangue e spirito. Tutto fu pianificato nella massima freddezza e lucidità. Mishima, insieme ai quattro più stretti membri del Tate no Kai, sequestrarono nel suo ufficio il generale Mashita. Lo scrittore guerriero, sempre più determinato, uscì dal balcone e con esplosività, come un fulmine sceso dal cielo, iniziò a parlare alle forze armate, con un proclama, nel tentativo di sollevarle.
“….Abbiamo visto come il Giappone del dopoguerra per seguire l’infatuazione della prosperità economica, abbia dimenticato i grandi fondamenti della nazione; lo abbiamo visto perdere lo spirito nazionale e correre verso il futuro, senza correggere il presente; lo abbiamo visto piombare nell’ipocrisia e precipitare nel vuoto spirituale….”
L’operazione però, non ebbe l’effetto voluto. Le parole di questo grande uomo non furono recepite da piccoli soldatini ormai troppo assuefatti all’”american way of life”. A questo punto, non restò che compiere il supremo gesto. Lo spirito si staglia sul corpo. In un ultimo atto di onore, il figlio del sole si tolse la vita tramite seppuku, il suicidio rituale del samurai. Dimostrando al mondo intero, la potenza ed il valore di un’idea sopra ogni cosa, sopra la materia. Per l’imperatore. Morì così, all’età di 45 anni, l’ultimo samurai del Giappone rimasto sempre in piedi in mezzo alle rovine. Un uomo d’onore che non fu mai vinto dal suo tempo. Un uomo, che volle vivere per sempre.

lunedì 24 novembre 2014

Dalla memoria della destra idee per l’Italia dei nostri giorni...

tricolori
di Mario Bozzi Sentieri (Barbadillo.it)
Era veramente “bella” la destra evocata da Marco Valle (Destra.it), parlando delle recenti alluvioni e ricordando, a questo proposito , le intuizioni di Pino Rauti, che “da destra” tante cose le aveva previste e analizzate, compreso il dissesto idrogeologico nazionale. A cominciare dall’alluvione di Firenze del 1966, quando su “Noi Europa” denunciava, titolando a tutta pagina che “E’ colpa di questo regime se l’Italia cade a pezzi per un’ondata di maltempo” e, dati alla mano, evidenziava la disorganicità degli interventi, il pressapochismo di chi doveva programmare ed intervenire, le giustificazioni, ridicole ieri come oggi, di chi parlava di “catastrofe non prevedibile, di piogge senza precedenti, di eventi naturali di eccezionale ampiezza”. Era il 1966 – si badi bene – 48 anni fa. Niente sembra essere cambiato.
“Il fatto – scriveva Rauti – che abbiamo devastato intere città, province al completo, dimostra solo che in questi ultimi anni non è stato fatto nulla, assolutamente nulla, in materia di dighe, arginature, sistemazione dei loro corsi. I fondi sono andati altrove. Sono stati ‘stornati’ , come si dice, con termine elegante. Sono stati rubati, come diremmo noi”.
Era veramente “bella” quella destra che, partendo dall’orgogliosa adesione “a quei valori superiori, spirituali, la negazione dei quali caratterizza le attuali ideologie sovvertitrici” – come scriveva Rauti presentando la sua ennesima rivista, “Civiltà”, nel 1973 – sapeva misurarsi con la contemporaneità, prefigurando crisi e possibili risposte.
Era la destra che, di congresso in congresso, di documento in documento, di riunione in riunione, pur politicamente accerchiata e discriminata, si interrogava sulle nuove povertà, sui costi di un’urbanizzazione selvaggia e predatoria, sui risultati del relativismo etico diremmo oggi, con le sue battaglie contro l’aborto ed il gap demografico.
Sono un vero “giacimento” da scavare, tanto per usare un’immagine che era cara a Rauti, quando parlava della cultura di destra come una “miniera da scoprire”, i filoni tematici e d’ indirizzo che quell’ambiente riuscì a creare e a proporre, alla ricerca di un modello alternativo alla partitocrazia, al neocapitalismo e all’allora ancora avanzante comunismo. Un giacimento che, fatte le dovute rettifiche del caso, potrebbe ancora essere utile, visto che siamo ancora e sempre a fare i conti con le stesse emergenze, con le stesse debolezze strutturali del nostro Sistema-Paese, con le stesse “alluvioni”, politiche e meteorologiche su cui ci si interrogava cinquant’anni fa.
Abbiamo voluto ricordare alcune esperienze della “bella destra” degli Anni Sessanta- Settanta, per puro spirito nostalgico? Al contrario. La consapevolezza per quelle analisi, per i valori e le idee che le sostenevano, è un invito a guardare avanti, mossi però da una consapevolezza di fondo: o la politica torna ad essere grande e bella, capace cioè di essere anticipatrice e ricca di suggestioni, o essa rischia di morire d’inedia. Da qui un invito a proporre, per chi vorrà, la propria idea della “Bella destra”, di oggi, di ieri e di domani. Una destra – il termine, lo sappiamo, non ci soddisfa – che sappia dare speranza e prospettive.
In fondo, anche dal fango di un’alluvione può nascere un’indicazione politica. Basta saperla e volerla cercare, evitando di farsi travolgere dalla poltiglia.

giovedì 20 novembre 2014

L’eurodeputato Kovac: “Jobbik per le identità, contro l’ultraliberismo”...


di Mario Bocchio (Barbadillo.it)
Ungheria come laboratorio delle destre europee? Dopo la vittoria alle elezioni parlamentari di aprile, la Fidesz del premier ungherese Viktor Orbán non lascia ma raddoppia e trionfa anche alle Europee. L’esito delle urne non lascia adito a dubbi. Fidesz ha conquistato il 51,5% delle preferenze fra il 29% dell’elettorato che ha deciso di andare a votare.
L’affermazione di Fidesz non fa passare del tutto in secondo piano il sorpasso di Jobbik (I migliori), tre eurodeputati, che ha conquistato per la prima volta il secondo posto con il 14,6% a scapito dei socialisti, malgrado un forte calo dei consensi rispetto alle legislative (-7%), facilitato dal sospetto scandalo dell’eurodeputato di Jobbik in odore di essere una spia russa, Béla Kovács, rieletto.
Soprannominato “Bela Bond”, parla correttamente il giapponese, nel dicembre del 2013 ha rilevato Bruno Gollnish alla guida dell’ Alleanza europea dei movimenti nazionalisti, dalla quale Marine Le Pen si è però dimessa.
“L’Alleanza è per la difesa delle diverse culture nazionali, delle radici cristiane dell’Europa. Pensiamo ad un’ Europa di stati liberi, indipendenti e uguali, a una confederazione di stati sovrani, per questo rigettiamo l’idea di un super stato europeo centralista. Proponiamo una forte politica a favore delle famiglie tradizionali, lottando contro i danni della globalizzazione”, spiega Kovács.
Lei è stato accusato di spionaggio in favore di Mosca.
Béla Kovács ride: “Insomma, è curioso: prima le spie venivano dal freddo, ossia dall’Unione Sovietica e dall’Ungheria comunista e andavano nel mondo libero. Oggi verrebbero dalla Russia di Putin, versione opposta dell’Urss di Stalin e Andropov, per spiare la piccola Ungheria, il cui popolo peraltro non è ostile a Mosca. È un po’ dura da mandare giù. O meglio, è una barzelletta”.
È una grande responsabilità per voi essere ora gli sfidanti più accreditati di Orban?
“Sicuramente, ma non va mai dimenticato come l’Ungheria stia chiaramente sterzando verso una dimensione euroscettica e nazionalpopolare. Quella destra siamo noi, che abbiamo superato la soglia del 20% dei voti e conquistato il rimarchevole risultato di 26 seggi in parlamento. Vogliamo un referendum sulla permanenza nell’Ue e attacchiamo il premier conservatore Orbán perché, nonostante le apparenze, a Bruxelles fa lo ‘yes man’”.
Quale è l’obiettivo della vostra alleanza europea? Una semplice alleanza politica?
“No, è molto di più. L’eurocomunismo, il liberalismo ed il lavaggio del cervello multiculturalista sono un pericolo per tutti. Sono in pericolo la nostra civiltà, la nostra religione ed anche la nostra esistenza biologica. I nostri governanti ci stanno imponendo politiche antifamiglia e stanno promuovendo la cosiddetta austerità dissanguandoci. Tutto questo è un grande problema, l’unico modo per opporsi al globalismo e all’Ue è il nazionalismo. Non siamo internazionalisti cosmopoliti, siamo nazionalisti, insieme possiamo farcela. A Bruxelles ci rompono le balle se usiamo la bandiera ungherese, assurdo.  La strada è lunga e dobbiamo vincere questa battaglia, non solo per noi ungheresi ma per tutte le nazioni europee, e questa alleanza è l’unico modo per sperare in un’ Europa migliore”.
Siete considerate persone non gradite in Romania, perché?
“Il nostro leader Gábor Vona nell’agosto del 2013, ha partecipato ad un campeggio estivo in Transilvania incitando il milione e mezzo di magiari della Romania a lottare per l’autonomia facendo forza sul criterio etnico. Si tratta di un legittimo e sacrosanto diritto di indipendenza e di autodeterminazione di un popolo, proprio come giuste sono le battaglie del popolo scozzese e di quello catalano”.
E su Putin?
“Jobbik non ha mancato di esprimere la propria solidarietà all’amico Vladimir Putin, definendo il referendum in Crimea esemplare, un trionfo di autodeterminazione di una comunità. Putin possiede ora un dominio indiscutibile in Russia, la sua forza principale non sono le sue qualità personali, ma piuttosto il fatto che ha il sostegno assoluto della maggioranza russa in tutte le sue decisioni patriottiche. Nessuno nell’establishment osa contraddirlo. È ormai un vero leader popolare e questa sua forza gli dà la libertà di affrontare le élite non ricercando un compromesso con loro, ma da leader indiscusso. Putin più volte ha indirizzato un saluto direttamente ai popoli, guarda con grande interesse ai movimenti popolari europei che sono stanchi di subire le decisioni dei loro governi che operano negli interessi dell’oligarchia globale e non per il benessere dei loro cittadini. Per Putin gli alleati in Europa sono tutti i movimenti che difendono l’identità europea contro l’ultraliberalismo e lo scardinamento delle identità e dei valori tradizionali. Ecco perché Putin diventa un alleato naturale, la nostra è una battaglia comune in difesa dell’identità dei popoli. Sono i gruppi del potere mondialista che vogliono una guerra globale”.

martedì 18 novembre 2014

Violenza del pensiero borghese...


di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

La nuova inquisizione televisiva è sorridente, emotiva, compassionevole, simpatetica, sempre pronta ad usare una parola di riguardo. Psicologi, opinionisti, giornalisti, criminologi, sociologi: tutti stipendiati da università, giornali, centri di ricerca, un piede nell'Accademia, un altro in qualche fondazione o, magari, nelle istituzioni. Fanno l'opinione pubblica tra i colori scintillanti e i jingle confortevoli degli studi televisivi. Mediano, levigano, smussano i contrasti, pronano alla conciliazione con tutta la violenza possibile. Chi non si inginocchia è escluso, chi non entra nelle categorie meschine del pensiero unico è demonizzato e ridotto all'etichetta che, con un sorriso - subito dopo la pubblicità! - gli si impone.

Dopo lo scontro tra Buttafuoco e Augias e il dibattito unidirezionale tra Di Stefano e Formigli, anche Salvini, da Floris, si è dovuto confrontare con l’amabile professoressa pedagoga di cui abbiamo visto tutti e 32 i denti (riusciva a parlare e a sorridere allo stesso tempo). Tutti esponenti (Augias, Formiglia, Contini) di un ceto intellettuale, “gruppo dominato dalla classe dominante” (Bourdieu), tremendamente distante dalla realtà dei fatti, che però si ostina a commentare, e che supplisce alla fine dei roghi, del linciaggio e della forca in piazza, con l’istituzione della ghigliottina mediatica: il nuovo processo all’opinione antagonista. Non c’è niente di più subdolamente violento della “libertà di espressione” borghese, che fa della telecamera, degli effetti speciali, delle letterine, dei jingle rassicuranti, l’altare su cui tagliare il capo dal collo di chi la pensa diversamente. Qui affossano il pensiero discordante con un lessico saldamente “democratico” e correct, con espressione drammatica, con tono vittimistico, sempre prudenti, ma finalmente minacciosi. Se piangono, è da un occhio solo. Etichettano, generalizzano, banalizzano, normalizzano ogni argomento al loro status. La violenza borghese è il suo universalismo, inteso come appiattimento di ogni esistenza alla propria. L’intellettuale borghese guarda all’altro come al suo doppio mimetico, e quando lui, seduto in poltrona, dice a sé stesso di essere tollerante, sbigottito, non vede perché non lo è anche il residente di Tor Sapienza. La sua conclusione è, con tutta probabilità, che quel barbaro non ha avuto un’educazione. Civili, esageratamente civili, liquidano pretese, richieste, rivendicazioni, fintanto che non sono le loro.
Come rappresentanti dell’ultimo stadio della civiltà, questi intellettuali/opinionisti hanno perso il contatto con la realtà e si situano in un iperuranio fatto di parole astratte che sguainano in perfetta coincidenza con lo Zeitgeist. Non producono nulla, sono intermediari, non toccano le cose, non vivono sulla loro pelle, in quanto economicamente privilegiati, i disastri di cui però sono chiamati a parlare, a giudicare, a condannare. E tutta la loro violenza è proprio nell’estraneità tra pensiero e realtà, è la violenza psicologica di una considerazione astratta che, pur incantevole a parole, crea delle antinomie nei fatti. Lo slogan secondo cui “è giusto accettare il diverso”, viene da questi intellettuali istantaneamente connesso all’accettazione forzata dell’immigrato, come se vi fosse un nesso. Il ceto intellettuale non prende mai in rassegna le sfumature, le controindicazioni e le possibilità di una realtà molto più complessa, che non può riassumersi in un’idea. La violenza borghese risulta dell’imposizione indotta emotivamente, subdolamente, di concetti vuoti. Così, finalmente, infamare di razzismo chi si oppone alle dinamiche di un fenomeno realmente dannoso per tutti, di bigottismo chi non è laicista o di omofobia chi vede nella teoria gender una prefigurazione dell’antropologia dell’uomo mercificato, è la violenza con la quale si legittima lo status quo. Perché, di fatto, la retorica intellettuale ci ha convinto che fermare l’immigrazione vorrebbe dire essere razzisti. Fonte del problema, quindi, non è più la questione in sé (dell’immigrazione, per esempio) che non tocca la nostra intellighenzia nella sua quotidianità, ma piuttosto la sua negazione (il razzismo): dobbiamo accettare l’immigrazione per non essere razzisti, il genderismo per non essere omofobi, il precariato per non essere anti-liberali. Ma i protagonisti degli scontri di Tor Sapienza, per quanto possano essere bollati di razzismo, se ne fanno realmente poco, materialmente, della tolleranza, checché ne dicano i nostri intellettuali. Fintanto che risiedono nei quartieri alti, obbligano sovrastrutturalmente ad accettare l’accoglienza forzata degli immigrati nei centri sociali e nelle periferie, in nome della “tolleranza”, un simulacro creato ad arte. Fintanto che loro figlio non si vorrà sposare con un altro uomo, il genderismo sarà “istruzione”, così come la maternità surrogata sarà un’innovazione tecnica, basta che non si venga a conoscenza delle dinamiche che spingono una madre portatrice indiana ad affittare il suo utero. Finché c’è il posto fisso la precarietà è un’opportunità, mentre la disoccupazione in Italia non è un problema se i propri figli studiano e lavorano in Inghilterra.

mercoledì 12 novembre 2014

I papaveri rossi e l’orgoglio irish del ragazzo di Derry...

di Andrea Cascioli (Barbadillo.it)

Niente papaveri rossi per i figli di Derry. Il 25enne James McClean, esterno sinistro del Wigan (seconda serie inglese), ha spiegato in una lettera al presidente del club la scelta di non indossare la maglietta con il poppy ricamato, simbolo dei caduti britannici in guerra.
Unico tra i calciatori della Premier League, McClean si era dissociato dalla commemorazione già nel 2012, quando giocava nel Sunderland: decisione accompagnata da ingiurie e minacce di morte, le stesse che il centrocampista, nativo di Derry in Irlanda del Nord, aveva subito pochi mesi prima per aver accettato la convocazione dell’Eire di Trapattoni agli Europei.
Questa volta il caso ha fatto ancora più rumore, forse perché cade nel centesimo anniversario dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. La tradizione del remembrance poppy, diffusa in tutto il Commonwealth fin dai primi anni Venti, viene rinnovata ogni anno nella seconda domenica di novembre.
Quest’anno i britannici l’hanno celebrata in maniera ancor più solenne, con l’installazione artistica Blood Swept Lands and Seas of Red (“Il sangue spazzò le terre e i mari di rosso”): 888.246 papaveri di ceramica disseminati intorno alla Torre di Londra, in ricordo di ciascuno dei caduti di Sua Maestà nel conflitto del 1914-18.
“Ho assoluto rispetto per coloro che combatterono e morirono in entrambe le guerre mondiali – molti dei quali erano di origini irlandesi” spiega McClean nella sua lettera “ma il poppy ricorda anche le vittime di altri conflitti dal 1945 ed è qui che incomincia il problema per me. Per la gente dell’Irlanda del Nord come me, e in particolare per la gente di Derry, teatro del massacro del Bloody Sunday nel 1972, il poppy è venuto a significare qualcosa di molto differente”.
Le strade di Creggan, il quartiere in cui McClean è nato e ha tirato i primi calci al pallone, conservano nei muri delle case e nei volti degli abitanti i segni di un conflitto che ha insanguinato la terra per oltre trent’anni, proprio come nei versi della poesia che ha dato il titolo alla commemorazione londinese: The blood swept lands and seas of red / Where angels dare to tread.
Da Creggan venivano sei delle 14 vittime inermi del Bloody Sunday, falcidiate dai paracadutisti britannici nel corso di una manifestazione pacifica, e il detenuto politico Mickey Devine, l’ultimo dei dieci hunger strikers immolatisi nello sciopero della fame del 1981.
“A Creggan” continua il nazionale irlandese “o nel Bogside, a Brandywell o nella maggior parte dei posti a Derry, ogni persona vive ancora all’ombra di uno dei giorni più bui della storia d’Irlanda - anche se, come me, è nata quasi 20 anni dopo l’evento. È solo una parte di ciò che siamo, radicata in noi fin dalla nascita”.
Una parte di quell’identità che nemmeno le scuse ufficiali per la strage impunita, presentate da David Cameron dopo trentotto anni di insabbiamenti, hanno fatto dimenticare.
Non c’è odio né spirito di vendetta nelle parole del ragazzo di Creggan, che vale la pena di leggere per intero. C’è invece la consapevolezza di far parte di una storia diversa, di qualcosa che non si può annacquare nella tanto abusata formula della “memoria condivisa”. Senza con ciò negare nemmeno un po’ del rispetto dovuto al sangue e alle lacrime altrui.
James McClean è riuscito a trasmettere tutto questo con parole toccanti e forti, ancor più di un distintivo su una maglia: “Sono molto orgoglioso delle mie origini e semplicemente non posso fare qualcosa che credo sia sbagliato. Nella vita, se sei un uomo devi lottare per ciò in cui credi”.

martedì 11 novembre 2014

Rinnegare la scienza economica...


Di benedetta scotti (l'intellettuale dissidente)
Complici i funesti eventi degli ultimi anni, si fa spesso un gran parlare della necessità di rivedere metodologia e approccio di studio ai fenomeni economici. Qualche audace economista ha persino fatto mea culpa, criticando l’assoluta infondatezza degli assunti di svariati modelli, come l’efficienza dei mercati finanziari, la perfetta razionalità degli agenti, la massimizzazione dell’utilità come movente delle scelte individuali e via dicendo. Tante belle parole sono state spese in favore di una scienza economica che rifletta maggiormente la complessità dell’essere e dell’agire umano, troppo spesso schematizzato nel riduttivo quanto fantascientifico homo oeconomicus. Eppure, i modelli insegnati nelle scuole di business son sempre i medesimi, indipendentemente dall’ubicazione geografica delle schools (il pensiero unico è tale, ovviamente, se non conosce frontiere).
Sarebbe necessario, innanzitutto, che la scienza economica rinneghi se stessa, ovvero che la smetta una volta per tutte di considerarsi una scienza “dura” e che deponga la sciagurata ambizione di voler spiegare e predire i fenomeni economici secondo immutabili e ferree leggi fisico-matematiche. Accettare quello che viene percepito (a torto) come un declassamento è, naturalmente, più facile a dirsi che a farsi, considerata l’assiomaticità con cui le politiche reali devono necessariemente piegarsi a questo o a quel modello (vedi il rapporto tra le riforme “strutturali” che impegnano i paesi dell’Eurozona e la Teoria delle Aree Valutarie Ottimali). Eppure è di vitale importanza che l’Economia si decida, non solo a parole, ad abbracciare le scienze sociali per meglio affrontare la complessità dell’essere umano che non è certo riassumibile e liquidabile in una funzione di utilità. Come può dirsi esatta una scienza che ha per oggetto di studio l’uomo, racchiudente in sé realtà non strettamente quantificabili? Come formalizzare in un’espressione il senso estetico, lo slancio spirituale o un legame d’amicizia che potrebbero benissimo influenzare delle scelte “economiche”? Ovviamente, la soluzione più semplice consiste nel rimuovere dall’agire umano tutto ciò che non è schematizzabile matematicamente, togliendogli anima e sentimenti, lasciandogli solo un’asettica razionalità e un crudo individualismo utilitarista. Se è vero che l’idea di un’umanità instrinsicamente buona è un mito rousseauiano, è anche vero che assumere l’egoismo come unico movente svilisce l’uomo, finendo per essere una “profezia che si autoavvera”. Basta considerare la rilevanza che ha nella teoria economica lo studio delle asimmetrie informative le quali si fondano, di fatto, sull’assunto che l’individuo è portato per natura a massimizzare la propria utilità a discapito dell’utilità altrui. Una “cultura del sospetto” che, se applicata sul luogo di lavoro, può incentivare l’egoismo invece che contrastarlo (il lavoratore, il quale avverte la sfiducia e il controllo ossessivo del superiore, è tentato di comportarsi, alla fine, in maniera egoistica: da qui la profezia che si autoavvera).
L’Economia, che dovrebbe essere scienza sociale e umana, finisce per essere, così, scienza asociale e scienza disumana: asociale perché affonda le radici in un individualismo assoluto e disumana perché rimuove tutto ciò che, pur non essendo quantificabile, contribuisce a rendere l’uomo tale. A onor del vero, tentativi di formalizzare scelte difficilmente inquadrabili in un rigido modello fisico-matematico, quale quella di sposarsi o aver dei figli, sono stati fatti, notoriamente dall’economista di Chicago G. Becker, ma partendo sempre e solo dai soliti assunti di base. Oltretutto concepire la famiglia come una “piccola fabbrica” che “produce commodities quali i figli” non contribuisce molto all’umanizzazione della scienza economica, anzi: inquadrare il concepimento della vita umana in una funzione di produzione ha del mostruoso e del grottesco. Più che razionalità, è questione di ragionevolezza.

venerdì 7 novembre 2014

Unico posto fisso... Il nodo scorsoio.



di Pietrangelo Buttafuoco


Il posto fisso non c’è più. Occuparsi di chi lo perde, il lavoro, è una grande battaglia culturale. Se lo dice Matteo Renzi c’è #dastarsereni perché sarà lui a farsi carico del mondo che cambia a tutta velocità. Ed è un’epoca fantastica questa dell’Italia sbloccata perché tutti potranno licenziare, i licenziati avranno il Jobs act, e così non ci saranno più proletari ma i precari; non ci sarà più un posto fisso, non esisteranno più le pensioni e i vantaggi saranno fichissimi. Le banche, per esempio, non daranno crediti né accenderanno mutui a chi non ha posto fisso. Nessuno più – senza posto fisso – potrà comprare a rate; senza il tempo indeterminato di un impiego non ci sarà risparmio, tutto sarà bruciato nel mordi e fuggi e senza uno stipendio si resterà svegli e smart a contemplare l’unico posto fisso, l’anello sul soffitto da cui pencola la corda le cui istruzioni, per lo scorsoio, si potranno trovare sull’iPhone (per carità no, con il gettone).

mercoledì 5 novembre 2014

Tra luce e tenebra la solitudine di un genio...

di Mario M. Merlino

Primo novembre 1972, Venezia. Giorno di Ognissanti. Pochi coloro che in barca o vaporetto seguiranno il feretro all’isola di San Michele, dove viene sepolto vicino alle tombe del compositore Igor Stravinskij e del creatore dei Balletti russi Serge Djaghilev, che in vita collaborarono a portare la danza classica al massimo splendore. Nel 1940 (il nazista) Walt Disney inserì il balletto La sagra della primavera di Stravinskij nel film d’animazione Fantasia: dalla formazione della Terra all’estinzione dei dinosauri (parabola, a mio avviso, di quell’ombra che segna la fine di un’epoca, dalle grandi figure del XX secolo all’`ultimo uomo´ di nietzschiana memoria). In buona compagnia, sebbene si racconti come la madre gli imponesse di imparare a suonare il pianoforte e che egli si vendicasse imponendo, a sua volta, l’ascolto di un suo personalissimo strimpellare assordante e stonato. Poi, sbattendo la porta, si sdraiava sui prati ad ascoltare il silenzioso crescere degli steli d’erba… da cui raccolse quell’armonia del verso che è nient’altro un insieme di note musicali tradotte in parole. Come Nietzsche e il passo lieve di danza del dio Dioniso. Egli, il poeta, dichiarato pazzo da una giuria puritana ed ipocrita USA; il filosofo folle nell’amata Torino ad abbracciare un ronzino…
Sto parlando di Ezra Pound. A quarantadue anni dalla morte (di cui il mio osservatorio sul mondo, cioè il tanto vituperato e usato FB, mi dice che nessuno o quasi se n’è ricordato forse perché, segno dei tempi – il divenire annichilisce l’essere ed entrambi scompaiono nell’insignificanza –, altri dal medesimo nome si sono appropriati – legittimi o meno, nulla conta – della scena odierna).
Ho scritto di certo e sovente della costa romagnola, di Rimini e di Riccione (dall’inizio del Novecento la mia famiglia aveva ereditato una villetta stile liberty dove ho conosciuto l’infanzia in bicicletta imparando a nuotare e costruire castelli d sabbia, di cui ho conservato consuetudine; l’adolescenza con la prima comica disastrosa esperienza sessuale con una ragazza di Berlino su un pattino o moscone che dir si voglia; e la giovinezza irridente e irriverente di cui mi sono fatto vanto e divisa. E ho scritto di certo e sovente del Tempio Malatestiano, Rimini, della cappella contenente il sarcofago dedicato a Ixotta, da alcuni considerata una prostituta di lusso, ma certamente la donna amata dal duca Sigismondo Malatesta (`il miglior perdente della storia´, come lo definì Pound ) che ne fece la sua amante prima e terza moglie poi senza alcun fine o interesse. E, sul sarcofago in marmo, il cartiglio con la scritta tanto cara appunto a Pound `Tempus loquendi Tempus tacendi´. La vita è parola; la morte silenzio… anche se – Nietzsche riconosceva che `l’oggi appartiene alla plebe´ – visto il malo presente, forse sarebbe più opportuno ascoltare la voce dei morti di stagioni eroiche, da cui traemmo la radice del nostro essere, e coltivare un `oceano di silenzio´ a difesa se non a sfida. D’altronde – è Juenger a scriverlo – nell’età del nichilismo `il proprio petto… ognuno… conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia. Se egli ha la meglio, il niente si ritirerà in se stesso, abbandonando sulla riva i tesori che le sue onde avevano sommerso. Essi compenseranno i sacrifici´(Oltre la linea).
Tutto ciò a farmi perdonare dalla tentazione, rimasta incompiuta e tacitata, verso un intervento dal titolo A chi la vittoria?, apparso su Ereticamente a firma di Gianluca Padovan. Perché sono ormai un vecchio stanco rincoglionito un po’ cinico (stronzamente prodomo della sconfitta) e far riemergere parole che gli furono care lo rende anche fragile e lacrimevole. E solo nell’ironia (vile e stolta) trova salvezza… `Rettitudine e impegno´ per scoprire l’autenticità di essere `esseri di luce´, rinascere per ritrovarsi o viceversa. L’altra sera in televisione hanno riproposto il film con Alberto Sordi Un borghese piccolo, piccolo (storia di un retto impiegato e impegnato a trovare la prima occupazione all’unico adorato figlio)… Intendiamoci subito: la rettitudine e l’impegno di cui qui si tratta non appartengono all’onestà e al decoro di cui i ceti medi, mio padre fu esemplare in ciò, difendevano ostinati. `Siate voi stessi´ (si narra di Socrate folgorato da quanto era inciso sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, plebeo e democratico secondo Nietzsche, ma si dimentica come vi fosse nel retro del medesimo tempio il senso compiuto di quel conoscere se stessi, cioè quel `e conoscerai l’universo e dio´, che rende Socrate un aristocratico assertore della diseguaglianza dell’anima e dell’uomo in sè). E, ancora, la eco di Kipling nella lettera al figlio `se saprai conservare la testa…´ (lo stesso Kipling che, con la scusa del `fardello dell’uomo bianco´, cantò la supremazia dell’imperialismo inglese e gli innumerevoli guasti che ha determinato) oppure il richiamo a Léon Degrelle, a `quando il mare dorato vedrà affluire questo biancore, la Rivoluzione sarà in marcia, levata sulle vette di queste flottiglie d’anime´(se ne andò al fronte dell’Est soldato fra soldati per riscattare la patria e darle un posto nel futuro ordine europeo). E tanto e di più di quanto ci fu caro e diede sostegno quando la fragile barca della nostra esistenza veniva sballottata dalla tempesta e sembrava divenire rottami sparsi dalle onde.
Non, dunque, parole vuote ma parole per uomini vuoti… E rammemorarle è di per sé un merito, senza far da parte mia ironia, semmai soltanto con la necessità che si traducano in contenuto tangibile. A chi la Vittoria? `A noi!´ fu il grido del D’Annunzio a Fiume e la Carta del Carnaro gli arditi e gli squadristi la Carta del Lavoro i giovani giovanissimi volontari del dopo l’8 di settembre i 18 Punti di Verona. Il Fascismo `immenso e rosso´ capace di coniugare una visione eroica dell’esistenza con principi di giustizia sociale e di dignità del lavoro. Perché l’equilibrio sta nell’armonia del linguaggio della mente con il linguaggio del corpo (la kaloskaiagathia di cui Platone trasse auspicio e Adriano Romualdi ne dedusse il fondamento). Ricordo gli anni della militanza, di chi riteneva che i quadri si dovessero formare in spazi delimitati e protetti, una sorta di scuola di partito, e sol dopo questo interno tirocinio la piazza avrebbe ceduto all’urto dell’irresistibile scesa in campo di guerrieri forgiati nel silenzio e nell’attesa; di chi, al contrario, – ed io ero fra questi e rimango convinto nonostante le sconfitte di entrambi e il cambiamento avvenuto nella lotta politica – riteneva come i quadri nascessero dall’azione e che fossero l’esempio e la testimonianza nel quotidiano battagliare il miglior cemento…
Molti anni fa organizzai per un ristretto gruppo di giovani camerati un ciclo di tre film intorno alla morte e al suo significato – cosa che ripetei nel cotesto scolastico – e cioè Il Settimo Sigillo del regista svedese Ingmar Bergman (intorno a questo film ruotò la conversazione con Fabrizio de Andrè davanti ad una pizza dietro le Botteghe Oscure e di cui credo aver già scritto in precedenza), Fuoco Fatuo di Louis Malle e Mishima di cui non ricordo il regista. La morte quale sfida – la partita a scacchi è il segno di una parità tra l’uomo nella sua finitudine con l’eterno destino dello scomparire – in nome del `vitam pro vita exponimus´; il suicidio ultimo atto, l’unica libertà rimastaci secondo il filosofo Albert Camus, di una vita borghese resasi inutile e schiava dell’insignificanza del mondo moderno; infine lo scrittore giapponese nello sforzo di fondere un rito arcaico – il seppuku – per dare valore al senso di precarietà dell’esistenza, può ben definirsi `un guerriero della nientità´ (come intitolai il capitolo a lui dedicato Inquieto 900 e dove il niente, per i giapponesi, è ben altra cosa di quello trattato dalla filosofia dell’Occidente).
In piedi fra le rovine… Io credo che i Titani furono abbattuti e precipitati al suolo non da dei irosi e gelosi del loro dominio messo in pericolo, come si narra nel mito greco, ma perché scoprirono stupiti e atterriti che il cielo era drammaticamente vuoto. In fondo erano esseri ancora prossimi al sacro, pronti sì a metterlo e a mettersi in gioco ma mai a negarne l’autenticità da cui trarne la direzione. Ribellarsi equivale disconoscere non negare il potere che si ha di fronte (ne La rivolta degli angeli di Anatole France Lucifero rigetta l’invito a mettersi a capo della ribellione che sta per spodestare dio, considerato incapace di aver eliminato dal mondo la presenza del male della sofferenza perché intuisce la solitudine il tormento di quel dio di fronte alla sua imperfetta creazione)… L’età del nichilismo corrisponde, al contempo, all’assassinio della metafisica con tutta la drammaticità di un improvviso dissolversi dei valori di riferimento ed anche alla liberazione della sua tirannide (è Chronos che con un falcetto, evirando Urano, separa il cielo dalla terra, la madre Gea. Il tempo contro l’eterno, il divenire contro l’essere). Vivi liberi soli, folli e disperati… Occorre un di più per essere felici? Scegliere per non essere scelti battersi per un sì o per un no e, se non si è armati per una grande tenzone, sapere d’essere capaci di sputare lontano…


Pound la musica il tempo della parola il tempo del silenzio gli uomini di luce e quelli prigionieri delle ombre la morte i titani e il vuoto del cielo, ah, quante cose si sono affastellate confuse contorte e il filo di Arianna non ci ha condotto fuori del Labirinto… chissà se è più affascinante bruciarsi le ali per eccessiva altezza del volo prossimo al sole o coabitare con il minotauro nei meandri negli atri nell’oscurità della mente e del cuore per sapere quanto e come dominarli?