martedì 11 novembre 2014

Rinnegare la scienza economica...


Di benedetta scotti (l'intellettuale dissidente)
Complici i funesti eventi degli ultimi anni, si fa spesso un gran parlare della necessità di rivedere metodologia e approccio di studio ai fenomeni economici. Qualche audace economista ha persino fatto mea culpa, criticando l’assoluta infondatezza degli assunti di svariati modelli, come l’efficienza dei mercati finanziari, la perfetta razionalità degli agenti, la massimizzazione dell’utilità come movente delle scelte individuali e via dicendo. Tante belle parole sono state spese in favore di una scienza economica che rifletta maggiormente la complessità dell’essere e dell’agire umano, troppo spesso schematizzato nel riduttivo quanto fantascientifico homo oeconomicus. Eppure, i modelli insegnati nelle scuole di business son sempre i medesimi, indipendentemente dall’ubicazione geografica delle schools (il pensiero unico è tale, ovviamente, se non conosce frontiere).
Sarebbe necessario, innanzitutto, che la scienza economica rinneghi se stessa, ovvero che la smetta una volta per tutte di considerarsi una scienza “dura” e che deponga la sciagurata ambizione di voler spiegare e predire i fenomeni economici secondo immutabili e ferree leggi fisico-matematiche. Accettare quello che viene percepito (a torto) come un declassamento è, naturalmente, più facile a dirsi che a farsi, considerata l’assiomaticità con cui le politiche reali devono necessariemente piegarsi a questo o a quel modello (vedi il rapporto tra le riforme “strutturali” che impegnano i paesi dell’Eurozona e la Teoria delle Aree Valutarie Ottimali). Eppure è di vitale importanza che l’Economia si decida, non solo a parole, ad abbracciare le scienze sociali per meglio affrontare la complessità dell’essere umano che non è certo riassumibile e liquidabile in una funzione di utilità. Come può dirsi esatta una scienza che ha per oggetto di studio l’uomo, racchiudente in sé realtà non strettamente quantificabili? Come formalizzare in un’espressione il senso estetico, lo slancio spirituale o un legame d’amicizia che potrebbero benissimo influenzare delle scelte “economiche”? Ovviamente, la soluzione più semplice consiste nel rimuovere dall’agire umano tutto ciò che non è schematizzabile matematicamente, togliendogli anima e sentimenti, lasciandogli solo un’asettica razionalità e un crudo individualismo utilitarista. Se è vero che l’idea di un’umanità instrinsicamente buona è un mito rousseauiano, è anche vero che assumere l’egoismo come unico movente svilisce l’uomo, finendo per essere una “profezia che si autoavvera”. Basta considerare la rilevanza che ha nella teoria economica lo studio delle asimmetrie informative le quali si fondano, di fatto, sull’assunto che l’individuo è portato per natura a massimizzare la propria utilità a discapito dell’utilità altrui. Una “cultura del sospetto” che, se applicata sul luogo di lavoro, può incentivare l’egoismo invece che contrastarlo (il lavoratore, il quale avverte la sfiducia e il controllo ossessivo del superiore, è tentato di comportarsi, alla fine, in maniera egoistica: da qui la profezia che si autoavvera).
L’Economia, che dovrebbe essere scienza sociale e umana, finisce per essere, così, scienza asociale e scienza disumana: asociale perché affonda le radici in un individualismo assoluto e disumana perché rimuove tutto ciò che, pur non essendo quantificabile, contribuisce a rendere l’uomo tale. A onor del vero, tentativi di formalizzare scelte difficilmente inquadrabili in un rigido modello fisico-matematico, quale quella di sposarsi o aver dei figli, sono stati fatti, notoriamente dall’economista di Chicago G. Becker, ma partendo sempre e solo dai soliti assunti di base. Oltretutto concepire la famiglia come una “piccola fabbrica” che “produce commodities quali i figli” non contribuisce molto all’umanizzazione della scienza economica, anzi: inquadrare il concepimento della vita umana in una funzione di produzione ha del mostruoso e del grottesco. Più che razionalità, è questione di ragionevolezza.

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