martedì 18 novembre 2014

Violenza del pensiero borghese...


di Lorenzo Vitelli (L'Intellettuale Dissidente)

La nuova inquisizione televisiva è sorridente, emotiva, compassionevole, simpatetica, sempre pronta ad usare una parola di riguardo. Psicologi, opinionisti, giornalisti, criminologi, sociologi: tutti stipendiati da università, giornali, centri di ricerca, un piede nell'Accademia, un altro in qualche fondazione o, magari, nelle istituzioni. Fanno l'opinione pubblica tra i colori scintillanti e i jingle confortevoli degli studi televisivi. Mediano, levigano, smussano i contrasti, pronano alla conciliazione con tutta la violenza possibile. Chi non si inginocchia è escluso, chi non entra nelle categorie meschine del pensiero unico è demonizzato e ridotto all'etichetta che, con un sorriso - subito dopo la pubblicità! - gli si impone.

Dopo lo scontro tra Buttafuoco e Augias e il dibattito unidirezionale tra Di Stefano e Formigli, anche Salvini, da Floris, si è dovuto confrontare con l’amabile professoressa pedagoga di cui abbiamo visto tutti e 32 i denti (riusciva a parlare e a sorridere allo stesso tempo). Tutti esponenti (Augias, Formiglia, Contini) di un ceto intellettuale, “gruppo dominato dalla classe dominante” (Bourdieu), tremendamente distante dalla realtà dei fatti, che però si ostina a commentare, e che supplisce alla fine dei roghi, del linciaggio e della forca in piazza, con l’istituzione della ghigliottina mediatica: il nuovo processo all’opinione antagonista. Non c’è niente di più subdolamente violento della “libertà di espressione” borghese, che fa della telecamera, degli effetti speciali, delle letterine, dei jingle rassicuranti, l’altare su cui tagliare il capo dal collo di chi la pensa diversamente. Qui affossano il pensiero discordante con un lessico saldamente “democratico” e correct, con espressione drammatica, con tono vittimistico, sempre prudenti, ma finalmente minacciosi. Se piangono, è da un occhio solo. Etichettano, generalizzano, banalizzano, normalizzano ogni argomento al loro status. La violenza borghese è il suo universalismo, inteso come appiattimento di ogni esistenza alla propria. L’intellettuale borghese guarda all’altro come al suo doppio mimetico, e quando lui, seduto in poltrona, dice a sé stesso di essere tollerante, sbigottito, non vede perché non lo è anche il residente di Tor Sapienza. La sua conclusione è, con tutta probabilità, che quel barbaro non ha avuto un’educazione. Civili, esageratamente civili, liquidano pretese, richieste, rivendicazioni, fintanto che non sono le loro.
Come rappresentanti dell’ultimo stadio della civiltà, questi intellettuali/opinionisti hanno perso il contatto con la realtà e si situano in un iperuranio fatto di parole astratte che sguainano in perfetta coincidenza con lo Zeitgeist. Non producono nulla, sono intermediari, non toccano le cose, non vivono sulla loro pelle, in quanto economicamente privilegiati, i disastri di cui però sono chiamati a parlare, a giudicare, a condannare. E tutta la loro violenza è proprio nell’estraneità tra pensiero e realtà, è la violenza psicologica di una considerazione astratta che, pur incantevole a parole, crea delle antinomie nei fatti. Lo slogan secondo cui “è giusto accettare il diverso”, viene da questi intellettuali istantaneamente connesso all’accettazione forzata dell’immigrato, come se vi fosse un nesso. Il ceto intellettuale non prende mai in rassegna le sfumature, le controindicazioni e le possibilità di una realtà molto più complessa, che non può riassumersi in un’idea. La violenza borghese risulta dell’imposizione indotta emotivamente, subdolamente, di concetti vuoti. Così, finalmente, infamare di razzismo chi si oppone alle dinamiche di un fenomeno realmente dannoso per tutti, di bigottismo chi non è laicista o di omofobia chi vede nella teoria gender una prefigurazione dell’antropologia dell’uomo mercificato, è la violenza con la quale si legittima lo status quo. Perché, di fatto, la retorica intellettuale ci ha convinto che fermare l’immigrazione vorrebbe dire essere razzisti. Fonte del problema, quindi, non è più la questione in sé (dell’immigrazione, per esempio) che non tocca la nostra intellighenzia nella sua quotidianità, ma piuttosto la sua negazione (il razzismo): dobbiamo accettare l’immigrazione per non essere razzisti, il genderismo per non essere omofobi, il precariato per non essere anti-liberali. Ma i protagonisti degli scontri di Tor Sapienza, per quanto possano essere bollati di razzismo, se ne fanno realmente poco, materialmente, della tolleranza, checché ne dicano i nostri intellettuali. Fintanto che risiedono nei quartieri alti, obbligano sovrastrutturalmente ad accettare l’accoglienza forzata degli immigrati nei centri sociali e nelle periferie, in nome della “tolleranza”, un simulacro creato ad arte. Fintanto che loro figlio non si vorrà sposare con un altro uomo, il genderismo sarà “istruzione”, così come la maternità surrogata sarà un’innovazione tecnica, basta che non si venga a conoscenza delle dinamiche che spingono una madre portatrice indiana ad affittare il suo utero. Finché c’è il posto fisso la precarietà è un’opportunità, mentre la disoccupazione in Italia non è un problema se i propri figli studiano e lavorano in Inghilterra.

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