Può un libro, suddiviso in tre volumi, sommanti ben 2108 pagine, riassumersi in una frase, in un unico periodo? Ovviamente no. Sarebbe fare torto all’autore. Un libro, però, è simile ad un lago ove ciascuno vi trova, vi pesca quanto gli occorre (qui la diffidenza di Socrate ad affidarsi alla parola scritta e sottolineata dal suo discepolo Platone), vi si ritrova magari e appunto in una sola immagine, in una eco ove emergono rimandi a quanto già leggemmo e avvertimmo appartenerci. Una sorta di biblioteca universale, per rifarmi a Jorge Luis Borges, lo scrittore argentino cieco. Insomma: ‘Ancora una volta la via del ribelle portava al bosco e alla montagna’, a pag. 678, libro primo, La mano di Gloria, autore Renato ‘Mercy’ Carpaneto. Per chi non lo conosca è il cantante degli Janua, gruppo genovese, dove la memoria di D’Annunzio a Fiume, ardimento spavalderia irriverenza la fanno da padroni nei testi. Io l’ho conosciuto a Trieste, la mattina dopo il suo concerto, in attesa ognuno di noi di rientrare nelle rispettive città. Nell’anniversario del 10 febbraio 1947, firma del Trattato di Parigi, ove fummo costretti a cedere – dopo il disonore dell’8 settembre 1943, storia tragica di furbetti travestiti da monarca e maresciallo d’Italia – l’Istria e la Dalmazia. E la città giuliana, che di quelle vicende visse sulla pelle dei propri cittadini i 55 giorni d’occupazione slava la foiba di Basovizza e di Monrupino il distacco dalla Patria fino al 1953 con i suoi morti di novembre uccisi dalla polizia armata dagli inglesi, ne fa ricordo con un composto corteo che, dalla chiesa di Sant’Antonio, risale silenzioso fino al colle di San Giusto.
‘Ancora una volta la via del ribelle porta(va) al bosco e alla montagna’, richiamo esplicito, mi sembra, a Il trattato del ribelle di Ernst Juenger, a quel ‘passare al bosco’, appunto. Dove, avverte lo scrittore tedesco, ‘dietro questa espressione non si nasconde un idillio’, ma la figura del Ribelle, di colui/coloro che si dissociano dalla società – i lupi che, celati nel grigio del gregge, si predispongono a dare battaglia. In fondo la libertà dell’Uno richiede il sangue a testimone e difesa come ben sapevano i Romani nel ‘mito’ del Rex Nemorensis… Qui, però, mi serve la citazione solo come inizio, uno possibile fra i tanti, per riflettere con brevi note sul secolo trascorso ove tecnica e massa fecero la loro apparizione e s’imposero.
In questo centenario, appena trascorso, della Grande Guerra (per l’Italia vale questo anno, essendo entrati nel conflitto a fine maggio del ’15) tutti i critici studiosi interessati ed altri ancora – la pletora di economisti sociologi psicologi – riconoscono come furono gli anni della guerra che gettarono le basi per quella che, poi, verrà chiamata ‘società di massa’. Quindi non solo ‘guerra di materiali’, secondo la felice espressione usata dallo Juenger (si legga il breve saggio La mobilitazione totale) dove, pur se conosciuti e adoperati già in precedenti conflitti, divennero prioritari quali risorse produttive e capacità innovative: si pensi ai cannoni le mitragliatrici i gas venefici il filo spinato carri armati aeroplani sommergibili. Guerra che richiese milioni di uomini in armi e milioni di uomini alle loro spalle – operai per la produzione bellica rifornimenti di vestiario di scarpe (già Napoleone aveva sentenziato come ‘in guerra, quelle che mancano sono sempre le scarpe’) di vettovaglie fino alle puttane nei bordelli delle retrovie. I grandi numeri. E, terminato il conflitto, è proprio il ruolo dei reduci a divenire, di fatto, la cinghia di trasmissione tra le masse in divisa e la società delle masse. La letteratura in proposito non manca (si pensi a I proscritti di von Salomon, di cui facciamo riferimento in quanto fu fra i primi libri della mia personale biblioteca).
Alla fine dell’Ottocento (1895) un etnologo e psicologo francese, Gustave le Bon, aveva dato alle stampe Psicologia delle folle, con cui tentava di dare linguaggi atti a gestire padroneggiare guidare i fenomeni nuovi di quelle folle, appunto, che attraverso l’urbanizzazione e la seconda rivoluzione industriale chiedevano, in modo del tutto inconscio, di rappresentare se stesse nel nuovo scenario della storia. Potremmo parlare di tecniche di persuasione da applicare alla molteplicità indistinta di persone (nell’accezione originaria di maschere) che, agendo in modo uniforme, mostrano i tratti similari. George Mosse, divenuto famoso per gli studi sulla ‘nazionalizzazione delle masse’, lo ritiene un solido punto di riferimento per comprendere certi fenomeni totalitari e, certo, risulta come Benito Mussolini ne fu grande estimatore (‘è un’opera capitale alla quale spesso ritorno’).
In una certa linearità di posizioni varrebbe ripercorrere, pur brevemente, quanto affermato dall’ingegnere Vilfredo Pareto, più noto per i suoi studi di sociologia, maestro e amico di Mussolini durante l’esilio di costui in Svizzera e, poi, suo sprone (suo il telegramma di rompere ogni indugio alla vigilia della Marcia su Roma) e il giurista siciliano Gaetano Mosca, che a differenza fu sempre ostile al Fascismo. Entrambi accomunati fra loro per l’attenzione verso le élites di governo e il cittadino (la teoria delle classi politiche in Mosca), anche se il Pareto tenne sempre a chiarire l’autonomia della sua riflessione. Sono la dimostrazione di come si vada creando una sorta di attenzione a più voci, non soltanto nei termini della lotta politica (il socialismo e le sue componenti), ma come indagine ‘scientifica’ nata dal concreto esperire della realtà.
Così basterà ricordare due opere che, a diverso titolo, mi sono familiari e appartengono alla mia formazione nello scorrere degli anni, soprattutto giovanili. Mi riferisco a La ribellione delle masse (1930) del pensatore spagnolo José Ortega y Gasset e di Erich Fromm Fuga dalla libertà (1941), di quest’ultimo ho l’edizione del 1963 con su il visto della direzione del carcere di Regina Coeli e il mio nome e cognome con l’inconfondibile grafia di mia madre (povera mamma che andava a comprarmi i libri, sovente fortemente ‘sovversivi’, tanto che il commesso una volta ardì chiederle di quel suo figlio che mandava lei e non veniva mai di persona…).
Nelle società ordinate vi erano delle ‘aristocrazie’ o élites deputate alla conduzione della vita pubblica e le masse (il popolo) che in esse si riconoscevano e ad esse delegavano la gestione del potere. Ora è apparsa la nuova figura dell’uomo-massa, che tutto ingloba sancisce determina, è metro di se stesso ed esclude tutto quanto non ricade sotto il suo possesso. E’ la dittatura onnivora della totalità, negatrice d’ogni distinzione di ogni differenzazione, insomma la premessa di quel pensiero unico di cui siamo vittime e testimoni. E’ la volgarità (Nietzsche: ‘l’oggi appartiene alla plebe’) che si consuma sotto i nostri occhi… Il mondo moderno, secondo Fromm, porta al conflitto insanabile tra l’idea di libertà e l’avvertire l’angoscia della solitudine nel momento in cui, nella cultura europea, nasce l’individuo (atomo che tutto pretende) rispetto alla persona (coscienza del proprio ruolo determinato). Isolato fra e negli altri egli deve scegliere se rivendicare, simile a Titano, la sfida agli dei in nome del proprio Io arbitro e orgoglioso oppure, annientato nella condizione di essere prigioniero del nulla, confondersi identificarsi sentirsi parte del tutto (che sia fascismo o comunismo o democrazia la variante sta solo nella brutalità dell’asservimento, dove poi gioca lo status di esule ebreo e psicanalista dell’autore negli Stati Uniti). Di altri si potrebbe indicare l’opera, come Sigmund Freud che nel 1921 scrive Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Tutti volti a rilevare gli aspetti in negativo del fenomeno. Tutti eredi dell’Ottocento borghese, scettico, conformista, arrogante e presuntuoso…
E’ il reducismo della Grande Guerra – ne abbiamo fatto cenno – che porta nella società la presenza delle masse e si fa carico di esserne interprete (i socialisti che furono ostili alla guerra e si fecero avversi al reduce dal fronte pagarono, in Italia prima poi in Germania, lo scotto di questa avversione). Il totalitarismo media immagini simboli riti dalla vita militare per inquadrare le masse e trasformarle in un blocco unico e unitario (si pensi all’Armata Rossa e quanto Stalin si servì per il socialismo reale, se non vogliamo ripetere quanto significativo fu l’arditismo il fiumanesimo lo squadrismo per il Fascismo nella sua coreografia). Insomma, ancora una volta, non gli intellettuali furono gli interpreti della storia, a volte confusi spettatori e raramente acuti, ma coloro che venivano dalla fucina del reale esperire (il caporale Benito Mussolini, il caporale Adolf Hitler, ad esempio). Così non è paradossale ed osceno il grido lanciato da uno dei protagonisti del dramma dedicato ad Albert Leo Schlageter, l’ufficiale dei Freikorps, fucilato dai francesi il 26 maggio del 1923 con l’accusa di sabotaggio durante l’occupazione del bacino minerario della Ruhr: ‘Quando sento parlare di cultura metto mano alla sicura della pistola!’… Follia e disperazione ma anche spirito di riscossa e speranza. Dalle trincee in armi alla società rinnovata dallo spirito delle armi.
E, qui, ritorno e concludo là dove ho preso l’avvio. Io, professore in pensione, piccolo borghese, presunto intellettuale e scrittore, intimamente convinto d’essere un genio, con lo studio sommerso di libri… Ernst Juenger scrive Il trattato del ribelle perché fu soldato, massima la decorazione ottenuta, reduce, unendo la capacità dell’entomologo di non disperdere il più piccolo dei particolari (per una farfalla il protagonista di Niente di nuovo sul fronte occidentale si prende una pallottola in fronte). Consapevole, però, che siamo in altro dopoguerra dove chi ha vinto s’è ammantato e s’ammanta di ideali di libertà democrazia pace pane e rose stelle rosse e stelle a strisce. Il tallone di ferro può ben essere rivestito di sigarette coca-cola sesso e rock’n’roll… E, allora, l’individuo atomizzato dal totalitarismo in nome di una dignità più alta e collettiva, finito nel tritacarne della storia, da questo gregge di individui grigi conformisti consumisti falsamente pacificati vili può e deve farsi largo il lupo… e, come ne Il richiamo della foresta, sa che porta il sé il destino di ‘passare al bosco’…
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