lunedì 29 aprile 2013

RICORDANDO SERGIO RAMELLI ED ENRICO PEDENOVI..

A Sergio Ramelli, nell'anniversario della morte. Lo ricordiamo col suo sorriso, come molte fotografie ce lo dipingono e come molti amici lo ricordano. Aveva diciotto anni, ma un commando di sciacalli di Avanguardia Operaia, in nome dell'antifascismo, lo massacrò sotto casa a colpi di chiave inglese, spaccandogli il cranio, nella Milano degli "anni di piombo" dove "uccidere un fascista non è reato". Sergio rimase in coma per 47 giorni, prima di spegnersi in una fredda stanza di ospedale, coi ragazzi del Fronte della Gioventù al suo capezzale. 
Sergio fu vittima di una violenza cieca, ideologica e feroce. La violenza dell'antifascismo militante, che lo aveva preso di mira a scuola, al Liceo Molinari, dove era stato ritenuto "colpevole" di aver scritto un tema nel quale criticava l'operato delle Brigate Rosse, già responsabili del duplice omicidio di due militanti missini a Padova, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. Ne seguirono i "processi politici", le aggressioni verbali e fisiche, le minacce vergate sulle mura del quartiere. Fino a quando la sua foto non venne recapitata nelle mani del servizio d'ordine di Avanguardia Operaia, che decise di passare alle vie di fatto e di eliminarlo utilizzando le chiavi inglesi Hazet 36, purtroppo assai in voga in quei terribili giorni. 
Al suo funerale, partecipato da molti attivisti della destra politica, si cercò di vietare il corteo funebre, mentre nel consiglio comunale milanese la notizia della sua morte venne accolta con un applauso corale, come nel peggiore degli incubi. Qualche anno più tardi venne scoperto il covo di via Bligny. a Milano, dove fu rinvenuto un vero e proprio archivio tenuto segreto per decenni dalla sinistra extraparlamentare milanese, che aveva schedato e colpito decine di attivisti di destra, magistrati, poliziotti, politici e personalità ritenute scomode. Il processo per l'omicidio Ramelli si concluse con condanne ridicole, con pene abbreviate e con assassini rilasciati dopo pochi anni di carcerazione. 
Nel primo anniversario della morte di Sergio, il 29 aprile del 1976, Prima Linea "festeggiò" con un altro omicidio, quello di Enrico Pedenovi, consigliere del Msi milanese. Lo ricordiamo, assieme a tutte le vittime di quella stagione di sangue e di odio. 
Mai più infamia, mai più antifascismo. 
  SERGIO ED ENRICO PRESENTI!   

domenica 28 aprile 2013

CASAGGì EMPOLI RISPONDE AL PD: NOI VIOLENTI? VI INVITIAMO AL CONFRONTO...







CASAGGì EMPOLI – CENTRO SOCIALE DI DESTRA

CASAGGì EMPOLI: IL PD CI ACCUSA DI ESSERE VIOLENTI E PERICOLOSI. SIAMO RAGAZZI CHE SI BATTONO LEALMENTE PER AFFERMARE I VALORI DELL’IDENTITA’ E DELLA SOCIALITA’. POTREMMO SPORGERE QUERELA, INVECE INVITIAMO I CONSIGLIERI AD UN CONFRONTO PUBBLICO NELLA NOSTRA SEDE.

Casaggì Empoli, che in autunno inaugurerà un proprio spazio autonomo e autogestito anche ad Empoli, è una Comunità militante che agisce dal basso e nel solco della giustizia sociale e del volontariato. Da anni, in collaborazione con le altre strutture dell’area identitaria, opera nel campo della politica studentesca, della cultura e dell’attivismo solidale.

I consiglieri comunali del Pd empolese Alderighi, Bacchi e Pampaloni, hanno presentato una mozione nella quale parlano di un movimento – il nostro – che si richiamerebbe esplicitamente ad immagini e culture violente e quindi pericolose, che i signori vorrebbero scongiurare attraverso l’intensificazione delle campagne contro l’odio politico e per il mantenimento della memoria della Resistenza. Se così fosse il problema non sarebbe del consiglio comunale, ma della Magistratura, che dovrebbe provvedere a sciogliere l’associazione arrestandone i militanti per i reati di apologia, di ricostituzione e di incitamento all’odio. Dal momento che questo non è mai avvenuto abbiamo motivo di pensare che i tre consiglieri abbiano viaggiato un po’ troppo con la fantasia.

Le attività che svolgiamo sono quelle inerenti il volontariato, con raccolte di fondi e di beni di prima necessità per i terremotati, i senza tetto e gli indigenti; servizi di ascolto del cittadino con consulenze gratuite; cene sociali aperte a tutti; conferenze e dibattiti; concerti e serate; feste e assemblee; volantinaggi informativi e commemorazioni. Tra queste, come i tre consiglieri hanno notato, vi è anche quella dei caduti della Rsi, ma non ci pare che portare un fiore su un sacrario eretto in un cimitero pubblico sia un reato.

Potremmo querelare i tre consiglieri e magari ricavarne i soldi per finanziare una seconda sede nel circondario empolese, ma preferiamo invitarli ad un pubblico confronto nella nostra sede. Siamo ragazzi tra i sedici e trent’anni e non abbiamo alle spalle nessun tipo di esperienza criminale, violenta o fuori dalla legalità. Siamo ragazzi che hanno a cuore il futuro del proprio paese e si battono per renderlo migliore.

Chiediamo anche ai tre consiglieri, che giustamente vogliono combattere l’odio politico nella nostra città, come si pongono rispetto alle scritte minatorie che giusto tre giorni fa hanno imbrattato il portone della nostra sede. Le scritte, firmate con falce e martello, invocavano senza troppi complimenti la nostra morte e siamo certi che i tre esponenti del Partito Democratico non avranno alcun problema a condannare pubblicamente l’episodio che, ci pare, non sia mai accaduto a parti invertite. 

venerdì 26 aprile 2013

UN ALTRO 25 APRILE DAI CADUTI DELLA RSI...

Anche quest'anno, come ogni 25 aprile, Casaggì era al sacrario dei caduti della Rsi di Trespiano. Con noi tante persone: cittadini, militanti, reduci e tantissimi giovani in una compostezza unica. Un fiume composto di persone in fila, in silenzio, con un mazzo di fiori o una rosa in mano, con in testa un tricolore e nel cuore la certezza che quei caduti, così bistrattati da quel mondo vile e infame che è il prodotto della loro sconfitta, non hanno combattuto invano. 
Si ringraziano i presenti, poi prende la parola Corrado, un Uomo che scelse di partire volontario nelle Fiamme Bianche per riscattare l'onore perduto dopo l'8 di settembre. Indossa una divisa di bersagliere, anche se, come dice sempre "questa divisa, per lo Stato italiano non ha alcun valore". Ma lui la indossa lo stesso, tutta piena di medaglie al merito: non per vanagloria, ma per sfida, per testimonianza, per quella voglia di riscatto che ha animato una lotta pura. Quella divisa, Corrado, non se l'è mai tolta. Certe cose passano, altre no. 
Sull'epitaffio c'è scritto: "Bisogna portare ai vivi che sono morti la fiaccola dei morti che sono vivi". E' quello che cerchiamo di fare ogni giorno, con umiltà e dedizione.

mercoledì 24 aprile 2013

CIAO, TEODORO.

Ci stringiamo attorno alla famiglia e ai camerati di Teodoro Buontempo, venuto a mancare in queste ore. Lo ricordiamo con l'affetto di sempre, con l'umiltà e la simpatia che lo hanno sempre animato, con quella voglia di cambiare il mondo che ha trasmesso a tanti altri e che ancora cammina su solide gambe. Buon viaggio, Teodoro.

martedì 23 aprile 2013

Anniversari. Pierre Drieu La Rochelle (1893 – 1945) e la rivolta contro la decadenza

Ci sono scrittori che con la propria vita e con le proprie opere rappresentano un’intera epoca. Pierre Drieu La Rochelle è certamente uno di questi, se è vero che “è fra gli scrittori francesi che hanno avvertito più tragicamente e intensamente la crisi dell’uomo occidentale.” (1). Il tema della decadenza, del declino dell’uomo e della civiltà è da lui profondamente sentito e vissuto, diviene il filo conduttore della sua narrativa e della sua saggistica. Se nei romanzi e nei racconti “personaggi e romanziere si sono identificati agli occhi dei lettori sino a perdere ogni distinzione”, tanto da poter considerare tutta la sua narrativa come “un lungo monologo autobiografico in cui fantasia e confessione si intrecciano inestricabilmente” (2), nei suoi saggi, parimenti, le idee, i fatti, le considerazioni storico-politiche si amalgamano sovente ai dati personali ed esistenziali. “Ci tempriamo nella confessione come il metallo nell’acqua” (3) scrisse Drieu. E in “Socialismo fascista”, uno dei più bei saggi politici del Novecento, scritto nel 1934, c’è un intero capitolo intitolato “Itinerario” in cui lo scrittore ripercorre le ragioni esistenziali e psicologiche della sua adesione al Fascismo. Drieu ama giocare a carte scoperte. Come molti intellettuali del Novecento si impegna politicamente, scende in campo, imbraccia il fucile. Non ha paura di stupire o di attirarsi rancori ed odi. “Volevo essere un uomo completo, non solo un topo di biblioteca, ma anche un uomo di spada, che assume le sue responsabilità, che riceve e colpi e ne restituisce.” (4).

La decadenza, magistralmente descritta in romanzi quali Drôle de voyage, Fuoco fatuo, Gilles, e in racconti quali La voce, Vietato uscire, Diario di un uomo tradito è, però, solo un aspetto della sua personalità. Nella decadenza Drieu non si crogiolava come tanti. Ne avvertiva tutto il peso, drammaticamente: “è orribile camminare per le strade ed incontrare tanto decadimento, tanta laidezza, tanta imperfezione” (5). Di fronte alla decadenza Drieu provava istintivamente un bisogno di rivolta. “La consapevolezza della decadenza non era per lui un alibi, una giustificazione per accomodarsi nella poltrona di un nichilismo senza speranza. In lui era viva l’esigenza di una rivolta per modificare una situazione personale e sociale che giudicava negativa.” (6)

Lo scrittore francese teneva ben presente l’ammonizione di Nietzsche “Il deserto cresce. Guai a chi cela deserti dentro di sé” (7). Le radici profonde della sua scelta politica ed esistenziale sono racchiuse in poche parole scritte verso la fine della sua vita a mo’ di bilancio e che suonano come una disperata professione di fede: «Sono diventato fascista, perché ho misurato i progressi della decadenza. Ho visto nel fascismo il solo mezzo per frenare e arrestare questa decadenza». (8). Da questa volontà di rivolta, di non arrendersi ad un destino che appariva ormai segnato nasce la sua meditata adesione al fascismo, che però non significa mai in lui acquiescenza o mancanza di spirito critico: “io, l’intellettuale, ho forse rinunciato alla mia libertà? Il fascismo come tendenza è una cosa; le forme particolari e inevitabilmente volgari che il fascismo assume nei diversi paesi sono un’altra cosa. Io lavoro forse alla costituzione di un regime fascista in Francia, ma resterò sempre libero e indipendente nei suoi confronti” (9).

Ma, potremmo chiederci, dove coglieva Drieu questa decadenza? Certamente, nella bruttezza della nostra civiltà con le sue case, le sue fabbriche, il suo grigiore, la sua disumanità, la sua entropia. Di contro, nelle architetture, negli affreschi, nelle sculture e nelle miniature medioevali Drieu scorgeva le tracce d’una società organica, spirituale, vitale, in comunione con la natura e la divinità, che garantiva il difficile equilibrio fra corpo ed anima. Si trova, per inciso, in questo raffronto tra due civiltà la radice dell’ecologismo di Drieu, che ce lo rende così attuale e familiare. Già nel suo primo saggio politico del 1922, “Misura della Francia”, con amarezza e lucidità, Drieu aveva fatto una diagnosi e una profezia sulla condizione dell’uomo d’oggi, che può considerarsi esemplare: “Oggi ci sono i moderni, cioè gente che vive o di profitti o di salari, che pensa solo a ciò e che discute solo di questo argomento… Tutti passeggiano soddisfatti nell’incredibile inferno, nell’enorme illusione, nell’universo di spazzatura che è il mondo moderno e in cui molto presto non penetrerà nemmeno più un raggio di luce spirituale” (10).

Ecologista ante litteram, riassume così la sua visione: “Oggi l’uomo ha bisogno di ben altro che di inventare macchine. Ha bisogno di danzare, di meditare, di una discesa nel profondo, di una grande danza meditata.” (11). Diviso fra una vita disordinata e la ricerca di un ordine personale e sociale, “perennemente in bilico tra il sogno e l’azione” (12), tra letteratura ed impegno, tra la meditazione religiosa e la politica, lo sentiamo come un compagno di viaggio, come un nostro fratello maggiore, che ci ha preceduto sui sentieri impervi e difficili del nichilismo montante alla ricerca d’una via d’uscita.

Si è osservato che non aveva torto Drieu La Rochelle a scrivere, prima di morire, che le generazioni future si sarebbero chinate incuriosite sui suoi libri per cogliere un suono diverso da quello solito: “nessuno dei problemi posti da Drieu è stato risolto… l’Europa non esiste ancora… il meccanismo della produzione non è stato né limitato né regolato, anzi ha moltiplicato i suoi ingranaggi senza ordine, senza alcuna cura per la persona umana. Molti intellettuali stanno scoprendo oggi questa alienazione spirituale della civiltà moderna, di cui aveva parlato lo scrittore francese; i giovani più avvertiti vivono in uno stato di insoddisfazione spesso inconsapevole, rifiutano l’inserimento, oppure si perdono in ribellioni velleitarie incapaci di liberarli. Drieu parla a tutti costoro; la sua interrogazione appassionata, colma di dolore e di speranza, di generosità e di virilità, risuona estremamente attuale. È un grido simile a quelli di Bernanos, di Saint-Exupéry, di Céline, uomini provenienti da schieramenti politici diversi, ma accomunati da una sola e fondamentale preoccupazione: rendere all’uomo una dimensione umana.” (13).

Va poi rilevato che negli ultimi anni lo scrittore francese si stava allontanando sempre di più dalla politica, dalla cronaca quotidiana, verso una prospettiva metafisica, che si nutriva della lettura dei Vangeli e dei testi sacri orientali. Solo di recente, dopo un lungo periodo di ostracismo, è stata finalmente resa giustizia a Drieu, che è entrato a pieno titolo nella letteratura del Novecento con l’inserimento nella Pléiade, la più prestigiosa collana editoriale francese. Ad un insieme di brevi testi, scritti dopo i due tentativi di suicidio dell’agosto del 1944 e pubblicati sotto il titolo di “Racconto segreto”, Drieu aveva affidato il suo testamento politico-esistenziale, riassumendo con tratti di efficace lirismo la sua arte, il suo pensiero, la sua sensibilità: “La funzione degli intellettuali, o almeno di un certo tipo di intellettuali, è di andare al di là dell’avvenimento, di tentare cammini rischiosi, di percorrere tutte le strade possibili della storia. Niente di grave se sbagliano. Hanno compiuto una missione necessaria… Una nazione non è una voce unica, è un concerto. E’ necessario che vi sia una minoranza; noi siamo stati appunto quella: abbiamo perduto, siamo stati dichiarati traditori: è più che giusto. Se voi foste stati sconfitti, sareste diventati automaticamente i traditori… Sono fiero di essere stato un intellettuale della minoranza… Non ho voluto essere un intellettuale che misura prudentemente le sue parole. Avrei potuto scrivere nella clandestinità, in zona libera, all’estero. No, bisogna assumere le proprie responsabilità, entrare in gruppi impuri, ubbidire alle leggi della politica che consiste nell’accettare alleati spregevoli o odiosi. Non mi sono sporcato le mani, solo i piedi… Siate fedeli all’orgoglio della Resistenza, come io sono fedele a quello della Collaborazione… Ma abbiamo giocato e io ho perduto. Esigo la morte.” (14)

(1) Alfredo Cattabiani, Drieu la Rochelle, poeta della decadenza, in prefazione a Pierre Drieu La Rochelle di Pol Vandromme, Borla, Torino 1965, pp. 7-10
(2) Alfredo Cattabiani, ib.
(3) Pierre Drieu La Rochelle, Socialismo fascista, E.G.E. 1973 p. 121
(4) Pierre Drieu La Rochelle, Diario 1939-1945, Il Mulino 1995 p. 454
(5) Pierre Drieu La Rochelle, Socialismo fascista, p. 124
(6) Alfredo Cattabiani, ib.
(7) Federico Nietzsche, Così parlò Zaratustra
(8) Pierre Drieu La Rochelle, Bilancio, in Socialismo, Fascismo, Europa. Scritti politici scelti e presentati da Jean Mabire, Volpe, Roma 1964
(9) Pierre Drieu La Rochelle, Socialismo fascista, p. 218
(10) Pierre Drieu La Rochelle, op. cit,. p. 118
(11) Pierre Drieu La Rochelle, Misura della Francia, in Socialismo, Fascismo, Europa. Scritti politici scelti e presentati da Jean Mabire, Volpe, Roma 1964
(12) Moreno Marchi, Drieu La Rochelle, una bibliovita, Settimo Sigillo 1993
(13) Alfredo Cattabiani, Drieu La Rochelle e la generazione del dopoguerra, in prefazione a Socialismo, Fascismo, Europa. Scritti politici scelti e presentati da Jean Mabire, Volpe, Roma 1964 op. cit.
(14) Pierre Drieu La Rochelle, in Racconto segreto, Perorazione, edizioni SE
A cura di Sandro Marano

domenica 21 aprile 2013

IL 18 MAGGIO SKOLL CON "EROICA" A CASAGGì FIRENZE!



Sabato 18 maggio Skoll sarà a Casaggì per presentare "Eroica", il nuovo disco tutto dedicato all'Italia. Dalle ore 21 festa e concerto con musica identitaria e bar a prezzi popolari. Una grande serata, da non perdere.

Una delle canzoni contenute nel nuovo disco:


sabato 20 aprile 2013

Senza lavoro e con la paura di perderlo...

di Andrea Angelini (Rinascita)

Il lavoro è una emergenza sociale. Chi no lo ha lo sogna e chi ha la fortuna di averlo ancora teme di perderlo. Il 25% degli italiani ha paura di ritrovarsi senza lavoro nei prossimi 6 mesi. Una paura diffusa che si alimenta dalla percezione che il mercato del lavoro è praticamente fermo e che non ci sono prospettive di un cambiamento in tempi brevi. L’indagine congiunta di Confcommercio e Censis non lascia molte speranze. E i primi tre mesi del 2013 sono stati in tal senso molto indicativi. Il crollo dell’occupazione è proseguito senza sosta con un conseguente calo dei consumi delle famiglie. E se un italiano su 4 teme di perdere il lavoro, vi è un 27% che teme invece una decurtazione dello stipendio. Se non è zuppa insomma è pan bagnato.

Sono così oltre 11 milioni le famiglie che temono di non riuscire a mantenere l'attuale tenore di vita, mentre per altre 14 milioni e mezzo è diventato molto più difficile risparmiare qualcosa e tenerlo di riserva per le evenienze future.

Si finisce così per rinunciare a delle spese che erano considerate necessarie come la ristrutturazione della casa. Anche rinviarle si trasforma in una necessità. Una percentuale che riguarda il 72,5% delle famiglie. Non ci sono nemmeno più soldi per comprarsi un mezzo di locomozione (un problema per il 79% circa del totale) che un tempo, sia per motivi di necessità che di prestigio, era considerato un investimento necessario. Per molte famiglie si stanno esaurendo i risparmi in banca e si è costretti (il 27% lo ha fatto) a ricorrere a piccoli prestiti.

Insomma siamo di fronte ad un Paese di ex formiche che, senza essersi trasformate in cicale, non ce la fa più a tirare avanti e che sta inesorabilmente sprofondando in una povertà di massa nel silenzio complice della politica in altre faccende affaccendata e che sembra davvero non rendersi conto della rabbia che sta covando nella maggioranza dei cittadini. Una rabbia che aspetta soltanto l’occasione buona per esplodere. E non sarà, ci vuole poco a prevederlo, una esplosione dentro le urne elettorali. Ma una che, come in Grecia, vedrà la gente affamata e incavolata nera scendere in piazza per dare l’assalto ai supermercati e ai Palazzi del potere politico e finanziario.

venerdì 19 aprile 2013

BEPPE NICCOLAI: NON SOLO UN NOME SU UNA TARGA, MA UN ESEMPIO DA SEGUIRE


Una via per Niccolai, missino eretico e di sinistra. I soliti antifascisti si oppongono...







di Renato Berio (Secolo d'Italia)

È polemica dopo l’approvazione in consiglio comunale a Pisa di una mozione presentata da un consigliere del Pdl per intitolare una strada a Giuseppe Niccolai, già deputato del Msi. “È sbagliato intitolare una strada di Pisa a un fascista”, afferma, in una nota, l’Istituto storico della Resistenza in Toscanadefinendo “assai grave la recente decisione del Comune di intitolare una strada della città a Giuseppe Niccolai, persona e uomo politico che, con i fatti e con le parole, ha sempre manifestato e rivendicato il suo orientamento dichiaratamente fascista, prima e dopo la caduta del regime”. La mozione, che proponeva anche l’intitolazione di altre strade a due storici esponenti pisani del Pci e della Dc, è stata approvata con 12 voti a favore su 25 presenti e con i voti contrari di Sel e Prc, mentre 10 consiglieri (9 dei quali del Pd) si sono astenuti.

Non è la prima volta che sulla toponomastica di accendono dispute ideologiche contrarie a quello spirito di pacificazione che dovrebbe guidare le scelte degli amministratori e stupisce che ciò sia avvenuto proprio sul nome di Beppe Niccolai (nato a Pisa nel 1920 e morto nel 1989) che nel Msi fu uno dei più accaniti paladini del dialogo con gli avversari, fu fortemente critico con l’anticomunismo anacronistico e fu sempre attento ai temi sociali. Niccolai aveva alle spalle un’intensa attività parlamentare (arrivò in Parlamento nel 1968) della quale si ricorda l’impegno nella commissione antimafia. Dopo due legislature si fece volontariamente da parte: un esempio solitario che non sarà seguito né nel suo né negli altri partiti. Niccolai fu anche un giornalista arguto e graffiante sia quando dirigeva il periodico pisano Il Machiavelli sia sul giornale da lui fondato L’Eco della Versilia. Sul Secolo d’Italia curava la rubrica “Il rosso e il nero”. Dapprima amico di Almirante ne diventa oppositore nel 1984 presentando al congresso un documento che farà da coagulo alla sua corrente (10% dei consensi interni al Msi). Negli ultimi anni si era dedicato allo studio della figura di Berto Ricci a partire dalle cui idee intese impostare la sua battaglia politica. Così spiegava in un’intervista il suo “amore” per Berto Ricci: “Che fare? Se lo chiedono tutti. Sono impazzite le bussole. E Berto torna ad essere maestro di carattere, lui coscienza senza sonno e uomo di viventi e cocenti passioni. Lui e gli uomini delle tangenti. Questo è il confronto”.

Fu espulso dal partito per avere presentato alla direzione nazionale del Msi un odg contro i potentati economici che era l’esatta riproposizione di un documento del Pci. Poi venne riammesso per la mediazione di Giuseppe Tatarella. Poco prima di morire sorprese ancora una volta il Msi quando, mentre infuriavano le proteste per l’arresto di Sofri per il delitto Calabresi, scese in campo pubblicamente per difendere l’ex-leader di Lotta Continua, l’uomo cioè che aveva organizzato quella manifestazione contro un suo comizio che si concluse con la morte del giovane anarchico Franco Serantini.

giovedì 18 aprile 2013

La Cina ha comprato l'Amazzonia...

L’Ecuador si appresta a mettere in vendita la Foresta Amazzonica e lo vuole fare al meglio, non curandosi della dannosa situazione del territorio, già massacrato dalle multinazionali del legno e dalle deportazioni di popolazioni indigene. 
Il governo di Quito sta organizzando degli incontri in diverse capitali straniere per vendere al massimo le potenzialità energetiche dei terreni. Alcuni rappresentanti politici dell’Ecuador, in quello che possiamo definire un vero e proprio tour arrivato alla terza tappa dopo Houston e Parigi, si è recato a Pechino all’inizio del mese per illustrare l’offerta alle principali aziende petrolifere cinesi, compresa la China Petrochemical e la China National Offshore Oil. 
«Chiediamo sia alle compagnie private e sia a quelle statali, di rifiutarsi di partecipare a questa asta che viola sistematicamente i diritti di sette nazioni indigene, imponendo esplorazioni petrolifere nei loro territori ancestrali». Questo è il grido di speranza che le comunità indigene dell'Ecuador hanno scritto in una lettera aperta. In risposta a questa lettera, Andrés Donoso Fabara, ministro ecuadoregno per gli Idrocarburi, ha commentato che i leader della protesta non vogliono fare gli interessi delle popolazioni, ma al contrario, hanno «un’agenda politica e non tengono conto dello sviluppo e della lotta alla povertà». 
Quito afferma che gli investimenti cinesi potrebbero contribuire allo sviluppo dell’economia della comunità locale, ma secondo le comunità indigene, dietro la scelta fatta dal governo di vendere i territori della foresta, ci sarebbe la volontà di ripagare a Pechino una parte dei tanti miliardi di dollari che gli deve. Dal 2009 ad oggi, infatti, la Cina, in cambio di commesse e petrolio, ha finanziato due infrastrutture idroelettriche tra le più importanti dell’Ecuador. E in ballo ci sarebbe anche un progetto da 12,5 miliardi di dollari per la costruzione di una nuova raffineria. 
Secondo l’organizzazione californiana Amazon Watch, se l’affare andasse in porto con le multinazionali cinesi, ci troveremmo di fronte ad una violazione molto grave. Infatti, le linee guida fissate congiuntamente dai ministri cinesi per l’Ambiente e per il Commercio estero il mese scorso, sottolineano che gli investimenti stranieri dovrebbero esserci solo «promuovendo uno sviluppo armonioso dell’economia locale, dell’ambiente e delle comunità». Cosa che in questo caso non accadrebbe. 
Nel febbraio del 2001 una sentenza attesa 17 anni, dopo una battaglia legale iniziata negli Stati Uniti e rimbalzata da una Nazione all’altra, aveva dimostrato che le estrazioni di petrolio effettuate nella parte dell’Amazzonia dell’Ecuador, avevano portato grandi danni alle tribù indigene delle regioni di Sucumbios e Orellana. La storia iniziò nel 1993 quando l’allora Texaco, poi fuso con Chevron - seconda compagnia multinazionale petrolifera americana -, a causa delle estrazioni effettuate tra il 1964 e il 1990, fecero aumentare i casi di malattie mortali. 
La foresta amazzonica è l’ecosistema più ricco al mondo di specie animali e vegetali - si contano 75mila tipi di alberi diversi -, ed è già gravemente minacciata dalla deforestazione. Invece di «stuprare» questi territori, dovremmo tutelarli il più possibile. Come dovremmo cercare di tutelare lo stile di vita delle tribù Indios che ci vivono. Il direttore di «Survival International» ci suggerisce una riflessione interessante: «Spesso questi popoli (indigeni, ndr) vengono visti come retrogradi perché vivono in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa nozione ad essere invece retrograda e incivile».

La storia di Jan Palach e dei dissidenti antisovietici in una miniserie televisiva...

di Michele de Feudis (Barbadillo.it)
Il sacrificio patriottico di Jan Palach raccontato in una serie televisiva: il progetto porta la firma di Agnieszka Holland, due volte candidata all’Oscar, ed è prodotto dalla Hbo. La pellicola è stata presentata al Miptv di Cannes, la più importante fiera dell’audiovisivo nel mondo.   
La storia raccontata parte dal 16 gennaio 1969, quando lo studente Jan Palach si diede fuoco in Piazza San Venceslao per protestare contro l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia. E dopo offre un quadro realista del clima politico del tempo, della ribellione giovanile contro l’oppressione totalitaria e delle campagne di disinformazione orchestrate dal governo filosovietico per sminuire il significato politico dell’auto-immolazione. La trama mette in evidenza il ruolo dell’avvocato Dagnar Buresova (personaggio realmente esistito e attivo al tempo a favore dei dissidenti), che difese la memoria di Jan nel processo contro i suoi calunniatori.
Jan Mojto Ceo della Beta Film che distribuirà l’opera, ha commentato così il progetto: “Burning Bush racconta una vicenda storica che ha a che fare con la brutalità dei totalitarismi e insieme con il coraggio di chi si oppose in nome della rivoluzione. Perché la libertà è la più dura fiamma da estinguere”.

martedì 16 aprile 2013

Sono passati 40 anni dal rogo di Primavalle, ma alla fine nessuno ha pagato

È facile e comodo quarant’anni dopo esecrare un crimine come quello di Primavalle. Era allora che si doveva dire la verità, rendere giustizia alle vittime e punire i colpevoli, ma i giornali non la dissero, e vedremo il perché. Sono passati quarant’anni dal rogo di Primavalle, quello in cui un bambino di dieci anni, Stefano, e un giovane di 22, Virgilio, persero la vita nell’incendio che distrusse la loro casa dove abitavano con i genitori e con i fratelli, rimasti tutti feriti in modo più o meno grave. Militanti di Potere Operaio, formazione extraparlamentare dell’epoca, appiccarono il fuoco all’appartamento popolare della famiglia Mattei, in via Bernardo da Bibbiena 33, lotto 15, scala D, interno 5, con della benzina, due litri, secondo le perizie. Gli assassini si chiamano Achille Lollo, Manlio Clavo e Marino Grillo, e per loro uccidere un fascista non era reato, anzi, un’operazione meritoria. Come sembrò anche in seguito a esponenti della sinistra italiana che per loro attivarono una rete di solidarietà formidabile, che giunse anche alla pubblicazione di un libretto, Primavalle, incendio a porte chiuse, in cui si sosteneva l’innocenza dei tre. Libretto redatto da un gruppo di giornalisti “democratici”. Dario Fo e Franca Rame si adoperarono per attivare “Soccorso rosso” in favore di chi aveva causato la morte di un bambino e di un giovane, e con loro altri autorevoli esponenti della sinistra, come Umberto Terracini, presidente dell’assemblea costituente, che oltre a Lollo difese anche Marini, l’omicida di Carlo Falvella, e Panzieri, condannato per l’assassinio di Mantakas. Ma non solo lui. Il quotidiano Lotta Continua il giorno dopo titolò: «La provocazione fascista oltre ogni limite: è arrivata al punto di assassinare i suoi figli». Sì, perché la tesi di tutte le sinistre e non solo delle sinistre fu quella di una faida interna tra fascisti, che per qualche settimana resse, per poi essere frantumata dalle perizie, dai fatti, dall’opinione pubblica, dalla magistratura e, nel 2005, dallo stesso Lollo che, dal Brasile, ammise che quella notte lui c’era e non da solo. Solo il Movimento Sociale e i suoi dirigenti e militanti conoscevano da tempo la verità, da sempre, e tentarono con ogni mezzo di diffonderla, vanamente; ma molti italiani neanche sapevano cosa fosse successo quella notte di 40 anni fa nel popolare quartiere di Primavalle, perché all’intera vicenda fu messa per decenni una sordina mediatica, i morti erano di serie B, figli di un dio minore, di loro non si doveva parlare e, soprattutto, gli assassini non erano tali. Non è successo solo per i morti di Primavalle, ma per tutti i morti “fascisti”, ignorati dall’opinione pubblica e dai mass media “democratici”.
Mario Mattei, il capofamiglia, era il segretario della sezione missina di Primavalle, la “Giarabub”, e il figlio maggiore, Virgilio, morto nel rogo, militava nei “Volontari nazionali”, formazione del Msi. Era una famiglia proletaria, di un quartiere popolare, ma era fascista, e questo l’intelleghentzia comunista non lo poteva tollerare: non poteva tollerare che il Msi a Primavalle non solo esistesse, ma che avesse anche un certo seguito. E così assalti e attentati erano quotidiani, come nelle sezioni dei Msi della vicina Monte Mario, via Assarotti, e in tutti gli altri quartieri popolari dove il Msi è stato sempre presente con rappresentanze significative: dal Prenestino a Portonaccio, da Torre Maura a Tor Pignattara, da Centocelle al Quadraro e in molti altri quartieri. E ovunque la sinistra tentava di cacciarli con le bombe, col fuoco, con aggressioni quotidiane, che talvolta costarono la vita ai giovani di destra. Nell’orazione funebre nella chiesa dei Sette Santo Fondatori il segretario del Msi Giorgio Almirante, che ebbe il non facile compito di gestire un movimento ostracizzato da tutti, perseguitato, disprezzato, odiato, disse tra l’altro che «questo crimine è talmente efferato che, pur conoscendone la precis amatrice politica, stentiamo a definirlo politico. Il teppismo, la delinquenza, non hanno colore», disse, ma poi, abbandonando la cautela con la quale cercò sempre di non scatenare una nuova guerra civile, aggiunse: «Il teppismo, no. La l’odio, l’odio sì. L’odio ha un solo colore, il colore rosso». E non sembri semplice retorica, perché questo sfogo in realtà apre uno squarcio sul clima di ossessiva intolleranza che caratterizzava quegli anni. La questione gira sempre intorno a quella frase, uscita direttamente dalla guerra civile italiana, «uccidere un fascista non è reato».
Il rogo era certamente annunciato, perché Potere Operaio aveva deciso una vasta offensiva contro il Msi di Primavalle: le autovetture e le moto dei “fascisti” avrebbero dovuto essere incendiate, così come gli esercizi commerciali di esponenti della destra nonché attentati con la benzina nelle loro abitazioni. Nei giorni precedenti Lollo, che abitava in zona e che si distinse anche come caporione del liceo Castelnuovo, vera palestra di demagogia e di violenza, si rivolse più volte ad Aldo Speranza, netturbino repubblicano amico dei Mattei, per sapere i nomi e gli indirizzi dei “fascisti” del quartiere per poi poterli colpire. In una occasione Speranza fu condotto da Lollo in un appartamento di Trastevere, “covo” dei radical-chic di Potop, abitato da Marino Clavo ma di proprietà di Diana Perrone, miliardaria nipote del proprietario del Messaggero, giornale che guarda caso sin dai primi giorni propugnò la pista interna per il rogo, poi smentita dai fatti e in tempi recenti dallo stesso Lollo, seguito in questa mistificazione della verità da tutti i quotidiani, anche quelli che oggi condannano il rogo di Primavalle perché costretti dalla storia. In questo appartamento poi furono trovati sia il nastro adesivo sia i fogli a quadretti usati per la rivendicazione. E in questo appartamento Lollo e gli altri mostrarono a Speranza l’esplosivo con cui fu fatta esplodere la sezione del Msi. E il 7 aprile effettivamente fu data alle fiamme la macchina del missino Marcello Schiaoncin in via Pietro Bembo, l’11 aprile una bomba devastava la sezione di via Domenico Svampa, atti rivendicati dalla “Brigata Tanas”. Fina alla mattina del 16 aprile con la strage a casa Mattei, anche questo rivendicato dalla Brigata Tanas. A fine anno l’istruttoria si concluse con il rinvio giudizio per i reati di strage, incendio doloso, pubblica intimidazione, fabbricazione, detenzione e porto di congegni esplosivi gli esponenti di Potere Operaio Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo, questi ultimi due latitanti. La sentenza è stata emessa dal giudice istruttore Francesco Amato su richiesta del pubblico ministero Domenico Sica. I tre furono condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale, ma Clavo e Grillo non hanno scontato neanche un giorno. Ma la grancassa antifascista ha sempre surrettiziamente continuato a propalare la tesi della faida interna, come poi fu fatto anche per altri omicidi di ragazzi, a cominciare da quello di Mantakas. Se Lollo nel 2005 non avesse confessato, per gli antifascisti di professione sarebbe ancora una faida, ed è su questo che bisogna riflettere: su come la macchina della menzogna gestita dalla sinistra ha modificato in questi anni la storia italiana. E nei casi in cui un Lollo non ha confessato, è rimasta solo la menzogna…

lunedì 15 aprile 2013

25 APRILE: CASAGGì AL SACRARIO DELLA RSI...

Come ogni anno il 25 aprile saremo al sacrario della Rsi di Trespiano per portare un fiore sulla tomba di quei ragazzi che hanno sacrificato la vita per difendere la dignità e l'onore d'Italia. Il ritrovo è alle ore 10.30 davanti al cimitero: seguirà una commemorazione con le testimonianze di chi c'era e di chi, negli anni, ha sentito il bisogno di mantenere vivo il ricordo di questa pagina di storia.

sabato 13 aprile 2013

Wounded Knee rischia di andare all’asta. L’ultimo oltraggio agli indiani d’America

“Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardavo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, ancora vedo le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone a zig-zag. Chiaramente come li vidi coi miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, lassù, sulla neve insanguinata, e rimase sepolta sotto la tormenta. Lassù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno… il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero sacro è morto”. Le amare parole di Alce Nero chiudono forse il più bel romanzo scritto da Dee Brown sulla storia dei pellerossa, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee.  

Parole che segnano la fine della epopea del West. Con i suoi miti, i racconti, le avventure, il commercio di pellicce, i cercatori di pepite d’oro, le Giacche Blu, gli avventurieri, la costruzione delle ferroivie e delle città di legno, i saloon e le tende avvolgenti delle immese praterie solcate da mandrie di bufali. E’ il volto del Nuovo Mondo che si affaccia all’orizzonte. Il rumore dello sviluppo che romba come un tuono all’orizzonte. Con le sue trasformazioni immense e caotiche. Con la sua rivoluzione industriale che scompagina il vecchio equilibrio ecologico. E’ il nuovo volto dell’America. Dell’Uomo bianco che vive la sua libertà togliendola ad altri. E gli “altri” sono gli indiani. Una presenza, la loro, antistorica, di ostacolo al progredire incessante della “civiltà”.  Almeno così è stata  per tanto tempo rappresentata dai vincitori, come sempre accade quando c’è da scrivere pezzi di storia controversa, segnati da sangue, violenza, rapacità.

Eppure, quella flebile voce dei “vinti” , dei Sioux, dei Navaho, dei Cherokee, degli Apache, non è andata dispersa del tutto. La loro parola ha fatto breccia nel silenzio soffocante calato su quel brutale etnocidio. La narrazione dello sterminio dei pellerossa si è fatto arte nella cinematografia ed icona di un popolo che seppe avere memorabili capi che, nella loro struggente semplicità e mirabile saggezza, seppero prevedere quel che sarebbe accaduto. Vittime e testimoni, al tempo stesso, del prepotente irrompere della scienza e  della tecnica nei processi di civilizzazione dell’umanità.
Ora, a più di un secolo da quegli eventi che cambiarono il Mondo, Wounded Knee, il luogo dell’ultimo massacro, torna a far parlare di sé. Per una complessa storia di successioni quel fazzoletto di terra, dichiarata dal governo americano National Historic Landmark , rischia di andare all’asta. Gli attuali proprietari se ne vogliono disfare. E questa misera storia fa il paio con l’altrettanta irraguardosa vicenda che vede, in questi giorni, messi all’incanto in un asta record a Parigi i cimeli dei nativi americani, gli spiriti sacri degli antenati Hopi. Né le proteste di Robert Redford né la mobilitazione ufficiale dei Dipartimenti americani di Stato sono riusciti a bloccare la “più grande vendita di arte sacra Hopi della storia”. Sicchè, a suon di centinaia di migliaia di dollari, maschere multicolori di epoca antica, decine di copricapo ornati con piume e decorati con pigmenti naturali a richiamare la divinità degli antenati, secondo le credenze degli Hopi, sgominati nel Diciassettesimo secolo dai conquistatores spagnoli, sono finiti in mani  di ricchi collezionisti. Con nessun rispetto per il valore “sacro” di quegli oggetti.

Ed è su questo che varrebbe la pena riflettere. Edonismo, egoismo, spirito speculativo, sono talmente entrati nelle corde dell’umanità da far perdere di vista il significato profondo del “sacro”. Un monumeto, un oggetto che racchiude in sé ricordi, storie, sofferenze, testimonianze, porzioni di vita vissuta, narrazioni di comunità spazzate via dalle guerre degli nuomini, preserva un carattere sacro che lo dovrebbe rendere indisponibile, affidato alla memoria. Sempre che al “sacro” si riesca ancora dare senso e significato. Quale espressione intimamente profonda di quel bisogno dell’essere di credere in qualcosa che superi  la dimensione materialistica della vita. Il Sacro nel suo portato divino. Nella sua “religiosità”. Chiediamoci: c’è spazio ancora, ai nostri giorni, per l’Homo religiosus

venerdì 12 aprile 2013

‘Gli occhi della guerra’ di Almerigo Grilz (oggi avrebbe compiuto 60 anni)...

di Giorgio Ballario (Barbadillo.it)

Se non avesse incontrato una maledetta pallottola vagante laggiù, in Mozambico, oggi avrebbe compiuto sessant’anni. E probabilmente sarebbe stato in giro per il mondo con un taccuino, una videocamera e una macchina fotografica. Difficile immaginare Almerigo Grilz dietro una scrivania… Il reportage di guerra era diventato il suo lavoro, ma rimaneva soprattutto una grande passione.

Nato a Trieste l’11 aprile del 1953, militante e dirigente del locale Fronte della Gioventù e dell’Msi, nonché consigliere comunale triestino e vicesegretario del FdG nazionale, Almerigo muove i suoi primi passi da giornalista sul quindicinale Dissenso, organo del Fronte della Gioventù. Quella che inizialmente era nata come una naturale conseguenze della sua passione politica, pian piano si trasforma in una professione. Una professione, anche in questo caso, fuori dal coro. Perché sui giornali “normali” non c’è posto per un reporter free-lance fascista, anche se bravo e coraggioso.

Grilz infatti ama documentare le guerre dimenticate, quelle trascurate dai giornali e dalle televisioni italiane, in Paesi lontani dove gli inviati a cinque stelle non mettono neanche piede. Con due amici-camerati della sezione triestina del FdG, Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, fonda nel 1983 la Albatross Press Agency, un’agenzia di stampa specializzata in reportage giornalistici scritti, fotografati e filmati dai fronti caldi di mezzo mondo: Libano, Afghanistan, Iran, Iraq, Cambogia, Etiopia, Filippine, Angola. «Per raccogliere il primo gruzzolo e partire per l’Afghanistan, invaso dai sovietici - racconta Biloslavo – Almerigo vendeva libri di Ciarrapico, Gian trasportava carta igienica ed io alzavo la sbarra d’ingresso in un campeggio a Grado. Il nostro inno divenne ben presto “Vita spericolata” di Vasco Rossi».

Almerigo Grilz è sempre in prima linea. Con macchina fotografica e videocamera documenta l’orrore delle guerre civili, le crudeltà delle battaglie che nessuno vede, il pugno di ferro dell’imperialismo sovietico. Ma anche singoli atti di eroismo, la speranza di chi non si arrende, la solidarietà. In Italia è semi sconosciuto, così come la sua agenzia giornalistica, ma all’estero Grilz comincia a farsi un nome. Acquistano i suoi reportage le reti americaneCbs e Nbc, la televisione statale tedesca, il Sunday Times, l’Express. Da noi l’Albatross fa fatica a ottenere contratti: il marchio di fascista pesa ancora troppo. Solo il Tg1, Panoramae soprattutto il settimanale ciellino Il Sabato rompono in fronte “antifascista”.

Nella tarda primavera del 1987 parte per il suo ultimo reportage. Il 19 maggio un proiettile vagante lo colpisce in Mozambico, mentre sta filmando uno scontro a fuoco fra i ribelli della Renamo e le forze governative. E’ il primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma sui giornali la notizia viene data in scarni trafiletti. C’è persino chi aggiunge infamia all’indifferenza: «Ucciso un mercenario» titola un quotidiano di sinistra, mentre altri insinuano che si tratti di una spia o di un mercante d’armi. Aveva 34 anni e secondo le sue volontà viene sepolto in Mozambico. Quindici anni più tardi l’amico Micalessin realizzerà un documentario filmato sui luoghi della sua morte, montando, insieme alle sue, proprio le immagini girate da Almerigo fino all’istante stesso della morte.

Il suo nome è inciso sul monumento che Reporters sans frontières ha voluto dedicare a tutti i giornalisti caduti sul campo sulle spiagge della Normandia, dove il mitico fotografo Robert Capa sbarcò nel 1944 con la prima ondata di truppe alleate. E la sua Trieste gli ha dedicato una via sul lungomare cittadino. Ma non c’è posto per il nome di Grilz sulla facciata del palazzo che ospita la sede dell’Ordine dei giornalisti e dell’Associazione della stampa di Trieste, dove sono collocate le lapidi che ricordano i giornalisti giuliani caduti nell’esercizio della loro professione: Marco Luchetta, Sasha Ota e Dario D’Angelo, della Rai, morti a Mostar durante la guerra civile nell’ex Jugoslavia; e Miran Hrovatin, ammazzato a Mogadiscio assieme a Ilaria Alpi.

Lo denunciava, in un lungo articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano del 19 maggio 2007, proprio Fausto Biloslavo, che di Grilz fu amico, collega e “camerata”. «Nonostante le ripetute richieste, dei suoi amici e colleghi, l’ultima in occasione del ventennale (della morte, ndr) – scrive Biloslavo – non c’è verso di aggiungere una targa per Almerigo, il giornalista dimenticato. Nel 2002 il Comune di Trieste, conquistato dal centrodestra, gli dedicò una via sollevando la levata di scudi del quotidiano locale e di tanti benpensanti. A vent’anni dalla sua morte, solo l’Ordine dei giornalisti sembra aver iniziato a passare il guado, con un timido patrocinio delle iniziative che ricordano Grilz, come “Gli occhi della guerra”. La targa, però, è un tabù difeso a spada tratta dal sindacato unico dei giornalisti, che in passato riuscì a giustificare il suo niet sostenendo che una nuova lapide renderebbe la facciata dello stabile una sorta di orto lapidario».

Insomma, sulla facciata della sede dei giornalisti triestini non c’è posto per Almerigo Grilz. Neanche da morto. Fuori dal coro anche in memoriam, verrebbe da dire. Forse non gli sarebbe spiaciuto poi tanto, visto che “Ruga” – come lo chiamavano gli amici – ha sempre amato remare controcorrente.


Vecchi cari compagni che tristezza i vostri nipoti...


di Mario M. Merlino (da ereticamente.net)

Da militanti anni ‘60 del MSI (la mia permanenza ebbe breve durata, meno di tre anni) e delle organizzazioni giovanili dentro e fuori del partito avevamo una sorta d’invidia, che si trasfigurava in alcuni in vero e proprio mito, per la formazione dei quadri del PCI. Un’aurea di leggenda, un po’ tenebrosa (il che eccita le anime assetate d’avventura e lettrici di Emilio Salgari), circondava la scuola delle Frattocchie, alle porte di Roma.
Parto subito con un ricordo personale ( ‘E vai!’, si dirà qualche lettore ormai assuefatto a simili esternazioni, mentre io ho il sospetto che questi miei interventi su Ereticamente si stanno trasformando nel lettino dello psicanalista…Il negriero trasformato in Herr Doktor Freud!). Andiamo ad attaccare manifesti, ragazzini ed incoscienti, spingendoci fino in via delle Botteghe Oscure (quale nome appropriato per la sede nazionale del PCI!) e dintorni. Qualcuno ci vede e avverte il servizio d’ordine che staziona in vigile e permanente all’erta. Ne arrivano quattro o cinque, fisico armadio a doppia anta, mani come palanche, naso da mastino napoletano. Gli altri buttano secchio e pennello e scappano. Io no. Non per coraggio o amore della sfida, credo, solo che le gambe non mi reggono… Ho in mano il manico della scopa con cui si arrotolano i manifesti. Ridicolo. Mi si para davanti uno di questi orchi, appena uscito dalla fiaba di Pollicino. In un attimo di autocoscienza mi dico: ‘Ciao, Mario, anzi addio!’. ‘Non voglio menarti.’ – mi soffia sul viso, respiro di sollievo (il mio) – ‘Parliamo. Perché io, che sono proletario, sono comunista e tu, borghese, sei fascista’. Tenta di convincermi, io lo ascolto docile e annuisco con la testa. Non mi ha convinto, ma – lo confesso – sul momento ho pensato che era poco ‘educato’ dissentire…
Morale della storia: quelli erano i compagni, forse ‘trinariciuti’ come li definiva il buon Guareschi, che guardavano all’Unione Sovietica, madre di tutte le rivoluzioni, e che, segretamente dopo il XX Congresso, avevano nel cuore ‘a da veni’ Baffone!’. Quelli che non avevano alcun dubbio, esitazione di sorta, tentennamento. Il sol dell’avvenire era prossimo, stava scritto non nelle stelle ma nei testi di Marx, e sulla terra si sarebbe steso un candido velo per rasserenare l’umanità intera donando ogni bene e sanando ogni bisogno (nel frattempo bisognava accettare i cimiteri sparsi in tante parti del mondo con le loro fosse comuni di milioni di dissenzienti, di nemici del popolo, di traditori al servizio del capitale, di piccoli e grandi borghesi malati di egoismo, di piccoli e grandi proprietari terrieri attaccati alle zolle e al recinto con il bestiame). Erano, diciamolo pure, di una estetica tragica e affascinante; nomadi di un sogno grandioso e brutale; ubriachi ad abbracciare un lampione e confonderlo con la luna. Quelli, sì, con cui misurare le nostre forze i nostri ideali il nostro sogno… non quelli che, oggi, fanno la fila davanti ai gazebo o si sparano canne, emanando sudore e stracci quali bandiere nei centri sociali.
Ultima immagine. Sono in aereo per Cagliari. All’università si tiene un convegno sul ’68. Sono tra i relatori. Accanto a me siede il giornalista ed amico Sandro Provvisionato. Fine anni ’90, mi sembra di ricordare. Mi dice, riferendosi proprio alle Frattocchie, del suo fallimento se, dopo i D’Alema, vi sono dirigenti come i Folena i Fassino… Nostalgia di quella classe politica che era stata capace di sopravvivere nella Mosca di Stalin e ai ricorrenti processi e purghe (si legga, ad esempio, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler); che s’era costruita titoli di merito con il colpo alla nuca e la tortura nella Spagna della guerra civile (si legga, ad esempio, Omaggio alla Catalogna di George Orwell); che nella ‘nostra’ guerra civile era stata la più agguerrita e brutale fino allo scannamento e allo scempio di piazzale Loreto (ai miei alunni Armando Cossutta disse esplicitamente, riferendosi alle carrette cariche di fascisti assassinati a Sesto San Giovanni, nell’aprile del ’45, che costoro ‘non erano neppure uomini’).
Anche questo va rimproverato al nostro tempo: averci tolto il nemico da guardare negli occhi o, come diceva Nietzsche, ‘voi dovete essere soltanto nemici cui si convenga l’odio, non il disprezzo’. Oggi sappiamo, certo, chi sono i nostri nemici, ma non li vediamo. I consigli d’amministrazione, i detentori delle grandi banche, l’usura elevata a norma, i finanziatori delle testate giornalistiche. E, in televisione, ci appaiono compresi nella serietà del ridicolo le loro maschere… E quel comunismo, di cui rifuggimmo in modo subitaneo e definitivo le lusinghe, dov’è andato ad infrangersi? Non tra le macerie di Berlino difesa da un pugno di volontari europei e da quei ragazzini con il panzerfaust, no, per qualche lattina di coca-cola per un concerto di musica rock all’Est e, da noi, la cravatta intonata ai calzini la pelliccia e i salotti bene di Roma dal ventre caldo e le cosce accoglienti…


mercoledì 10 aprile 2013

Hack, Camilleri e Lizzani elogiano il Fascismo, ‘Bombacci’ intempestivi con poco coraggio






In senectute veritas. Margherita Hack, nome forte del pantheon laico-progressista, stupisce tutti e si lascia andare a parole sorprendenti su fascismo e comunismo. «Il marxismo – ha detto la scienziata in una recente intervista – voleva inquadrare tutti, a me non va bene. Il sovietismo è stato una dittatura vergognosa. Il mio socialismo persegue la giustizia sociale. Le conquiste sociali fatte sotto il fascismo oggi ce le sogniamo, il che è tutto dire. Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò, in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo».
L’outing della Hack non è del resto isolato. Tempo fa, per esempio, Andrea Camilleri – altra personalità portata a spasso dalla sinistra come fosse la Madonna pellegrina – sorprese la platea di giovani con cui stava dialogando con affermazioni di questo tenore: «All’epoca ero molto più libero di voi oggi. L’unica cosa che posso dirvi è di farvi condizionare il meno possibile da una società che finge di darti un massimo di libertà e che in realtà ti sottopone a un massimo di condizionamenti. Potrà sembrare un paradosso ma ai miei tempi, sotto il fascismo, si era molto più liberi di oggi».
Prima ancora era stato l’antifascistissimo Carlo Lizzani, autore di alcune delle più triviali pellicole politiche degli anni ’70, a confessare che «nel fascismo la cultura non subiva tagli, anzi era valorizzata al massimo dal regime anche con risultati a volte davvero straordinari. Basti pensare alla Mostra del Cinema di Venezia e anche all’attuale Centro Sperimentale di Cinematografia. L’equazione fascismo uguale reazione è sbagliata perché fa pensare a un’impossibilità di recupero e invece i processi messi in moto dal fascismo erano anche di modernizzazione. Per noi ragazzi si aprirono le porte di pubblicazioni come Primato, con Bottai e altri gerarchi che offrivano la possibilità ai giovani di scrivere per le principali riviste. Il Centro sperimentale di cinematografia, un’invenzione fascista, proiettava i film sovietici. Ci sentivamo promossi come nessun’altra generazione prima di noi. Le parole d’ordine erano “largo ai giovani” e “la borghesia la seppelliremo”, mentre i nostri padri venivano da società gerontocratiche, bloccate. I Littoriali erano grandi gare giovanili che davano ai diciottenni l’opportunità di viaggiare, uscire di casa, sentirsi autonomi rispetto alla famiglia e ai canoni borghesi».
Hack (classe 1922), Camilleri (1925), Lizzani (1922): tutti diventati “camerati”? Non scherziamo. Non si tratta di arruolamenti ideologici, che del resto non sembrano essere voluti né da una parte né dall’altra. Queste confessioni tardive, semmai, sono utili perché disvelano l’antifascismo per quello che esso realmente è: un pensiero religioso tenuto insieme da conformismo e ricatto. Quando il condizionamento non può più aver presa, il castello ideologico cade. Parliamo di antifascismo, beninteso: non della semplice opinione negativa sul fascismo. Le opinioni si confrontano e si scontrano, fa parte del gioco. Quello a cui ci riferiamo è invece il dogma politico che ruota attorno al concetto di “male assoluto” e che pone paletti invalicabili al confronto, alla libertà di espressione e di pensiero. Salvo, ovviamente, che tu non sia un novantenne di fama internazionale e dal chiaro pedigree di sinistra. Allora puoi permetterti di riconoscere l’ovvio a dispetto delle scomuniche.
Ovviamente c’è anche il rovescio della medaglia, nel senso che i liberi pensieri hanno più valore se vengono espressi quando si rischia qualcosa nel farlo. I nonnetti illustri che all’improvviso si ricordano di non aver vissuto la loro adolescenza in Salò o le 120 giornate di Sodoma fanno simpatia, ma in fondo sono solo dei Bombacci intempestivi. E se lo scarto temporale passa per piazzale Loreto, la tempestività è tutto.
A cura di Adriano Scianca

lunedì 8 aprile 2013

GOOD BYE!


                          


La libera Irlanda in lotta saluta la signora Thatcher, ricordando le centinaia di persone ingiustamente rinchiuse e torturate nelle carceri inglesi, in barba ai diritti umani e alle convenzioni internazionali. Di lei ha da sempre parlato bene certa destra, attenta alle sue svolte liberiste e alle sue riforme economiche: ed è proverbiale, in tal senso, l'abisso culturale ed antropologico che ci divide da un certo conservatorismo liberista, capace di esultare per la distruzione dello stato sociale compiuta per mezzo di privatizzazioni, estromissioni del sindacato e flessibilità fuori controllo. Siamo fieramente di un'altra pasta, noi.

sabato 6 aprile 2013

Cartoon. Quando la sinistra criticava Goldrake per “il culto della delega al combattente”




Trentacinque anni fa iniziava in Italia la fortunata «invasione» delle TV (e dei gusti giovanili) da parte dei cartoni animati giapponesi. Nel gennaio 1979 sociologi, psicologi e moralisti si stracciarono le vesti contro Goldrake&C. al punto che un deputato – il demoproletario Silverio Corvisieri – giunse a investire giornali e Parlamento della questione… Il pubblico decretò però il successo dei cartoni made in Japan. Che continua ancora oggi, facendo apparire ancora più lontana e «storica» quell’ondata di psicosi collettive che rivelava un lato del nostro Paese (e non solo…) fatto di strani pregiudizi
Ci può essere un piccolo Savonarola nelle persone più insospettabili. Un demonietto che spinge a giudicare chi si diverte e a cercare se non sia possibile trovare un antidoto allo spasso altrui. Ce lo ricorda uno spettacolo teatrale messo in scena in occasione del trentennale della prima messa in onda di «Goldrake» sulla TV italiana: un balzo indietro che Daniele Timpano, autore ed attore del monologo «Ecce Robot – Cronaca di un’invasione», fa compiere alla platea riportandola a quel 4 aprile 1978 e all’infinita scia di polemiche che ne seguirono. Tutto è dunque iniziato alle 18.45 di quel martedì sull’allora Rete 2, quando per la prima volta compare su un teleschermo italiano una serie robotica giapponese a cartoni animati (anime, nella lingua del Sol Levante): si tratta di «Atlas Ufo Robot», italianizzazione del serial di Go Nagai (al secolo Kiyoshi Nagai, nato nel 1945 a Wajima) «Grendizer», poi più noto da noialtri come «Goldrake». Fu un successo senza precedenti. Non era il primo anime giapponese a raggiungere l’Italia: nel maggio 1976, il Primo Canale aveva già trasmesso la coproduzione austro-tedesco-nipponica «Vicky il Vichingo». Dopo una pausa di due anni, due mesi prima di «Atlas-Ufo Robot» era stato trasmesso sempre sul secondo canale, «Heidi» («Alps no Shojo Haidi», ovvero «Heidi, la ragazza delle Alpi»), una delicata storia tratta dal romanzo omonimo di Johanna Spyri, e realizzato da Isao Takahata con la collaborazione di Hayao Miyazaki (coppia che poi darà vita al celeberrimo Studio Ghibli). Ma «Vicky» ed «Heidi» – dal soggetto, ambientazioni e temi molto europei – non ebbero il risalto mediatico che invece ottenne il più esplosivo «Grendizer». Innovativo ed entusiasmante, «Goldrake» fu una vera e propria macchina per fare audience, tanto in Italia, quanto in Francia, dove venne trasmesso qualche mese più tardi e dopo non poche perplessità. I giovani furono calamitati da questa novità e in brevissimo tempo esplose una vera e propria Goldrake-mania: una impressionante produzione di merchandising (per lo più taroccato), le sigle del programma divennero hit e perfino i giochi dei bambini (allora ancora si giocava per strada e nei parchi) ne furono modificati. In Francia Antenne 2 raggiunse il fantascientifico share del 100% grazie a «Goldorak» (nome francese della serie, da cui «Goldrake» in italiano) e per il Natale del ’78 i genitori furono costretti addirittura a ricorrere al mercato nero per assicurare ai figli giocattoli legati al robottone giapponese, poiché la domanda superò ogni aspettativa vuotando i magazzini. I ragazzi si immedesimavano nel protagonista Duke Fleed (in italiano e francese Actarus) e le ragazzine se ne innamoravano. C’era qualcosa di male in tutto questo? Con tutta probabilità no, però qualcuno cercò di trovarcelo a tutti i costi. Tanto da noi quanto dai nostri cugini d’oltralpe la paura del nuovo galvanizzò opinionisti e sociologi, pedagoghi e giornalisti, facendo in breve fioccare una pletora di articoli e studi «scientifici» che immancabilmente finivano per collegare la trasmissione di questo programma per ragazzi a tutte le nefandezze del mondo d’allora, dalla droga alle Brigate Rosse. Se la Francia si distinse per la produzione di saggi accademici (di quelli che fanno benedire i tagli alla ricerca scientifica), fu in Italia che si toccò il fondo e nel giro di pochi mesi, fu nientemeno che un parlamentare indipendente di sinistra – Silverio Corvisieri – a dar fuoco alle polveri dalle pagine de «La Repubblica».
Corvisieri – classe 1938 – era allora militante dell’estrema sinistra. Comunista di Democrazia Proletaria, ex Avanguardia Operaia, redattore de «L’Unità», deputato e membro della Commissione di Vigilanza RAI. In anni più vicini a noi si sarebbe poi convertito alla storiografia pubblicando volumi sulle vicende meno note della Resistenza romana, in particolare a quella formazione – Bandiera Rossa – che finì pressoché sterminata alle Ardeatine dopo essere stata sgominata (dietro misteriosa delazione) dalle polizie fasciste e tedesche. Ma prima di darsi alla storiografia, Corvisieri aveva pensato bene di cimentarsi con la sociologia e la pedagogia, e – interpretando in maniera abbastanza savonaroliana il suo ruolo nella Commissione – si era scagliato con un articolo dai toni apocalittici contro la «degenerazione» della TV italiana, di cui Goldrake era il prototipo. L’articolo, infatti, si intitolava «Un ministero per Goldrake», e apparve su «La Repubblica» il 7 gennaio 1979. Corvisieri aveva sfogato così la sua frustrazione per essere rimasto inascoltato in Commissione e alla Camera dai suoi colleghi, forse troppo occupati da altre questioni all’ordine del giorno in quell’inverno 1978-‘79: le Brigate Rosse che ammazzavano a destra e manca, la crisi del petrolio. Il vulnus denunciato da Corvisieri era nel generico disimpegno qualunquista della nostra televisione di Stato, ma che con un cartone come «Goldrake» aveva passato il segno. Infatti «Goldrake» aveva la pretesa di voler trattare aspetti come la difesa della pace, la lotta fra bene e male e l’eroismo guerriero con toni che a Corvisieri proprio non andavano giù: «Goldrake deve sempre affrontare qualche nemico spaziale estremamente malvagio […] Si celebra dai teleschermi, con molta efficacia spettacolare, l’orgia della violenza annientatrice, il culto della delega al grande combattente, la religione delle macchine elettroniche, il rifiuto viscerale del “diverso” […]. In quale modo un genitore può fronteggiare con i poveri mezzi delle sue parole la furia di Goldrake?».
Poco tempo dopo fu l’ex compagna di Palmiro Togliatti e futura Presidente della Camera, la deputata comunista Nilde Iotti (che già negli anni Cinquanta aveva visto il Male Assoluto nei fumetti) ad etichettare come «fascisti» i cartoni giapponesi, chiudendo il cerchio e suggellando quello che Corvisieri aveva fatto solo intravedere fra le righe. Goldrake era «antidemocratico e violentissimo», come Corvisieri avrebbe pervicacemente confermato in un’intervista a «Kappa Magazine» vent’anni dopo.
Un’esagerazione? Senz’altro. Ma questa esagerazione all’epoca smosse tutta l’armata dei mai domi Savonarola italiani, che nel breve volgere di un anno riuscirono a sollevare un polverone. Terminata il 6 gennaio 1980 la trasmissione di Goldrake già il 21 dello stesso mese è addirittura l’ammiraglia Rai Uno a trasmettere un nuovo cartone robotico: si tratta di «Mazinga Z». «Mazinga Z» era il prototipo e capostipite di tutte le serie robotiche ed uno degli anime più amati in Giappone, ma da noi giunse dopo i suoi più perfezionati successori ed epigoni, e non ottenne un gran successo. Ma la proiezione sul Primo Canale gli diede abbastanza visibilità da scatenare le ire di un gruppo di genitori di Imola che, nell’aprile 1980, lanciò una vera e propria crociata. Si raccolsero seicento e rotte firme e si fece un esposto agli allora ministri delle Poste e Telecomunicazioni e della Pubblica Istruzione, alla RAI e all’ANSA, chiedendo l’interruzione delle trasmissioni dei cartoni animati giapponesi in televisione. Il problema era non solo pedagogico, ma – ovviamente – politico (anche se questo punto era l’in cauda venenum dell’esposto): i cartoni giapponesi erano «guerrafondai», lanciavano un messaggio «diseducativo» nel quale la scienza era al «servizio della distruzione». «Davanti a certi programmi per l’infanzia colpisce un uso della scienza e della tecnica, della stessa fantascienza legata alla guerra; strumenti sempre più moderni al servizio di una società dominata da lotte feudali e nelle mani di un uomo che regredisce dominato da bassi istinti di avidità e di dominio». Naturalmente, che il messaggio fondamentale delle serie robotiche dell’epoca fosse esattamente l’opposto, poco importava.
E c’era chi ai benpensanti teneva bordone sulla stampa nazionale, principalmente (ma non solo) di sinistra (con la parziale e lodevole eccezione di «Lotta Continua» che invece titolò «Bambini tenete duro che arriva Goldrake contro i genitori babbalei»): «Il Resto del Carlino» titolava «Topolino è una lettura sana ma Goldrake è il Diavolo»; scandalizzata «L’Unità» del 13 aprile si domandava «Goldrake contro i bambini?», ed «Oggi» soffiava sul fuoco con «Questo Mazinga robotizza i nostri ragazzi». Enzo Tortora invitava i Savonarola imolesi alla trasmissione televisiva «L’altra campana» del 18 aprile 1980, dove – senza contraddittorio e con la claque – i genitori-crociati non ebbero difficoltà a far passare il loro messaggio. Anche lo scrittore Alberto Bevilacqua ne fece una questione politica: i cartoni giapponesi erano diseducativi perché davano allo spettatore «la giustificazione che soltanto i suoi divi siano in grado di liberare i grandi dal terrore di rapine e di BR», continuando poi con la «disumanizzazione» di Mazinga per finire al fatto che, per colpa dei robottoni giapponesi, i figli degli italiani si sarebbero inevitabilmente drogati… Nascevano allora tutti gli stereotipi, alimentati dal pregiudizio razzista contro il Giappone: un mondo disumano e meccanizzato, dove perfino i cartoni non sono disegnati a mano ma col computer (un falso), un mondo dove si celebrano sogni superomistici, violenti, oppure dove sono «tutti orfanelli» e «piangono sempre» e i sentimenti venivano «portati all’eccesso». La ciliegina sulla torta arrivava quando si tirava fuori l’immancabile «e sono stati traumatizzati da Hiroshima».
E forse sullo sfondo c’era anche qualche reminiscenza del Maccartismo: negli anni della Guerra Fredda i film di fantascienza americani dietro gli UFO simboleggiavano la paura dell’invasione comunista. Di conseguenza se Goldrake combatteva gli UFO, di sicuro non era un «compagno»… La psicosi fu tale che cartoni apertamente pacifisti (la serie dei «robottoni» di Go Nagai, che comprende oltre a Goldrake, Mazinga Z, il Grande Mazinga, e i due Jetter Robot, si conclude con queste macchine da guerra, vittoriose sugli invasori spaziali e infernali, che vengono rinchiuse nel Museo della Pace) furono tacciate di essere guerrafondaie e fascistoidi. L’apparente suddivisione elementare fra buoni e cattivi fu equivocata per «paura del diverso» e «razzismo», ignorando totalmente che in Goldrake c’era una visione adulta, complessa, tormentata e quasi «revisionista» dei vilains. Paradossalmente, proprio in quei mesi faceva la sua (breve) comparsa in RAI la serie «Capitan Harlok» («Uchuu kaizoku Kyaputen Harroku», Capitan Harlock, pirata dello Spazio) nella quale le scene più politicamente esplicite vennero censurate per l’edizione italiana. Insomma, se da un lato ci si lamentava di un presunto disimpegno, dall’altro si tagliava a man bassa per la paura di far parlare di politica i ragazzi. Ma il peggio («il peggio del peggio del peggio del peggio del peggio…» come dice icasticamente Timpano) doveva ancora venire…
E venne: il 13 agosto del 1980, quando su «Oggi» un editoriale di Nantas Salvalaggio – classe 1928, cofondatore di «Panorama» – titolava a tutta pagina: «Goldrake ammazza dal video, nessuno si prova a fermarlo». Si trattava di una forzatura basata su un vero fatto di cronaca. Salvalaggio raccontò di un bambino di dodici anni impiccatosi con una corda nel goffo tentativo di imitare i voli di Goldrake. Il fanciullo «ipnotizzato dal satanasso giapponese» non aveva saputo distinguere fra realtà e fantasia, e si era ucciso. Il pezzo terminava con un immaginario colloquio con un parlamentare democristiano, dipinto come un distratto mammone, incapace di prendere la giusta decisione di censurare quegli orrori giapponesi. La leggenda del bambino morto per imitare i cartoni animati in realtà si basava sulla reale tragedia di un ragazzino davvero deceduto per gioco. Ma la meccanica era stata diversa: la piccola vittima era rimasta soffocata da una maschera di stoffa e fil di ferro che si era fabbricata da solo. Troppo poco per impressionare il pubblico,
Caso strano, nel 1980 fu proprio un intellettuale di sinistra – Gianni Rodari – che dalle pagine di «Rinascita» difese a spada tratta «Goldrake»: «Bisognerebbe vedere oggettivamente, liberandoci dai nostri pregiudizi personali, che cos’è per un bambino l’esperienza di Goldrake […] Bisognerebbe chiedersi il perché del loro successo, studiare un sistema di domande da rivolgere ai bambini per sapere le loro opinioni vere, non per suggerire loro delle opinioni, dato che noi spesso facciamo delle inchieste per suggerire ai bambini le nostre risposte […] Invece di polemizzare con Goldrake, cerchiamo di far parlare i bambini di Goldrake, questa specie di Ercole moderno». Lo scrittore aveva colto nel segno. Con Rodari si schierarono Oreste del Buono, Nicoletta Artom e pochi altri. Intanto, in quei mesi, i giornali lanciarono una specie di sondaggio fra Mazinga e Pinocchio, dove il burattino perse con 35 mila preferenze contro 40 mila. Si moltiplicavano nel frattempo le lettere dei ragazzi, addirittura di intere classi, ai giornali: «ve la prendete coi robot, ma poi lasciate in giro i giornaletti porno» si lamentavano i bambini d’allora con gli adulti. Tuttavia, la maturità dei ragazzi degli anni Ottanta non riuscì ad impedire che due mannaie diverse colpissero i loro eroi dopo un decennio d’oro: la prima fu la censura imposta dalle associazioni genitori a RAI e Fininvest. Nella TV di Stato i cartoni giapponesi scomparvero pressoché del tutto, mentre nelle reti berlusconiane finirono letteralmente trifolati per cancellare ogni pruderia. Poi, nel 1990, arrivò come una bomba la legge Mammì, che vietava la pubblicità nei cartoni animati e faceva chiudere le TV locali. Le serie giapponesi divennero economicamente non convenienti e furono sostituite dai telefilm adolescenziali made in USA, che forgiarono una nuova generazione di figli della TV. Il vento cambiò solo a metà anni Novanta, quando i bambini del 1978, cresciuti e con qualche soldo in tasca, riuscirono lentamente ad imporre al mercato di nuovo i propri gusti. Quello che non ebbero da piccoli come cittadini, lo ottennero da grandi come consumatori.
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A cura di Emanuele Mastrangelo