L’Ecuador si
appresta a mettere in vendita la Foresta Amazzonica e lo vuole fare al
meglio, non curandosi della dannosa situazione del territorio, già
massacrato dalle multinazionali del legno e dalle deportazioni di
popolazioni indigene.
Il governo di Quito
sta organizzando degli incontri in diverse capitali straniere per
vendere al massimo le potenzialità energetiche dei terreni. Alcuni
rappresentanti politici dell’Ecuador, in quello che possiamo definire un
vero e proprio tour arrivato alla terza tappa dopo Houston e Parigi, si
è recato a Pechino all’inizio del mese per illustrare l’offerta alle
principali aziende petrolifere cinesi, compresa la China Petrochemical e
la China National Offshore Oil.
«Chiediamo sia alle
compagnie private e sia a quelle statali, di rifiutarsi di partecipare a
questa asta che viola sistematicamente i diritti di sette nazioni
indigene, imponendo esplorazioni petrolifere nei loro territori
ancestrali». Questo è il grido di speranza che le comunità indigene
dell'Ecuador hanno scritto in una lettera aperta. In risposta a questa
lettera, Andrés Donoso Fabara, ministro ecuadoregno per gli Idrocarburi,
ha commentato che i leader della protesta non vogliono fare gli
interessi delle popolazioni, ma al contrario, hanno «un’agenda politica e
non tengono conto dello sviluppo e della lotta alla povertà».
Quito afferma che
gli investimenti cinesi potrebbero contribuire allo sviluppo
dell’economia della comunità locale, ma secondo le comunità indigene,
dietro la scelta fatta dal governo di vendere i territori della foresta,
ci sarebbe la volontà di ripagare a Pechino una parte dei tanti
miliardi di dollari che gli deve. Dal 2009 ad oggi, infatti, la Cina, in
cambio di commesse e petrolio, ha finanziato due infrastrutture
idroelettriche tra le più importanti dell’Ecuador. E in ballo ci sarebbe
anche un progetto da 12,5 miliardi di dollari per la costruzione di una
nuova raffineria.
Secondo
l’organizzazione californiana Amazon Watch, se l’affare andasse in porto
con le multinazionali cinesi, ci troveremmo di fronte ad una violazione
molto grave. Infatti, le linee guida fissate congiuntamente dai
ministri cinesi per l’Ambiente e per il Commercio estero il mese scorso,
sottolineano che gli investimenti stranieri dovrebbero esserci solo
«promuovendo uno sviluppo armonioso dell’economia locale, dell’ambiente e
delle comunità». Cosa che in questo caso non accadrebbe.
Nel febbraio del
2001 una sentenza attesa 17 anni, dopo una battaglia legale iniziata
negli Stati Uniti e rimbalzata da una Nazione all’altra, aveva
dimostrato che le estrazioni di petrolio effettuate nella parte
dell’Amazzonia dell’Ecuador, avevano portato grandi danni alle tribù
indigene delle regioni di Sucumbios e Orellana. La storia iniziò nel
1993 quando l’allora Texaco, poi fuso con Chevron - seconda compagnia
multinazionale petrolifera americana -, a causa delle estrazioni
effettuate tra il 1964 e il 1990, fecero aumentare i casi di malattie
mortali.
La foresta
amazzonica è l’ecosistema più ricco al mondo di specie animali e
vegetali - si contano 75mila tipi di alberi diversi -, ed è già
gravemente minacciata dalla deforestazione. Invece di «stuprare» questi
territori, dovremmo tutelarli il più possibile. Come dovremmo cercare di
tutelare lo stile di vita delle tribù Indios che ci vivono. Il
direttore di «Survival International» ci suggerisce una riflessione
interessante: «Spesso questi popoli (indigeni, ndr) vengono visti come
retrogradi perché vivono in modo diverso dal nostro. Ma è questa stessa
nozione ad essere invece retrograda e incivile».
Nessun commento:
Posta un commento