di Giorgio Ballario (Barbadillo.it)
Se non avesse
incontrato una maledetta pallottola vagante laggiù, in Mozambico, oggi
avrebbe compiuto sessant’anni. E probabilmente sarebbe stato in giro per
il mondo con un taccuino, una videocamera e una macchina fotografica.
Difficile immaginare Almerigo Grilz dietro una scrivania… Il reportage
di guerra era diventato il suo lavoro, ma rimaneva soprattutto una
grande passione.
Nato a Trieste l’11
aprile del 1953, militante e dirigente del locale Fronte della Gioventù
e dell’Msi, nonché consigliere comunale triestino e vicesegretario del
FdG nazionale, Almerigo muove i suoi primi passi da giornalista sul
quindicinale Dissenso, organo del Fronte della Gioventù. Quella che
inizialmente era nata come una naturale conseguenze della sua passione
politica, pian piano si trasforma in una professione. Una professione,
anche in questo caso, fuori dal coro. Perché sui giornali “normali” non
c’è posto per un reporter free-lance fascista, anche se bravo e
coraggioso.
Grilz infatti ama
documentare le guerre dimenticate, quelle trascurate dai giornali e
dalle televisioni italiane, in Paesi lontani dove gli inviati a cinque
stelle non mettono neanche piede. Con due amici-camerati della sezione
triestina del FdG, Fausto Biloslavo e Gian Micalessin, fonda nel 1983 la
Albatross Press Agency, un’agenzia di stampa specializzata in reportage
giornalistici scritti, fotografati e filmati dai fronti caldi di mezzo
mondo: Libano, Afghanistan, Iran, Iraq, Cambogia, Etiopia, Filippine,
Angola. «Per raccogliere il primo gruzzolo e partire per l’Afghanistan,
invaso dai sovietici - racconta Biloslavo – Almerigo vendeva libri di
Ciarrapico, Gian trasportava carta igienica ed io alzavo la sbarra
d’ingresso in un campeggio a Grado. Il nostro inno divenne ben presto
“Vita spericolata” di Vasco Rossi».
Almerigo Grilz è
sempre in prima linea. Con macchina fotografica e videocamera documenta
l’orrore delle guerre civili, le crudeltà delle battaglie che nessuno
vede, il pugno di ferro dell’imperialismo sovietico. Ma anche singoli
atti di eroismo, la speranza di chi non si arrende, la solidarietà. In
Italia è semi sconosciuto, così come la sua agenzia giornalistica, ma
all’estero Grilz comincia a farsi un nome. Acquistano i suoi reportage
le reti americaneCbs e Nbc, la televisione statale tedesca, il Sunday
Times, l’Express. Da noi l’Albatross fa fatica a ottenere contratti: il
marchio di fascista pesa ancora troppo. Solo il Tg1, Panoramae
soprattutto il settimanale ciellino Il Sabato rompono in fronte
“antifascista”.
Nella tarda
primavera del 1987 parte per il suo ultimo reportage. Il 19 maggio un
proiettile vagante lo colpisce in Mozambico, mentre sta filmando uno
scontro a fuoco fra i ribelli della Renamo e le forze governative. E’ il
primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine
della Seconda guerra mondiale, ma sui giornali la notizia viene data in
scarni trafiletti. C’è persino chi aggiunge infamia all’indifferenza:
«Ucciso un mercenario» titola un quotidiano di sinistra, mentre altri
insinuano che si tratti di una spia o di un mercante d’armi. Aveva 34
anni e secondo le sue volontà viene sepolto in Mozambico. Quindici anni
più tardi l’amico Micalessin realizzerà un documentario filmato sui
luoghi della sua morte, montando, insieme alle sue, proprio le immagini
girate da Almerigo fino all’istante stesso della morte.
Il suo nome è
inciso sul monumento che Reporters sans frontières ha voluto dedicare a
tutti i giornalisti caduti sul campo sulle spiagge della Normandia, dove
il mitico fotografo Robert Capa sbarcò nel 1944 con la prima ondata di
truppe alleate. E la sua Trieste gli ha dedicato una via sul lungomare
cittadino. Ma non c’è posto per il nome di Grilz sulla facciata del
palazzo che ospita la sede dell’Ordine dei giornalisti e
dell’Associazione della stampa di Trieste, dove sono collocate le lapidi
che ricordano i giornalisti giuliani caduti nell’esercizio della loro
professione: Marco Luchetta, Sasha Ota e Dario D’Angelo, della Rai,
morti a Mostar durante la guerra civile nell’ex Jugoslavia; e Miran
Hrovatin, ammazzato a Mogadiscio assieme a Ilaria Alpi.
Lo denunciava, in
un lungo articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano del 19 maggio 2007,
proprio Fausto Biloslavo, che di Grilz fu amico, collega e “camerata”.
«Nonostante le ripetute richieste, dei suoi amici e colleghi, l’ultima
in occasione del ventennale (della morte, ndr) – scrive Biloslavo – non
c’è verso di aggiungere una targa per Almerigo, il giornalista
dimenticato. Nel 2002 il Comune di Trieste, conquistato dal
centrodestra, gli dedicò una via sollevando la levata di scudi del
quotidiano locale e di tanti benpensanti. A vent’anni dalla sua morte,
solo l’Ordine dei giornalisti sembra aver iniziato a passare il guado,
con un timido patrocinio delle iniziative che ricordano Grilz, come “Gli
occhi della guerra”. La targa, però, è un tabù difeso a spada tratta
dal sindacato unico dei giornalisti, che in passato riuscì a
giustificare il suo niet sostenendo che una nuova lapide renderebbe la
facciata dello stabile una sorta di orto lapidario».
Insomma, sulla
facciata della sede dei giornalisti triestini non c’è posto per Almerigo
Grilz. Neanche da morto. Fuori dal coro anche in memoriam, verrebbe da
dire. Forse non gli sarebbe spiaciuto poi tanto, visto che “Ruga” – come
lo chiamavano gli amici – ha sempre amato remare controcorrente.
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