sabato 13 aprile 2013

Wounded Knee rischia di andare all’asta. L’ultimo oltraggio agli indiani d’America

“Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardavo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, ancora vedo le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone a zig-zag. Chiaramente come li vidi coi miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, lassù, sulla neve insanguinata, e rimase sepolta sotto la tormenta. Lassù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno… il cerchio della nazione è rotto e i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero sacro è morto”. Le amare parole di Alce Nero chiudono forse il più bel romanzo scritto da Dee Brown sulla storia dei pellerossa, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee.  

Parole che segnano la fine della epopea del West. Con i suoi miti, i racconti, le avventure, il commercio di pellicce, i cercatori di pepite d’oro, le Giacche Blu, gli avventurieri, la costruzione delle ferroivie e delle città di legno, i saloon e le tende avvolgenti delle immese praterie solcate da mandrie di bufali. E’ il volto del Nuovo Mondo che si affaccia all’orizzonte. Il rumore dello sviluppo che romba come un tuono all’orizzonte. Con le sue trasformazioni immense e caotiche. Con la sua rivoluzione industriale che scompagina il vecchio equilibrio ecologico. E’ il nuovo volto dell’America. Dell’Uomo bianco che vive la sua libertà togliendola ad altri. E gli “altri” sono gli indiani. Una presenza, la loro, antistorica, di ostacolo al progredire incessante della “civiltà”.  Almeno così è stata  per tanto tempo rappresentata dai vincitori, come sempre accade quando c’è da scrivere pezzi di storia controversa, segnati da sangue, violenza, rapacità.

Eppure, quella flebile voce dei “vinti” , dei Sioux, dei Navaho, dei Cherokee, degli Apache, non è andata dispersa del tutto. La loro parola ha fatto breccia nel silenzio soffocante calato su quel brutale etnocidio. La narrazione dello sterminio dei pellerossa si è fatto arte nella cinematografia ed icona di un popolo che seppe avere memorabili capi che, nella loro struggente semplicità e mirabile saggezza, seppero prevedere quel che sarebbe accaduto. Vittime e testimoni, al tempo stesso, del prepotente irrompere della scienza e  della tecnica nei processi di civilizzazione dell’umanità.
Ora, a più di un secolo da quegli eventi che cambiarono il Mondo, Wounded Knee, il luogo dell’ultimo massacro, torna a far parlare di sé. Per una complessa storia di successioni quel fazzoletto di terra, dichiarata dal governo americano National Historic Landmark , rischia di andare all’asta. Gli attuali proprietari se ne vogliono disfare. E questa misera storia fa il paio con l’altrettanta irraguardosa vicenda che vede, in questi giorni, messi all’incanto in un asta record a Parigi i cimeli dei nativi americani, gli spiriti sacri degli antenati Hopi. Né le proteste di Robert Redford né la mobilitazione ufficiale dei Dipartimenti americani di Stato sono riusciti a bloccare la “più grande vendita di arte sacra Hopi della storia”. Sicchè, a suon di centinaia di migliaia di dollari, maschere multicolori di epoca antica, decine di copricapo ornati con piume e decorati con pigmenti naturali a richiamare la divinità degli antenati, secondo le credenze degli Hopi, sgominati nel Diciassettesimo secolo dai conquistatores spagnoli, sono finiti in mani  di ricchi collezionisti. Con nessun rispetto per il valore “sacro” di quegli oggetti.

Ed è su questo che varrebbe la pena riflettere. Edonismo, egoismo, spirito speculativo, sono talmente entrati nelle corde dell’umanità da far perdere di vista il significato profondo del “sacro”. Un monumeto, un oggetto che racchiude in sé ricordi, storie, sofferenze, testimonianze, porzioni di vita vissuta, narrazioni di comunità spazzate via dalle guerre degli nuomini, preserva un carattere sacro che lo dovrebbe rendere indisponibile, affidato alla memoria. Sempre che al “sacro” si riesca ancora dare senso e significato. Quale espressione intimamente profonda di quel bisogno dell’essere di credere in qualcosa che superi  la dimensione materialistica della vita. Il Sacro nel suo portato divino. Nella sua “religiosità”. Chiediamoci: c’è spazio ancora, ai nostri giorni, per l’Homo religiosus

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