“Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando
guardavo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia,
ancora vedo le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo
quel burrone a zig-zag. Chiaramente come li vidi coi miei occhi da
giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, lassù, sulla
neve insanguinata, e rimase sepolta sotto la tormenta. Lassù morì il
sogno di un popolo. Era un bel sogno… il cerchio della nazione è rotto e
i suoi frammenti sono sparsi. Il cerchio non ha più centro, e l’albero
sacro è morto”. Le amare parole di Alce Nero chiudono forse il più bel
romanzo scritto da Dee Brown sulla storia dei pellerossa, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee.
Parole che segnano la fine della epopea del West. Con i suoi miti, i
racconti, le avventure, il commercio di pellicce, i cercatori di pepite
d’oro, le Giacche Blu, gli avventurieri, la costruzione delle ferroivie e
delle città di legno, i saloon e le tende avvolgenti delle immese
praterie solcate da mandrie di bufali. E’ il volto del Nuovo Mondo che
si affaccia all’orizzonte. Il rumore dello sviluppo che romba come un
tuono all’orizzonte. Con le sue trasformazioni immense e caotiche. Con
la sua rivoluzione industriale che scompagina il vecchio equilibrio
ecologico. E’ il nuovo volto dell’America. Dell’Uomo bianco che vive la
sua libertà togliendola ad altri. E gli “altri” sono gli indiani. Una
presenza, la loro, antistorica, di ostacolo al progredire incessante
della “civiltà”. Almeno così è stata per tanto tempo rappresentata dai
vincitori, come sempre accade quando c’è da scrivere pezzi di storia
controversa, segnati da sangue, violenza, rapacità.
Eppure, quella flebile voce dei “vinti” , dei Sioux, dei Navaho, dei
Cherokee, degli Apache, non è andata dispersa del tutto. La loro parola
ha fatto breccia nel silenzio soffocante calato su quel brutale
etnocidio. La narrazione dello sterminio dei pellerossa si è fatto arte
nella cinematografia ed icona di un popolo che seppe avere memorabili
capi che, nella loro struggente semplicità e mirabile saggezza, seppero
prevedere quel che sarebbe accaduto. Vittime e testimoni, al tempo
stesso, del prepotente irrompere della scienza e della tecnica nei
processi di civilizzazione dell’umanità.
Ora, a più di un secolo da quegli eventi che cambiarono il Mondo,
Wounded Knee, il luogo dell’ultimo massacro, torna a far parlare di sé.
Per una complessa storia di successioni quel fazzoletto di terra,
dichiarata dal governo americano National Historic Landmark ,
rischia di andare all’asta. Gli attuali proprietari se ne vogliono
disfare. E questa misera storia fa il paio con l’altrettanta
irraguardosa vicenda che vede, in questi giorni, messi all’incanto in un
asta record a Parigi i cimeli dei nativi americani, gli spiriti sacri
degli antenati Hopi. Né le proteste di Robert Redford né la
mobilitazione ufficiale dei Dipartimenti americani di Stato sono
riusciti a bloccare la “più grande vendita di arte sacra Hopi della
storia”. Sicchè, a suon di centinaia di migliaia di dollari, maschere
multicolori di epoca antica, decine di copricapo ornati con piume e
decorati con pigmenti naturali a richiamare la divinità degli antenati,
secondo le credenze degli Hopi, sgominati nel Diciassettesimo secolo dai
conquistatores spagnoli, sono finiti in mani di ricchi collezionisti. Con nessun rispetto per il valore “sacro” di quegli oggetti.
Ed è su questo che varrebbe la pena riflettere. Edonismo, egoismo,
spirito speculativo, sono talmente entrati nelle corde dell’umanità da
far perdere di vista il significato profondo del “sacro”. Un monumeto,
un oggetto che racchiude in sé ricordi, storie, sofferenze,
testimonianze, porzioni di vita vissuta, narrazioni di comunità spazzate
via dalle guerre degli nuomini, preserva un carattere sacro che lo
dovrebbe rendere indisponibile, affidato alla memoria. Sempre che al
“sacro” si riesca ancora dare senso e significato. Quale espressione
intimamente profonda di quel bisogno dell’essere di credere in qualcosa
che superi la dimensione materialistica della vita. Il Sacro nel suo
portato divino. Nella sua “religiosità”. Chiediamoci: c’è spazio ancora,
ai nostri giorni, per l’Homo religiosus
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