venerdì 27 febbraio 2015

Una strana realtà...

di Elisa El Moussawi


Odiernamente ci troviamo a vivere in un mondo composto di pregiudizi e di ipocrisia.
 In seguito a questa premessa è opportuno dare una visione d'insieme su ciò che sta realmente accadendo nei nostri tempi e, in particolar modo, in seguito allo sviluppo tecnologico che ci permette sempre più di venire a conoscenza di determinati fenomeni in modo più immediato e in qualsiasi ora del giorno. Questo processo, di conseguenza, ha portato alla progressiva e continua diffusione dell'informazione.
 Ora mi viene spontanea una domanda: "si tratta davvero di informazione o forse quella che si sta riversando tra i popoli è una sorta di disinformazione?"
 Forse la risposta possiamo ottenerla semplicemente guardando la tv, piena di notiziari, leggendo qualsiasi tipo di quotidiano, accorgendoci alla fine, una sorta di contraddizione.
 Una persona cosciente che si preoccupa di conoscere il vero sa che deve fare riferimento ad altre fonti, magari più attendibili rispetto alle notizie scritte da persone o enti fortemente influenzati dai loro interessi, interessi che poi rappresentano un ostacolo per la diffusione del "vero".

 Se analizziamo un fenomeno attuale come quello dell'ISIS, possiamo vedere che l'opinione dei governi mondiali è "apparentemente" univoca, ovvero, tutti coloro che si trovano dietro il governo definiscono l'ISIS come gruppi terroristici, cosa al quanto evidente data la criminalità che ci hanno dimostrato con i loro sgozzamenti e con le loro atrocità.
 Ora, se il mondo intero è davvero contro questi gruppi terrorstici che sono ormai anni che spargono sangue e terrore nelle "terre dimenticate", come è possibile che continuano ad aumentare e a diventare sempre più forti? Forse c' è qualcuno che ammette davanti al suo popolo che è necessario agire in nome della giustizia, ma sotto sotto sono i primi veri alleati dell'ISIS?
 In realtà il mondo è diviso in due, c'è chi lì appoggia segretamente e chi si rifiuta e rende noto il suo rifiuto entrando in azione o prendendo decisioni appropriate.
 Ma perchè aiutare dei pazzi? In realtà queste persone che si arruolano, i quali si definiscono "islamici" (anche se di fatto non conoscono niente dell'Islam poichè non si può uccidere in nome di una religione, non esiste un Dio che permette tutto ciò) sono spinte da uno spirito combattivo che viene trasmesso loro dai "capi" o da "falsi sceicchi" che in un modo a noi ancora sconosciuto riescono a fare a queste persone un incredibile lavaggio del cervello.

 Ulteriori informazioni su questa individui sono disponibili grazie ad alcuni militanti degli "Hezbullah" o "partito di Dio" che ci hanno lasciato delle testimonianze sul nemico con cui hanno avuto a che fare sul campo di battaglia.
 La maggior parte dei governi occidentali, e gli stessi USA, definiscono gli Hezbullah come terroristi, in fin dei conti la resistenza è sempre stata mal vista dalle persone che comandano e che detengono il potere, la resistenza può rappresentare per loro un vero e proprio pericolo se non addirittura un ostacolo per il raggiungimento dei loro interessi.
 Il partito di Dio rappresenta la resistenza libanese di religione sciita, la quale si occupa di sconfiggere qualsiasi tipo di intrusione militare nel territorio libanese, interviene, perciò, sul fronte israeliano in caso di difesa, ma negli ultimi tempi, i militanti Hezbullah si sono anche spostati a combattere in Siria dove la stuazione è andata sempre più peggiorando, dalla nascita della protesta contro il presidente Bashar-Al-Assad fino ai giorni nostri.
 Molti ragazzi degli Hezbullah hanno affermato che quando si trovavano a dover combattere contro l'Isis, percepivano in loro un'adrenalina spaventosa, dicevano che quando i militanti del partito di Dio sparavano addosso ai terroristi, quelli sanguinavano ma continuavano a correre verso di loro come se non sentissero dolore anche se poi cadevano e morivano.
 Si è poi scoperto che viene data loro un tipo di droga molto forte che gli permette di non percepire il dolore e di continuare a combattere fino all'ultimo delle loro forze, ovvero fin quando non cadono a terra dissanguati.

 In realtà, infatti, i terroristi sono ben organizzati dal punto di vista militare e ciò significa che possiedono dei campi di addestramento che qualcuno mette a loro disposizione.
 Quest'addestramento non può essere avvenuto nel giro di due o tre anni, ma è ben chiaro ed evidente che era già tutto programmato.
 Droghe, armi, campi di addestramento, tutto questo richiede grandi somme di denaro, richiede veri e propri finanziamenti che un solo Stato non è in grado di sostenere, e ciò può essere considerata una delle tante prove per puntare il dito contro alcune potenze europe e soprattutto contro l'America.

 Ma perchè creare questo movimento terroristico e far uccidere chissà quanti civili e provocare paura anche tra gli stessi popoli che senza saperlo sono amici finanziatori dei terroristi? Per rispondere a questa domanda basta fare un piccolo salto nella storia:
 l’ 11 Settembre del 2001, una data memorabile, nessuno può dimenticarla per l'orrore che ha provocato, per i morti, per i lutti avvenuti, per i molti bambini rimasti orfani o di padre o di madre o di entrambi i genitori.

 L'attacco alle torri gemelle da parte di islamici che stranamente quel giorno riuscirono a sorvolare il cielo americano, un cielo non molto, ma estremamente controllato, non solo, quel giorno prima dell'attentato molti voli aerei furono ritardati di qualche minuto, come se volessero evitare che qualcosa andasse storto, come se tutto fosse previsto. Oltretutto gli autori di questa tragedia furono identificati nonostante fossero andati in mille pezzi (beh, non si sa mai, forse la loro carta d'identità rimase intatta). L'importante, però, è che i terroristi fossero islamici e ciò bastò al governo americano per giustificare la guerra in Afghanistan che fu iniziata il 7 ottobre 2001 ed è tutt'ora in corso.

 L'allora presidente Usa, George W.  Bush giustificò l'invasione dell'Afghanistan, nell'ambito del discorso sulla guerra al terrorismo seguito agli attentati dell'11 settembre 2001, con lo scopo di distruggere al-Qaida e catturare o uccidere Osama Bin Laden.
 Il 20 marzo del 2003 la coalizione americana invase l'Iraq perché, come spiegò nel 2003 Bush, l'intento dell'operazione militare era di "disarmare l'Iraq, liberare i suoi abitanti e difendere il mondo da un serio pericolo anche se nel frattempo furono uccisi almeno 134 mila civili iracheni, un numero almeno quattro volte superiore di iracheni in anni di continua instabilità.

 In realtà però non si trattò di una guerra contro il terrorismo o una guerra in nome della libertà come dissero la maggior parte dei notiziari ma si trattò di una "guerra del petrolio".
 Il petrolio, una risorsa preziossissima che però sembra quasi stia per esaurirsi, una risorsa per cui il governo americano non ha risparmiato neanche i suoi cittadini, quindi figuriamoci se avesse avuto pietà per i non americani.

 I Paesi Arabi hanno immense riserve petrolifere e stranamente vengono sempre presi di mira e la guerra in questi territori è sempre stata definita "giusta" .
 Alla base di tutto ciò ci sono quindi questioni di politica, di potere, di denaro. Ma i soldi sono uno strumento, non un fine. Sono un mezzo per avere quelle comodità che ci rendono piacevole quest'avventura che è la vita.

 Calpestare la dignità umana, accettare di mentire a intere generazioni sporcandosi del sangue di altre, non voler sapere la verità per paura sono le tipiche proprietà degli esseri vigliacchi che non meritano neanche di essere considerati umani.

mercoledì 25 febbraio 2015

I pilastri della mediocrità...



di Giovanni Arena (L'Intellettuale Dissidente)

La società, quasi senza rendersene conto, subisce l'influenza dei modelli antropologici e sociali proposti ed imposti dai mezzi di comunicazione di massa, fino ad assumerli.



L’essere umano è il prodotto di ciò che vede, di ciò che fa e di ciò che ascolta. In altre parole, esso è profondamente influenzato, nel suo modo di essere, dalla cultura dominante e dai suoi agenti di diffusione. Non è l’uomo a plasmare la cultura, ma è la cultura a modellare l’essere umano a suo 
piacimento; così non dovrebbe essere.

La televisione, da strumento di diffusione della cultura, dell’informazione e della conoscenza, si è trasformato nel principale veicolo di trasmissione di una cultura della mediocrità, una mediocrità che passa attraverso la rappresentazione e l’esaltazione di modelli negativi. I protagonisti di molti dei programmi televisivi che ci vengono proposti, quali Uomini e Donne, l’Isola dei Famosi, Amici e tanti altri, rappresentano gli starti culturalmente meno elevati della nostra società. La più totale mancanza di padronanza della lingua italiana, il protagonismo esasperato, l’esigenza di mettersi in mostra, l’ostentazione fiera della maleducazione e l’immancabile utilizzo di un vocabolario volgarmente condito sono le principali caratteristiche degli eroi televisivi moderni. Quel che è peggio è che questo stile, se così può essere definito, non è il risultato inevitabile di una scrematura effettuata dagli ideatori del programma televisivo, ma è il tipo umano e sociale appositamente selezionato per raggiungere il picco degli ascolti. La rappresentazione della mediocrità sociale, della volgarità e dei bisticci dietro le quinte nei quali si celebra il funerale della dignità umana, divertono gli ascoltatori, li tengono incollati davanti allo schermo. Ma il passaggio da un sorriso ironico, ad una risata divertita fino ad arrivare ad un’inconsapevole assunzione ed emulazione di questi modelli comportamentali è rapido e veloce. Improvvisamente, diventiamo tutti “Uomini e Donne”, assumiamo lo stesso tono ed utilizziamo lo stesso linguaggio nella vita reale.


Il secondo grande problema è il messaggio che viene trasmesso. Attraverso il filtro dell’uomo medio, i concetti astratti vengono distorti e stravolti. L’amore, l’amicizia, la lealtà, il successo, l’onore, il disonore. Tutto assume un altro significato, un’altra natura. Amore, dunque, è ciò che scoppia come un Big Bang durante un’uscita tra due perfetti sconosciuti, filmata da dieci telecamere posizionate a venti centimetri dal naso. Meglio ancora se i protagonisti dei reality show appartengono al così detto mondo della trasgressione: pornostar, veline, ex calciatori; possibilmente tutti sufficientemente ignoranti. E mentre si piange di commozione dinnanzi a queste fantasiose rappresentazioni dell’amore, dell’eroismo e della bellezza, il messaggio passa, entra a far parte della nostra concezione del mondo e delle relazioni umane. Attraverso il linguaggio e attraverso lo svuotamento del reale significato dei termini, al fine di riempirli di un nuovo significato o di lasciare vuoto il contenitore, questi nuovi saggi della comunicazione indirizzano le emozioni, i desideri, le aspettative, gli obiettivi ed i comportamenti delle nuove generazioni verso una superficiale sintesi di ciò che è realmente l’essere umano e di ciò che esso è in grado di esprimere attraverso le proprie potenzialità. Tutto questo, naturalmente, vive e sopravvive grazie alla ninfa vitale contenuta in un atteggiamento di plauso e di consenso, e nella scontata convinzione di pensare e decidere nella più totale e sacra libertà.

martedì 24 febbraio 2015

Il Califfato alle porte. E qualcuno ha visto la Nato?

di Michele Rallo

(ildiscrimine.com) – Ci siamo: le luttuose bandiere dell’ISIS sventolano sul golfo della Sirte e avanzano verso Tripoli. Ad uscire vincitore nel tribale tutti-contro-tutti seguìto all’assassinio di Gheddafi è stato infine il gruppo più forte, perché meglio armato; e meglio armato perché più ricco; e più ricco perché Qualcuno gli dà i soldi. D’altronde, l’intera vicenda della infame aggressione alla Libia laica e anti-fondamentalista è stata tutta una storia di soldi, un fiume di soldi con cui sono stati creati, reclutati, stipendiati e armati gli “eserciti liberatori” che nel 2011 sono stati lanciati contro le “milizie del regime”. [i virgolettati – naturalmente – sono ispirati al linguaggio dei media occidentali del tempo] E quando, nonostante i petrodollari, i gloriosi eserciti liberatori continuavano a prendere batoste dalle vituperate milizie del bieco regime, ecco il provvidenziale “aiutino” dell’Occidente democratico. Prima i bombardamenti ordinati dal marito di Carla Bruni, poi quelli della NATO decretati dal Premio Nobel “per la pace” Barak Obama, poi quelli addirittura dell’amica Italia, autorevolmente sollecitati da un Napolitano il quale tuonava: «a Gheddafi non sarà consentito di sparare sul suo popolo».

Ma recriminare serve a ben poco. È successo quel che è successo, e adesso siamo a questo punto: con la Libia proclamata una provincia del Califfato dell’ISIS, con l’esercito jihadista accampato a poche miglia da noi, con i barconi di migranti lanciati verso le nostre coste con evidente intento destabilizzatore, con gli oleodotti in fiamme (altro che forniture di gas per l’Italia!), e con certi “immigrati di seconda generazione” (diventati cittadini europei in forza dello ius soli) che operano in guisa di quinte colonne e disseminano attentati dalla Francia al Belgio e alla Danimarca.
Né si creda che il problema riguardi soltanto noi. Se l’ISIS dovesse vincere la sua “guerra di Libia” sarebbe l’intero fianco sud dell’Europa ad essere minacciato: dalla penisola Iberica alla penisola Balcanica, con l’Italia in prima linea – certo – ma con la Francia che ci segue a ruota. E c’è di più: la Libia non è un traguardo per il Califfato, ma un trampolino da cui spiccare il balzo verso i confinanti. Verso l’Egitto, ad est; verso la Tunisia e l’Algeria, ad ovest; verso l’Africa nera, a sud, verso il Ciad e il Niger che confinano – non si dimentichi neanche questo – con la Nigeria minacciata da Boko Aram.

Questo è lo scenario da brividi che i dilettanti americani (con qualche Pierino europeo al sèguito) ci hanno preparato. Perché? Perché non capiscono nulla di geopolitica? Forse. Perché obbediscono ciecamente ai loro alleati mediorientali? Forse. Per la precisa volontà di tenere l’Europa legata ad una NATO che ha ormai soltanto una funzione coloniale? Non vorrei crederlo. Per un mix di tutte queste motivazioni? È probabile.


Sia come sia, è evidente – a questo punto – che qualche cosa si dovrà pur fare per scongiurare che lo scenario di cui sopra abbia realmente a configurarsi. Che cosa? L’Italia – dicono i nostri governanti – «è pronta a fare la sua parte». Ma – aggiungono sùbito dopo – «nel quadro della legalità internazionale». La qualcosa significa – tradotto per i non addetti ai lavori – dopo una convocazione dell’assemblea dell’ONU, dopo una lunga e approfondita analisi dei fatti, dopo la determinazione dell’invio di una forza militare (probabilmente con còmpiti rigorosamente limitati e circoscritti), dopo aver faticosamente raggiunto un accordo sulla partecipazione dei vari contingenti nazionali, sulle catene di comando, eccetera. La qualcosa significa – traduco sempre per i non addetti ai lavori – che le truppe dell’ISIS avranno tutto il tempo di arrivare a Tripoli, forse anche a Tunisi. Nelle more, la Marina Militare italiana potrà ingannare il tempo andando a prelevare, fin sotto le coste libiche, i pattuglioni di profughi che gli jihadisti avranno deciso di mandarci incontro.

giovedì 19 febbraio 2015

Pio Filippani Ronconi: “La vita come bellezza di esprimere sé stessi”...



 tratto da Barbadillo.it
A 5 anni dalla morte, avvenuta l’11 febbraio 2010, riproponiamo questa intervista di Pio Filippani Ronconi.
Erano mesi che lo inseguivo. Non perché scappasse, ma la salute, ultimamente, lo aveva un po’ maltrattato, affaticandolo. Ho aspettato, perché era proprio con lui che volevo avviare alla conclusione il ciclo dei “Miti fondanti”. E alla fine eccolo qua.
Pio Filippani Ronconi, classe 1920, è uno dei più grandi orientalisti viventi, e per elencare i suoi titoli e i suoi meriti avrei bisogno di un foglio allegato. Ma devo aggiungere che, in ogni caso, è arduo mettere su carta una delle qualità più nette di Pio Filippani Ronconi, la presenza, e di ancora più ardua resa è la chiarezza dei suoi silenzi. Ma proverò a raccontarvi tutto.
Filippani è una delle ultime memorie storiche (e sapienziali) delle destre italiane: diversi autori che molti di noi amano leggere, lui li ha conosciuti e ne è stato amico (come Evola, ad esempio, o anche Massimo Scaligero, con il quale Filippani si esercitava nella meditazione: “Era un cammino molto placido, il suo. Conobbi anche il maestro di Scaligero, Giovanni Colazza… Fu molto gentile con me, che al contrario ero poco propenso alla placidità, in quel tempo”).
La sua partecipazione alla guerra con la divisa tedesca non gli procurò problemi a guerra finita – a parte gli arresti di fortezza (“molto poco romantici!”) e il “parcheggio” nel campo di concentramento di Coltano – tanto da poter avviare, nel 1959, una carriera accademica di tutto rispetto all’Istituto orientale dell’Università di Napoli. Poco tempo fa, invece, chiamato a collaborare al “Corriere della Sera”, in qualità di illustre orientalista, ha dovuto subire un’epurazione ad opera del komintern di redazione, con il quale non ha voluto polemizzare (“L’acqua bagna, il fuoco brucia: è il dharma, come lo chiamano gli indiani… sarebbe a dire che ognuno fa le cose con i mezzi che ha. C’è gente che striscia nel fango e non può fare altro che inzaccherarti“). Certe miserie sembrano scivolargli addosso, come si suol dire: ma il bello è che nel suo caso è tutt’altro che un luogo comune.
Da dove è cominciato tutto? Cos’è che porta ancora dentro dell’inizio del cammino?
“Senz’altro i racconti della vita di mio padre… Ecco, vede?” dice indicando una vecchia fotografia appesa al muro dietro di noi, che prende luce dagli ampi viali dell’Eur, “mio padre è quel signore a cavallo. Il luogo dove si trova è la Patagonia. Aveva venduto i beni di famiglia per andare in quella terra sperduta. Portava il bestiame dall’Atlantico al Pacifico, a cavallo. La sua vita stessa era un’avventura da raccontare… Un giorno, aveva appena depositato i soldi incassati dalla vendita di una mandria che aveva portato valicando le Ande, quando i banditi assaltarono la banca, rubando tutto. Lui inseguì il “mucchio selvaggio” per tre giorni e tre notti”.
Come Tex Willer!
“Un Tex Willer con la laurea in Ingegneria. Mio padre rappresentava per noi un polo di grande attrazione. Era un uomo che non si limitava ad insegnarci… che so… l’importanza dell’acqua, ma, anche per la vita che conducevamo, ci mostrava la necessità di raggiungerla anche nelle condizioni più difficili, come quella volta che dovette scavare un pozzo profondo ottantaquattro metri. E i suoi racconti, i racconti di famiglia, sono stati fondamentali per noi, bambini italiani lontani dall’Italia”.
Perché fondamentali?
Perché mentre in patria si è omogenei all’elemento vitale in cui si procede, all’estero avevamo, come dire, una doppia o tripla esistenza. Io son vissuto in Catalogna, e nella vita quotidiana ci trovavamo in un ambiente che da una parte era spagnolo, e già non era il nostro, dall’altra, essendo in terra catalana, si odiavano gli spagnoli, e noi parlavamo il castigliano. E siccome la mia famiglia abitava in un palazzo di sette, otto piani, quindi molto moderno, ero letteralmente circondato da gente che parlava una lingua diversa da quella in cui io pensavo”.
In italiano?
“No, in castigliano”.
I primi libri?
“Cominciai a leggere molto presto. Amavo i racconti sul mondo mitico romano: erano, come dire, un’ancora di salvezza del nostro costume di vita. Ma il nutrimento della mia anima erano le gesta del Cid Campeador, che corrispondevano in tutto e per tutto all’insegnamento silenzioso di mio padre: io sentivo di dovermi comportare come un caballero. Fortunatamente ero nato in un ambiente non confortevole che mi consentiva di temprarmi. Mio padre mi aveva insegnato i principi della boxe… e anche mio figlio ora si diletta in quest’arte… ma nei miei tempi, e nei luoghi dove vivevo, il picchiare forte e picchiare per primo era assolutamente indispensabile, perché se no il giorno dopo mi sarei trovato altri quattro ragazzotti che mi avrebbero riempito di pugni. E in ogni caso ne andava dell’onore italiano!”
Un italiano nato in Spagna, con il padre passato da Inghilterra, Carabi e Patagonia. Non era facile conservare chiarezza sulle proprie radici…
“Non solo! Mia madre aveva iniziato la sua adolescenza a Massaua, dove il padre, mio nonno, lavorava presso il governo militare italiano: lui parlava perfettamente l’arabo classico e l’arabo comune. Non per niente, la prima lingua che ho imparato fuori della scuola, oltre all’inglese, è stato l’arabo”.
A che età?
“Quattordici anni. Eravamo poveri, così avevo risparmiato per un anno gli spiccioli per le piccole merende che portavo a scuola. Alla fine comprai finalmente una malridotta grammatica araba, che però non era quella giusta, era un dialetto parlato dai berberi: mio nonno mi indirizzò poi verso l’arabo puro. Subito dopo imparai il turco e più tardi, già in Italia, imparai il persiano… Ecco, vede? [indica un’altra foto, su una cassettiera, ndr] là sto conversando con lo Sha di Persia”.
Aveva una certa facilità con le lingue.
“Ma non era mica tanto facile! E’ che mi ci mettevo di buzzo buono! La mia giornata era divisa in due parti: la prima era impiegata a seguire la scuola… e non ero un bravo allievo, ero piuttosto sognante, mentre la scuola italiana era estremamente dura: studiavamo lo spagnolo, l’italiano, il francese, l’inglese… tutti i giorni avevamo molto da studiare, molto da fare ginnastica, corsa e altre cose del genere. Nella seconda parte studiavo da solo quel che piaceva a me. Anche il greco lo imparai da solo, come il turco e lo spagnolo antico. Una mia zia mi regalò poi una grammatica sanscrita, un dono preziosissimo; io avevo già studiato, sempre da solo, quelle che erano le migrazioni dei popoli arii, quindi il portato culturale delle varie tradizioni indoeuropee, come l’Edda poetica e in prosa e il sanscrito, mi consentì di approfondire quelle conoscenze. Molti anni più tardi imparai un’altra lingua scandinava, lo svedese, ma avevo già studiato l’antico norvegese, il norreno… Poi, vediamo… l’anglosassone, l’aramaico (ma non sono mai riuscito a togliermi quel fastidioso accento arabo), il tibetano, il cinese, un po’ il giapponese…”
Prendiamo per buono il buzzo buono…
“E’ che non si può galleggiare su quello che ci insegnano: bisogna approfondire!”
Tornando alla difficoltà di conservare le proprie radici in una babele simile…
“Vede, per me l’Italia era… come dire… il Paese Fatato. Eravamo poveri, dicevo, perché scontavamo la scelta di mio padre di tornare dalla Patagonia per combattere: perdette tutto quello che aveva. Lui sapeva quello che rischiava lasciando i suoi animali dall’altra parte del mondo, ma la sua risposta, alle nostre domande se non fosse cosciente di quello che avrebbe rischiato venendo in Italia, lui tranquillamente rispose che ‘siccome noi siamo signori, dobbiamo combattere e dobbiamo essere di esempio agli altri’. C’era il mito della Patria, insomma, ma una patria estremamente spirituale, per cui il non esserle vicino fisicamente non rappresentava alcuna limitazione”.
Suo padre come il Cid.
“Il mio mondo iniziava con il Cid Campeador, visto che lo avevo tra i piedi: era un’immagine di coraggio. Avevo una vita intima in profondo contrasto con la povertà che dovevo assaporare… una vita che guardava ad un futuro eroico. Quando io partii per la seconda volta in guerra, da giovane ufficiale, mi affacciai al finestrino del treno e gridai ‘Viva la muerte!’ Perché la bella morte era quel che di meglio potesse capitare per difendere la Patria… ciò per cui vale la pena di vivere:un uomo si educa per allevare i figli e per combattere, questo avevo sempre pensato fin da bambino, ascoltando i racconti di mio padre e Il cantar del mio Cid”.
Il combattimento, insomma, nel Dna.
“Ma la guerra è una delle funzioni umane! Nei tempi antichi si soleva dire che le dame odiano la guerra, ma amano gli uomini che la fanno”.
E le popolane dicevano che “si nun è bbono per il re, nun è bbono manco pe’ la reggina”.
“Appunto. Inoltre a quindici anni trovai in una bancarella “L’uomo come potenza”, di Julius Evola… Lui mi presentava un quadro per superare la miseria del sopravvivere quotidiano e dava un senso al fatto che io cercassi sempre di combattere… Dio!, sono molto cambiato da allora, eh? L’uomo come potenza, dicevo, mi apriva una concreta esperienza di ordine metafisico più che religioso, e così quei canti epici che tanto amavo acquistavano una dimensione reale: io potevo davvero realizzare quello che la tradizione indoeuropea mi proponeva. E questa fu per me una grande scoperta”.
La guerra fa parte dei racconti che ricorda da bambino?
“Certo. Fu l’esperienza di mio padre ad avvicinarmi a ciò che era la guerra. Lui era un pezzo d’uomo, molto forte… il contrario di me. Come dicevo, lasciò la Patagonia per combattere la Prima guerra mondiale, e si arruolò in un reparto qualunque. Poi, grazie alla sua prestanza fisica, venne assegnato ai ‘plotoni scudati’, quelli che portavano un casco e uno scudo in acciaio per coprirsi, e andavano a mettere le cartucce di gelatina sotto i reticolati nemici. Era il racconto di un’esperienza concreta che ascoltavo con attenzione. Nella Seconda guerra mondiale venne il mio turno, e mi arruolai volontario nel Terzo Granatieri. Fui ferito un paio di volte, poi mi trovai ad essere molto malamente ferito il giorno dopo l’otto settembre 1943, ricoverato all’ospedale militare del Celio, a Roma. Il nove settembre mi resi conto che quello che avevo fatto fino ad allora non era altro che lo sfogo di un giovane studioso ed entusiasta; quello che avevo ancora da fare era qualcosa di molto più vicino all’ideale di uomo”.
Ossia?
“Lavare l’onta del tradimento. Mi trovai a combattere a Nettuno, con la divisa della Waffen SS, i reparti combattenti, tutta un’altra cosa rispetto alla SS Polizei… quelli ci hanno rovinato il nome. Insomma, costituimmo una squadra mista, italiani e tedeschi. Quando ci fu lo sbarco alleato facevo parte del Battaglione degli Oddi, il conte Carlo Federico degli Oddi, un vecchio ufficiale delle camicie nere, tenente colonnello. Al tramonto andavo con alcuni uomini a tagliare i reticolati e passarci sotto… Era un’esperienza molto bella, anche se il fatto di lasciarci la pelle era fatale. Oggi sono l’ultimo sopravvissuto di quel battaglione, l’ultimo di quei settecento: il settanta per cento morirono a Nettuno. Era un compito duro, non pensavamo alla gloria… era la gioia di vivere davvero, malgrado rischiassimo la morte”.
Una fratellanza d’armi.
“Precisamente. Una cosa molto profonda, che mi riportava al cuore le emozioni vissute sulle pagine lette da ragazzino. E’ ancora il Cid Campeador, che… [silenzio, chiude gli occhi, poi ritorna con un sorriso, ndr] ‘Caballero en un caballo – y en su mano un gavilán; por hacerme más enojo – cébalo en mi palomar; con sangre de mis palomas – ensangentó mi brial. ¡Hacedme, buen rey justicia, – no me la queráis negar! Rey que non face justicia – non debía de reinar…’ [poi si ferma di nuovo e chiude gli occhi, scuote la testa e li riapre, guardandomi, ndr]… Che peccato, dimentico più di quel che riesco a ricordare…”
E’ sempre molto di più di quel che sappiamo noi (dico sorridendo a Rodrigo, suo figlio, seduto accanto a me).
“Non è una consolazione, ma tant’è”.
In guerra è riuscito a continuare i suoi studi, in qualche modo?
“Altro che in qualche modo! Riuscivo a concentrarmi dovunque. Tanto per farle capire, una volta, in Africa orientale, uscito in missione per misurare la posizione delle batterie inglesi, mi immersi con tanto piacere nei calcoli riportati sulla pagina scritta che dimenticai di trovarmi a pochi metri dai nemici e mi misi a camminare senza precauzioni: fecero il tiro al bersaglio, fortunatamente senza conseguenze. In seguito, la vicinanza con i tedeschi mi ha permesso d’imparare la loro lingua, che mi è tornata molto utile nel corso degli studi. Seguendo una mia via, poi, senza quasi rendermene conto ho intrapreso la carriera accademica, fino a diventare professore ordinario di Religioni e filosofie dell’India. Il fatto è che avevo un’ottima memoria… E sottolineo la forma passata del verbo avere”.
Laurea in…
“Indologia, tornando al vecchio amore. Subito dopo la laurea andai in Persia”.
Ma il fatto di aver continuato la guerra nella Repubblica sociale, inquadrato nelle SS combattenti, le creava problemi nei rapporti con gli altri studenti e con i professori?
“No. Anche per il fatto molto semplice che non frequentavo molto, ero solitario. Quasi tutte le lingue da studiare, ad esempio, le avevo già imparate da solo, quindi non avevo bisogno di seguire le lezioni”.
E con il lavoro?
“Nemmeno. Avendo la fortuna di conoscere molte lingue riuscivo a GUADAGNARE facendo, ad esempio, un periodo da segretario ad un ministro sudamericano, poi doppiaggi cinematografici e, un po’ più a lungo, alla radiodiffusione per gli Esteri”.
Nel frattempo lavorava su se stesso.
“Sì, in ogni senso, non solo spirituale o mentale. Mio padre mi aveva insegnato i primi rudimenti del pugilato, che lui aveva imparato quando era studente a Londra, e quando ero arrivato a Roma, a sedici anni, ero passato nelle mani di Enzo Fiermonte”.
Un mito per il pugilato romano.
“Ho praticato anche Judo, Aikido… tra l’altro, poco tempo fa, ho guadagnato la cintura nera…”
A quanti anni?
“Ottantadue. E la cintura nera è, in qualche modo, simbolo di una iniziazione. Nel senso che io resto il solito quotidiano imbecille, però dentro di me ho altre esperienze di genere più… più concreto”.
Alcuni anni dopo la fine della guerra ha anche fondato l’Urri, acronimo di Unione rinnovamento ragazzi d’Italia.
“Sì. E l’ho mantenuto. Un impegno forte. Le domeniche le passavamo in montagna, tra escursioni, corsi di alpinismo. La montagna è maestra, e chi sale con te deve essere tuo fratello, perché la sfida alla natura è senza mezze misure o infingimenti: se sbagli paghi. I ragazzi venivano preparati anche in speleologia e archeologia; molti diventarono parà. Un gruppo di ragazzi in gamba, che preparavo anche alla meditazione profonda. Ma che tenni lontani dalle beghe politiche”.
Da cosa era mosso?
“Dalla necessità di riscrivere il mondo, cominciando da me stesso. Cercavo di mettere le mie deboli forze sotto i piedi, perché o si vive o si muore, ma se si vive bisogna darsi un po’ da fare. Esercitarsi col fisico, esercitarsi con la mente, esercitarsi con lo spirito”.
L’Urri riassumeva le due linee guida della sua vita: lo studio e il combattimento.
“Certo, perché a quel tempo era ancora palpabile il rischio di uno scontro fra i due blocchi nati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e la preparazione spirituale doveva andare di pari passo con quella fisica… come peraltro insegnavano i romani. Ma ‘Urri’ non è soltanto una sigla, è soprattutto un termine vedico che indica il dio che sopravvive al tramonto degli dèi. Mi ispirai a questa figura: esser capace di fare qualsiasi cosa. Un po’ in contrasto con questo vecchio malandato che le sta parlando! “
Le pesa la vecchiaia?
“Bah, non me ne importa un fico secco, anche se dimentico molte cose. Ho avuto la possibilità di vivere la poesia, nel senso greco di poiesis, la bellezza di esprimere me stesso in quella che era la vita di un caballero. Ma sono passato attraverso queste esperienze come… come un divertimento”.

A cura di Gabriele Marconi*

lunedì 16 febbraio 2015

La lucida coerenza politica e militante di un documento rivoluzionario. Un invito alla rilettura de La disintegrazione del sistema...





“La considerazione da cui prendiamo le mosse è questa: noi oggi viviamo nel mondo degli altri, circondati dagli altri, da questi degni rappresentanti dell’epoca borghese, sotto il dominio della più squallida e avvilente delle dittature: quella borghese, quella dei mercanti. Tutto quel che ci circonda è borghese: società politica, economia, cultura, famiglia, comportamenti sociali, manifestazioni religiose.”
                                                               (Franco Giorgio Freda)
Di Maurizio Rossi
Sono ormai trascorsi ben quarantacinque anni dalla prima pubblicazione del testo dell’intervento politico-programmatico tenuto da Franco Giorgio Freda alla riunione del comitato di reggenza del Fronte Europeo Rivoluzionario, nella località di Regensburg il 17 agosto 1969.
Eppure, proprio nel momento storico che stiamo attraversando, determinate analisi, segnate da una lucidità e da una durezza disarmanti, potrebbero assumere una valenza costruttiva e riacquistare quella dimensione potentemente propositiva e conseguentemente politica che non avevano potuto, a suo tempo, per molte circostanze, rivelarsi e comprendersi nella loro interezza e originalità. 
Certamente La disintegrazione del sistema ha rappresentato nel tempo una efficace chiave di lettura del radicalismo politico e come tale é stata raffigurata ed analizzata da numerosi osservatori esterni, come interessati giornalisti, intellettuali curiosi e non per ultimo anche inquisitori malevolmente prevenuti, il cui compito non consisteva nell’amministrazione della giustizia,bensì nella sistematica repressione dell’opposizione al Sistema.
Ciò che vale sottolineare, per correttezza storica, rimane senza dubbio la rottura politico-psicologica che le proposte espresse operarono all’interno dell’arcipelago neo-fascista,non solamente nei confronti dell’organismo politico che, per importanza e dimensioni, ne occupava lo spazio, cioè il Movimento Sociale Italiano, ma anche rispetto alle altre formazioni militanti nazional-rivoluzionarie che in concorrenza polemica con la casa madre interagivano nel panorama politico nazionale.
Altresì, anche altri settori intellettualmente più attenti e vivaci subirono la critica dell’autore che, pur partendo da posizioni che potremo definire tout court evoliane, non esitò a far emergere le contraddizioni di coloro che, nonostante avessero assunto con fideismo le riflessioni di Julius Evola, non seppero tradurle in maniera opportuna nell’analisi e nella metodologia.
Purtroppo, si venne ad evidenziare il riflesso incapacitante di un tradizionalismo verbalmente radicale, ma fin troppo conformisticamente vissuto e poi tradotto esclusivamente in una sterile devozione nei confronti degli insegnamenti di Julius Evola.
Sviluppando il suo discorso, in maniera articolata, attraverso vari capitoli – Analisi - La fisionomia del vero Stato – Necessità di una metodologia operativa – L’organizzazione dello Stato popolare – Auspici, La disintegrazione del sistema si manifestò subito e  apertamente come un autentico bando di arruolamento nel campo militante dell’organicismo politico, con tutti i suoi riflessi mitopoietici e metastorici che richiamavano ad una fedele rilettura della filosofia politica di Platone — contestualmente a quel determinato periodo storico — dottrinariamente arricchita attraverso una rilettura puntuale delle idee di Julius Evola, dove la teoria dello Stato organico e i concetti di sovranità, autorità e legittimità erano l’espressione di un fondamento trascendente, di una formazione sovra-ordinata non riconducibile ad una volontà comunque umana, dove il principio spirituale informava di sé in modo efficace i vari domini ignorando le scissioni e le autonomizzazioni del particolare, in quanto la somma delle parti sarebbe sempre meno della Totalità.
Non a caso, proprio Julius Evola, esprimendosi sulle cause del crollo dell’Idea dello Stato, volle precisare che: “Attraverso l’illusione liberalistica giacobina, abbassandosi l’idea della giustificazione dello Stato a quella mercantile e utilitaristica di un contratto sociale, prende forma infatti il Capitalismo moderno e, infine, l’Oligarchia capitalistica, la Plutocrazia, che, in regime parlamentaristico-democratico, finisce col controllare e col dominare la realtà politica — il potere scende cioè a quel che in termini moderni corrisponde al livello della terza casta, all’antica casta dei mercanti. Con l’avvento della borghesia, l’economia viene a dominare su tutta la linea e la supremazia di essa viene apertamente proclamata nei riguardi di ogni sussistente resto dei principi non diciamo spirituali, ma semplicemente etici ancora vivi nel mondo politico occidentale.”
Pertanto, anche alla luce di quanto detto da Julius Evola, spezzare il mefitico dominio politico- economico delle Oligarchie capitalistiche doveva rimanere sempre una fondamentale priorità di ordine politico e militante per le avanguardie nazionalpopolari, quelle maggiormente qualificate a livello ideologico.
Se allora molti acuti osservatori lessero nelle speculazioni intellettuali di Adriano Romualdi una matrice, pur sempre di estrazione evoliana, consequenziale però all’interpretazione dell’opera Gli uomini e le rovine — che svolse un ruolo decisivo nella formazione politica dei militanti dell’area nazional-rivoluzionaria — altri, invece, partendo da considerazioni dettate da necessità operative, valutarono le tesi contenute neLa disintegrazione del sistema come una rappresentazione politica delle categorie dell’Apolitìa espresse nel testo Cavalcare la tigre.
Il concetto di Apolitìa che non voleva certo significare, come spesso si è preferito credere, rifiuto in assoluto dell’azione politica per poi cercare un confortevole riparo nella ricerca esistenziale di una dimensione interiore, significava, invece, mantenere una distanza ferma e decisa dalle volgarizzazioni della politica prodotte all’interno dei meccanismi della società borghese, ma allo stesso tempo manifestare un’altrettanta decisa volontà di riappropriazione della vera dimensione della Politica, nel senso integrale e tradizionale del temine, ovvero una diversa lettura della morfologia della Storia, una radicale critica della natura della modernità borghese, una condanna del mercimonio mondano e debilitante tipico delle democrazie mercantilistiche e, soprattutto, una virile presa di posizione all’insegna della restaurazione del vero Stato, rimarcando la forma e la fisionomia del vero Stato organico, mantenendo come criterio orientativo l’organicismo statuale prefigurato da Platone.
Un impegno politico concreto che contemplava, anche, la necessità di partecipare attivamente alla realtà circostante, attraverso una severa condotta rivoluzionaria ed esemplare, avendo però una attenta cura nel conservare un sovrano distacco interiore anche rispetto ad essa, nel senso proprio di una specifica impersonalità attiva.
E’ proprio nella dottrina del vero Stato che emergeva tutta la radicale proposta del discorso di Freda, tutta la valenza di un tradizionalismo rivoluzionario — poiché Tradizione si coniuga sempre con Rivoluzione, ed il miglior modo per essere dei veri tradizionalisti è quello di essere al contempo dei veri rivoluzionari — che non voleva cedere neppure un metro alle mediazioni della politica borghese, rivendicando la potenza di una visione del mondo, di una autentica eversione contro il Sistema borghese, che doveva essere radicalmente estirpato e di cui nulla doveva rimanere in piedi, né essere salvato.
Tenendo ben presente che la dottrina del vero Stato: “non si propone come fine la ricchezza economica dell’intera società o di un gruppo sociale, ma la felicità, la eudaimonìa del Tutto, e per raggiungerla deve assicurare al massimo grado l’unità dell’organismo politico [...] compaginamento che formi una Totalità in cui ciascuno voglia essere e rimanere al proprio posto, esplicando con coerenza e fedeltà e libertà le inclinazioni conformi alla propria natura”, non si potrà prescindere dal riaffermare quella che fu una ferma ed inequivocabile distanza tra coloro che del tradizionalismo rivoluzionario volevano fare una prassi di lotta politica e le collusioni entriste di coloro che si limitavano a difendere lo status quo dal cosiddetto assalto finale della sovversione, agitando talvolta il mito della rivoluzione: “In chiunque sa ben vedere resterà solo dello stupore nell’accorgersi come si sia creduto di scardinare il mondo borghese affermando proprio le istanze  che lo hanno più univocamente consolidato”.
Pertanto, troviamo nello scritto di Freda una intransigente e compiuta disamina degli stereotipi che, fino ad allora, albergavano sovrani all’estrema destra del Sistema — come anche una disamina dei tanti limiti concettuali e strategici che si riscontravano all’estrema sinistra del Sistema — e una conseguente coerente e legittima critica propositiva che, all’insegna di una adesione totale all’ordine dei valori tradizionali, riaffermava e qualificava l’ordine politico dell’organismo statuale, ricomponendo nel dominio dello Stato la dimensione sacrale e politica che l’azione distruttiva dell’Oligarchia mercantilistica aveva volutamente scisso.
Numerosi paradossi vennero sottoposti al severo e caustico, ma soprattutto impersonale, giudizio di Freda; come poter dimenticare il sarcasmo che avvolgeva coloro che si eranobaloccati con il giocattolo Europa, oppure la messa a nudo di tante intransigenze, la cui indole e sostanza — per la verità molto piccolo-borghese — faceva a pugni con le ipocrisie di una eterogenea  fraseologia pseudo-rivoluzionaria, tanto appariscente quanto inconsistente.
A tutta l’area nazionalpopolare, Franco Giorgio Freda proponeva invece di compiere un salto ideologico di qualità, affinché potesse emergere una matura coscienza politica che portasse a riconoscere la saldatura tradizionale e al contempo rivoluzionaria contenuta nella negazione totale del Sistema — luogo di baricentratura politico-sociale dell’Oligarchia capitalistica e terreno di coltura e di riproduzione dell’usurpato potere della borghesia — tramite l’affermazione della dottrina dello Stato, la cui corretta derivazione dalla Politeia platonica veniva illustrata ed evidenziata dallo stesso: “Lo Stato non é quindi che l’immagine ingrandita della persona e come l’essenza della persona risulta ordinata dalla Virtù che conferisce armonia alla e altre virtù, così sul medesimo principio è fondato lo Stato. Lo Stato é insomma la persona stessa, costituisce la sua anima più vasta., di modo ché non esiste alcun rapporto di alterità tra cittadino e Stato: lo Stato ponendosi come immagine dell’anima individuale ad un livello diverso, e le virtù dell’anima possedendo valenze etiche e politiche contemporaneamente”.
La corretta articolazione verticale e gerarchica dello Stato che operava la riconnessione al sovra-mondo, evocando tramite la giustizianell’anima — pertanto nel corpo sociale anima espansa della nazione — la riappropriazione della dimensione divina che é elevazione al superumano: le virtù civiche e politiche intese come apertura al Sacro, al bene assoluto, poiché come lo stesso Platone insegnava, il compiere ogni sforzo per diventare uominigiusti significava tensione nell’uniformarsi al divino, adesione all’ordine politico incarnante gerarchicamente stabilità in senso spirituale, per cui equivalente all’espressione etica della Totalità come Comunità organica.
Questa funzione anagogica necessitava per forza di cose dell’apporto di uomini differenziati e qualificati da ethos assoluto, di autentici custodi dell’orizzonte, consci che la disciplina mentale, la disciplina dello spirito, il rimando alla Cultura integrale e ad una composta tenuta comportamentale, dovevano essere i tratti che avrebbero sostanziato una nuova tipologia umana. Occorreva il compiersi di una rivoluzione antropologica dell’essere.
Le figure che sarebbero dovute emergere e manifestarsi erano quelle dei Soldati Politici, che responsabilmente si situavano sulla linea del fronte e del conflitto — trasposizione strategica e politica della concezione della piccola e della grande Guerra santa — ritrovando così se stessi, la propria identità e la consapevolezza del proprio ruolo di guida — ovvero di avanguardia di popolo —  ponendosi a presidio di un orizzonte politico e di lotta ideale: “Non verso il cielo ma verso la terra; non contro la terra ma contro i nemici del cielo, che risultano poi i nemici della terra”.
Non si trattava più di masse informi e senza volto, così funzionali alla riproduzione della società borghese, ma di Comunità organiche. Non più di individui isolati, cellule impazzite dell’atomizzazione egualitaria, si doveva parlare, né tantomeno di turbe aggregate, bensì di Uomini-membri dello Stato, responsabilmente differenziati secondo organiche articolazioni e partecipi del destino dello Stato.
La consapevolezza di tutto questo portava logicamente ad individuare nella struttura capitalistica della società borghese l’ostacolo principale da superare; anche su questo argomento la critica si faceva globale e radicale, mettendo in discussione numerosi assiomi, fino a quel momento, consolidati nell’estrema destra, le tante certezze relative ad una acritica difesa dell’Occidente — emisfero geopolitico comprendente ormai l’Europa sconfitta e colonizzata, la NATO, gli USA e l’entità sionista — e quindi delle democrazie borghesi in funzione esclusivamente anti-comunista: “Nelle democrazie «occidentali» lo spettacolo che ci si para dinanzi è vincolato da una rivoltante coerenza ai canoni più ortodossi della concezione di vita borghese. In queste democrazie, l’organizzazione del potere serve a mantenere immutato, attraverso i più vari strumenti oppressivi e repressivi, il rapporto egemonico di una classe — quella dei borghesi, e, particolarmente, di una parte di essa, quella costituitasi in oligarchia plutocratica — sul popolo. Il supporto esclusivamente classista su cui esse si fondano non permette realtà e valori diversi da quelli economici: la dittatura borghese, emersa vittoriosa secondo un processo di potenziamento e di intensificazione egemonica dalla rivoluzione francese, conserva da circa duecento anni inalterato l’unico vincolo che leghi il borghese a un uomo: vincolo che è da padrone a servo, da sfruttatore a sfruttato.”
Autodecisione politica, autodeterminazione nazionale, sostegno militante alle lotte popolari anti-imperialiste — non a caso Franco Giorgio Freda sarà tra i primi in assoluto, nel 1969, ad esprimere una viva e concreta solidarietà politica alla legittima e rivoluzionaria lotta anti-sionista del popolo palestinese, precisando inoltre che: “alla luce di una situazione storica mondiale per cui il guerrigliero latino- americano aderisce alla nostra visione del mondo molto più dello spagnolo infeudato ai preti e agli USA; per cui il popolo guerriero del Nord-Vietnam, col suo stile sobrio, spartano, eroico di vita, è molto più affine alla nostra figura dell’esistenza che il budello italiota o franzoso o tedesco-occidentale; per cui il terrorista palestinese è più vicino alle nostre vendette dell’inglese (europeo? ma io ne dubito!) giudeo o giudaizzato.”— abbattimento del meccanismo di produzione capitalistico, denuncia della vigliacca sottomissione alla potenza imperialista statunitense e ripristino della piena sovranità politica, divengono, grazie alle proposte contenute ne La disintegrazione del sistema, efficaci parole d’ordine spendibili e mobilitanti.
Non mancheranno nemmeno le prese di posizione e di denuncia nei confronti della menzognera Holocaustica Religio, attraverso la pubblicazione, nel 1963, del libretto intitolato Gruppo di Ar, nelle cui pagine, oltre ad una puntuale critica della propaganda sterminazionista, vennero pure evidenziati i crimini commessi dai sionisti nella Palestina occupata.
La stessa proposta rivoluzionaria ed operativa riguardante l’adozione di un ordinamentocomunistico dell’economia con relativa soppressione della proprietà privata — in quanto doveva essere radicalmente bonificato il terreno di coltura dell’infezione borghese — rappresenterà la pietra dello scandalo per certi ambienti.
Nella necessità della scelta della disciplina comunisticadelle questioni economiche e sociali si trovava la giustificazione dottrinaria del principio radicalmente anti-individualistico e comunitario, dove il singolo individuo doveva essere fondamentalmente vincolato gerarchicamente al primato politico della Comunità, ponendo con determinazione l’accento sulla dicotomia da sempre esistente tra la concezione organica, solidaristica e militante della Comunità nazionale e popolare e la concezione borghese, contrattualistica, individualista e meccanicistica della società liberale, ampliando e approfondendo in una forma più completa e dettagliata quegli elementi che erano stati alla base delle riflessioni del sociologo Ferdinand Tönnies, il quale volendo appunto spiegare la sostanziale differenza intercorrente tra la concezione organica della Comunità e quella contrattualistica della Società, giunse alla formulazione della seguente considerazione:“La teoria della Società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla Comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella Comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella Società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono.”
Anche su questo delicato argomento Franco Giorgio Freda apparve lucido e coerente, illustrando che non vi poteva essere alcuna contraddizione politica e valoriale tra l’affermazione del principio fondante dell’organicità tradizionale dello Stato e del suo retto ordinamento gerarchico e l’adozione consequenziale di una drastica terapia disintossicante certamente emergenziale e dettata dalla drammaticità della situazione generale — andava estirpato il cancro che diffondeva l’infezione borghese nel corpo sociale della nazione — corrispondente all’adozione di uno specifico Comunismodorico, gerarchico, spartano e severamente castrense di evidente natura platonica, dove la sobrietà e la disciplina della forma politica evocava i tratti di una scuola militare dell’anima — la cui dimensione comunitaria annoverava numerosi richiami alle letture di Senofonte relative all’ordinamento degli spartani, all’opera legislativa di Licurgo e soprattutto alla concezione dellaPoliteia platonica: “Le ricchezze materiali, tutte le ricchezze materiali; devono venire assolutamente subordinate allo Stato perché esse servono allo Stato nel suo momento organizzativo; perché, dovendo il vero Stato essere svincolato da tali preoccupazioni, é necessario situarlo in uno spazio reso libero da quelle prevaricazioni che la detenzione delle ricchezze nelle mani di un gruppo oligarchico di potere economico determina inevitabilmente”.
Lo stesso progetto organizzativo dello Stato popolare evidenziava, proprio nella sua disarmante essenzialità, la corretta aderenza al principio politico puro in stretta osservanza della Weltanschauung Tradizionale, ovvero lo scardinare radicalmente e definitivamente il meccanismo-Gesellschaft, propiziando così il sorgere del corretto ordinamento statuale della Comunità di popolo, ripristinando la forma e la struttura dell’organismo-Gemeinschaft.
La stessa adozione operativa e profilattica della terapia comunistica assolveva esclusivamente alla urgente necessità di ripristinare la salute del corretto equilibrio economico dello Stato, affinché la comunità di popolo, una volta liberata dallo sfruttamento borghese e dalla tirannia delle leggi economiche capitalistiche — e quindi totalmente al di fuori dei confini dell’artificiosa dialettica borghesia/proletariato — potesse riacquistare la sua totale pienezza di vita, pienezza spirituale, culturale e politica, e l’armonia propria di un Organismo vivente, attraverso un normale svilupparsi di vincoli di servizio, rapporti camerateschi, solidaristici e anti-utilitaristici tra i suoi membri.
Queste parole ortodosse di critica anti-egualitaria, anti-democratica e anti-capitalistica della società borghese hanno fatto pertanto de La disintegrazione del sistema un classico del pensiero politico contemporaneo; sviluppato e pronunciato probabilmente in un’epoca precoce, forse, non adatta alla riflessione che meritava.
Una riflessione che dovrà però tornare ad emergere proprio adesso, nella stagione dominata dal cosiddetto pensiero debole, contrassegnata dall’inquietante prospettiva di un mondo globalizzato che tutto tracima in una logica perversa di consumo, alienazione e sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sempre sulla pelle dei popoli, dove una criminale demagogia cosmopolita, pianificata dalla Sinarchia mondialista, spingendo l’acceleratore dell’invasione migratoria vuole cancellare con un colpo di spugna le tante identità culturali e storiche dei popoli e delle nazioni.
Saranno proprio le numerose ingiustizie e le inevitabili contraddizioni dell’imperfetto meccanismo liberista imperante a restituire attualità al messaggio contenuto nelle pagine de La disintegrazione del sistema, le cui analisi in prospettiva potrebbero anche dare luogo ad inaspettate risposte e spregiudicate formulazioni politiche, con le quali un ambiente realmente nazionalpopolare potrebbe sostanziare ulteriormente la propria volontà di antagonismo e di lotta al fine di cicatrizzare definitivamente le ferite profonde prodotte dalla società borghese e annunciarne, finalmente, il dissolvimento.