“La considerazione da cui prendiamo le mosse è questa: noi oggi viviamo nel mondo degli altri, circondati dagli altri, da questi degni rappresentanti dell’epoca borghese, sotto il dominio della più squallida e avvilente delle dittature: quella borghese, quella dei mercanti. Tutto quel che ci circonda è borghese: società politica, economia, cultura, famiglia, comportamenti sociali, manifestazioni religiose.”
(Franco Giorgio Freda)
Sono ormai trascorsi ben quarantacinque anni dalla prima pubblicazione del testo dell’intervento politico-programmatico tenuto da Franco Giorgio Freda alla riunione del comitato di reggenza del Fronte Europeo Rivoluzionario, nella località di Regensburg il 17 agosto 1969.
Eppure, proprio nel momento storico che stiamo attraversando, determinate analisi, segnate da una lucidità e da una durezza disarmanti, potrebbero assumere una valenza costruttiva e riacquistare quella dimensione potentemente propositiva e conseguentemente politica che non avevano potuto, a suo tempo, per molte circostanze, rivelarsi e comprendersi nella loro interezza e originalità.
Certamente La disintegrazione del sistema ha rappresentato nel tempo una efficace chiave di lettura del radicalismo politico e come tale é stata raffigurata ed analizzata da numerosi osservatori esterni, come interessati giornalisti, intellettuali curiosi e non per ultimo anche inquisitori malevolmente prevenuti, il cui compito non consisteva nell’amministrazione della giustizia,bensì nella sistematica repressione dell’opposizione al Sistema.
Ciò che vale sottolineare, per correttezza storica, rimane senza dubbio la rottura politico-psicologica che le proposte espresse operarono all’interno dell’arcipelago neo-fascista,non solamente nei confronti dell’organismo politico che, per importanza e dimensioni, ne occupava lo spazio, cioè il Movimento Sociale Italiano, ma anche rispetto alle altre formazioni militanti nazional-rivoluzionarie che in concorrenza polemica con la casa madre interagivano nel panorama politico nazionale.
Altresì, anche altri settori intellettualmente più attenti e vivaci subirono la critica dell’autore che, pur partendo da posizioni che potremo definire tout court evoliane, non esitò a far emergere le contraddizioni di coloro che, nonostante avessero assunto con fideismo le riflessioni di Julius Evola, non seppero tradurle in maniera opportuna nell’analisi e nella metodologia.
Purtroppo, si venne ad evidenziare il riflesso incapacitante di un tradizionalismo verbalmente radicale, ma fin troppo conformisticamente vissuto e poi tradotto esclusivamente in una sterile devozione nei confronti degli insegnamenti di Julius Evola.
Sviluppando il suo discorso, in maniera articolata, attraverso vari capitoli – Analisi - La fisionomia del vero Stato – Necessità di una metodologia operativa – L’organizzazione dello Stato popolare – Auspici, La disintegrazione del sistema si manifestò subito e apertamente come un autentico bando di arruolamento nel campo militante dell’organicismo politico, con tutti i suoi riflessi mitopoietici e metastorici che richiamavano ad una fedele rilettura della filosofia politica di Platone — contestualmente a quel determinato periodo storico — dottrinariamente arricchita attraverso una rilettura puntuale delle idee di Julius Evola, dove la teoria dello Stato organico e i concetti di sovranità, autorità e legittimità erano l’espressione di un fondamento trascendente, di una formazione sovra-ordinata non riconducibile ad una volontà comunque umana, dove il principio spirituale informava di sé in modo efficace i vari domini ignorando le scissioni e le autonomizzazioni del particolare, in quanto la somma delle parti sarebbe sempre meno della Totalità.
Non a caso, proprio Julius Evola, esprimendosi sulle cause del crollo dell’Idea dello Stato, volle precisare che: “Attraverso l’illusione liberalistica giacobina, abbassandosi l’idea della giustificazione dello Stato a quella mercantile e utilitaristica di un contratto sociale, prende forma infatti il Capitalismo moderno e, infine, l’Oligarchia capitalistica, la Plutocrazia, che, in regime parlamentaristico-democratico, finisce col controllare e col dominare la realtà politica — il potere scende cioè a quel che in termini moderni corrisponde al livello della terza casta, all’antica casta dei mercanti. Con l’avvento della borghesia, l’economia viene a dominare su tutta la linea e la supremazia di essa viene apertamente proclamata nei riguardi di ogni sussistente resto dei principi non diciamo spirituali, ma semplicemente etici ancora vivi nel mondo politico occidentale.”
Pertanto, anche alla luce di quanto detto da Julius Evola, spezzare il mefitico dominio politico- economico delle Oligarchie capitalistiche doveva rimanere sempre una fondamentale priorità di ordine politico e militante per le avanguardie nazionalpopolari, quelle maggiormente qualificate a livello ideologico.
Se allora molti acuti osservatori lessero nelle speculazioni intellettuali di Adriano Romualdi una matrice, pur sempre di estrazione evoliana, consequenziale però all’interpretazione dell’opera Gli uomini e le rovine — che svolse un ruolo decisivo nella formazione politica dei militanti dell’area nazional-rivoluzionaria — altri, invece, partendo da considerazioni dettate da necessità operative, valutarono le tesi contenute neLa disintegrazione del sistema come una rappresentazione politica delle categorie dell’Apolitìa espresse nel testo Cavalcare la tigre.
Il concetto di Apolitìa che non voleva certo significare, come spesso si è preferito credere, rifiuto in assoluto dell’azione politica per poi cercare un confortevole riparo nella ricerca esistenziale di una dimensione interiore, significava, invece, mantenere una distanza ferma e decisa dalle volgarizzazioni della politica prodotte all’interno dei meccanismi della società borghese, ma allo stesso tempo manifestare un’altrettanta decisa volontà di riappropriazione della vera dimensione della Politica, nel senso integrale e tradizionale del temine, ovvero una diversa lettura della morfologia della Storia, una radicale critica della natura della modernità borghese, una condanna del mercimonio mondano e debilitante tipico delle democrazie mercantilistiche e, soprattutto, una virile presa di posizione all’insegna della restaurazione del vero Stato, rimarcando la forma e la fisionomia del vero Stato organico, mantenendo come criterio orientativo l’organicismo statuale prefigurato da Platone.
Un impegno politico concreto che contemplava, anche, la necessità di partecipare attivamente alla realtà circostante, attraverso una severa condotta rivoluzionaria ed esemplare, avendo però una attenta cura nel conservare un sovrano distacco interiore anche rispetto ad essa, nel senso proprio di una specifica impersonalità attiva.
E’ proprio nella dottrina del vero Stato che emergeva tutta la radicale proposta del discorso di Freda, tutta la valenza di un tradizionalismo rivoluzionario — poiché Tradizione si coniuga sempre con Rivoluzione, ed il miglior modo per essere dei veri tradizionalisti è quello di essere al contempo dei veri rivoluzionari — che non voleva cedere neppure un metro alle mediazioni della politica borghese, rivendicando la potenza di una visione del mondo, di una autentica eversione contro il Sistema borghese, che doveva essere radicalmente estirpato e di cui nulla doveva rimanere in piedi, né essere salvato.
Tenendo ben presente che la dottrina del vero Stato: “non si propone come fine la ricchezza economica dell’intera società o di un gruppo sociale, ma la felicità, la eudaimonìa del Tutto, e per raggiungerla deve assicurare al massimo grado l’unità dell’organismo politico [...] compaginamento che formi una Totalità in cui ciascuno voglia essere e rimanere al proprio posto, esplicando con coerenza e fedeltà e libertà le inclinazioni conformi alla propria natura”, non si potrà prescindere dal riaffermare quella che fu una ferma ed inequivocabile distanza tra coloro che del tradizionalismo rivoluzionario volevano fare una prassi di lotta politica e le collusioni entriste di coloro che si limitavano a difendere lo status quo dal cosiddetto assalto finale della sovversione, agitando talvolta il mito della rivoluzione: “In chiunque sa ben vedere resterà solo dello stupore nell’accorgersi come si sia creduto di scardinare il mondo borghese affermando proprio le istanze che lo hanno più univocamente consolidato”.
Pertanto, troviamo nello scritto di Freda una intransigente e compiuta disamina degli stereotipi che, fino ad allora, albergavano sovrani all’estrema destra del Sistema — come anche una disamina dei tanti limiti concettuali e strategici che si riscontravano all’estrema sinistra del Sistema — e una conseguente coerente e legittima critica propositiva che, all’insegna di una adesione totale all’ordine dei valori tradizionali, riaffermava e qualificava l’ordine politico dell’organismo statuale, ricomponendo nel dominio dello Stato la dimensione sacrale e politica che l’azione distruttiva dell’Oligarchia mercantilistica aveva volutamente scisso.
Numerosi paradossi vennero sottoposti al severo e caustico, ma soprattutto impersonale, giudizio di Freda; come poter dimenticare il sarcasmo che avvolgeva coloro che si eranobaloccati con il giocattolo Europa, oppure la messa a nudo di tante intransigenze, la cui indole e sostanza — per la verità molto piccolo-borghese — faceva a pugni con le ipocrisie di una eterogenea fraseologia pseudo-rivoluzionaria, tanto appariscente quanto inconsistente.
A tutta l’area nazionalpopolare, Franco Giorgio Freda proponeva invece di compiere un salto ideologico di qualità, affinché potesse emergere una matura coscienza politica che portasse a riconoscere la saldatura tradizionale e al contempo rivoluzionaria contenuta nella negazione totale del Sistema — luogo di baricentratura politico-sociale dell’Oligarchia capitalistica e terreno di coltura e di riproduzione dell’usurpato potere della borghesia — tramite l’affermazione della dottrina dello Stato, la cui corretta derivazione dalla Politeia platonica veniva illustrata ed evidenziata dallo stesso: “Lo Stato non é quindi che l’immagine ingrandita della persona e come l’essenza della persona risulta ordinata dalla Virtù che conferisce armonia alla e altre virtù, così sul medesimo principio è fondato lo Stato. Lo Stato é insomma la persona stessa, costituisce la sua anima più vasta., di modo ché non esiste alcun rapporto di alterità tra cittadino e Stato: lo Stato ponendosi come immagine dell’anima individuale ad un livello diverso, e le virtù dell’anima possedendo valenze etiche e politiche contemporaneamente”.
La corretta articolazione verticale e gerarchica dello Stato che operava la riconnessione al sovra-mondo, evocando tramite la giustizianell’anima — pertanto nel corpo sociale anima espansa della nazione — la riappropriazione della dimensione divina che é elevazione al superumano: le virtù civiche e politiche intese come apertura al Sacro, al bene assoluto, poiché come lo stesso Platone insegnava, il compiere ogni sforzo per diventare uominigiusti significava tensione nell’uniformarsi al divino, adesione all’ordine politico incarnante gerarchicamente stabilità in senso spirituale, per cui equivalente all’espressione etica della Totalità come Comunità organica.
Questa funzione anagogica necessitava per forza di cose dell’apporto di uomini differenziati e qualificati da ethos assoluto, di autentici custodi dell’orizzonte, consci che la disciplina mentale, la disciplina dello spirito, il rimando alla Cultura integrale e ad una composta tenuta comportamentale, dovevano essere i tratti che avrebbero sostanziato una nuova tipologia umana. Occorreva il compiersi di una rivoluzione antropologica dell’essere.
Le figure che sarebbero dovute emergere e manifestarsi erano quelle dei Soldati Politici, che responsabilmente si situavano sulla linea del fronte e del conflitto — trasposizione strategica e politica della concezione della piccola e della grande Guerra santa — ritrovando così se stessi, la propria identità e la consapevolezza del proprio ruolo di guida — ovvero di avanguardia di popolo — ponendosi a presidio di un orizzonte politico e di lotta ideale: “Non verso il cielo ma verso la terra; non contro la terra ma contro i nemici del cielo, che risultano poi i nemici della terra”.
Non si trattava più di masse informi e senza volto, così funzionali alla riproduzione della società borghese, ma di Comunità organiche. Non più di individui isolati, cellule impazzite dell’atomizzazione egualitaria, si doveva parlare, né tantomeno di turbe aggregate, bensì di Uomini-membri dello Stato, responsabilmente differenziati secondo organiche articolazioni e partecipi del destino dello Stato.
La consapevolezza di tutto questo portava logicamente ad individuare nella struttura capitalistica della società borghese l’ostacolo principale da superare; anche su questo argomento la critica si faceva globale e radicale, mettendo in discussione numerosi assiomi, fino a quel momento, consolidati nell’estrema destra, le tante certezze relative ad una acritica difesa dell’Occidente — emisfero geopolitico comprendente ormai l’Europa sconfitta e colonizzata, la NATO, gli USA e l’entità sionista — e quindi delle democrazie borghesi in funzione esclusivamente anti-comunista: “Nelle democrazie «occidentali» lo spettacolo che ci si para dinanzi è vincolato da una rivoltante coerenza ai canoni più ortodossi della concezione di vita borghese. In queste democrazie, l’organizzazione del potere serve a mantenere immutato, attraverso i più vari strumenti oppressivi e repressivi, il rapporto egemonico di una classe — quella dei borghesi, e, particolarmente, di una parte di essa, quella costituitasi in oligarchia plutocratica — sul popolo. Il supporto esclusivamente classista su cui esse si fondano non permette realtà e valori diversi da quelli economici: la dittatura borghese, emersa vittoriosa secondo un processo di potenziamento e di intensificazione egemonica dalla rivoluzione francese, conserva da circa duecento anni inalterato l’unico vincolo che leghi il borghese a un uomo: vincolo che è da padrone a servo, da sfruttatore a sfruttato.”
Autodecisione politica, autodeterminazione nazionale, sostegno militante alle lotte popolari anti-imperialiste — non a caso Franco Giorgio Freda sarà tra i primi in assoluto, nel 1969, ad esprimere una viva e concreta solidarietà politica alla legittima e rivoluzionaria lotta anti-sionista del popolo palestinese, precisando inoltre che: “alla luce di una situazione storica mondiale per cui il guerrigliero latino- americano aderisce alla nostra visione del mondo molto più dello spagnolo infeudato ai preti e agli USA; per cui il popolo guerriero del Nord-Vietnam, col suo stile sobrio, spartano, eroico di vita, è molto più affine alla nostra figura dell’esistenza che il budello italiota o franzoso o tedesco-occidentale; per cui il terrorista palestinese è più vicino alle nostre vendette dell’inglese (europeo? ma io ne dubito!) giudeo o giudaizzato.”— abbattimento del meccanismo di produzione capitalistico, denuncia della vigliacca sottomissione alla potenza imperialista statunitense e ripristino della piena sovranità politica, divengono, grazie alle proposte contenute ne La disintegrazione del sistema, efficaci parole d’ordine spendibili e mobilitanti.
Non mancheranno nemmeno le prese di posizione e di denuncia nei confronti della menzognera Holocaustica Religio, attraverso la pubblicazione, nel 1963, del libretto intitolato Gruppo di Ar, nelle cui pagine, oltre ad una puntuale critica della propaganda sterminazionista, vennero pure evidenziati i crimini commessi dai sionisti nella Palestina occupata.
La stessa proposta rivoluzionaria ed operativa riguardante l’adozione di un ordinamentocomunistico dell’economia con relativa soppressione della proprietà privata — in quanto doveva essere radicalmente bonificato il terreno di coltura dell’infezione borghese — rappresenterà la pietra dello scandalo per certi ambienti.
Nella necessità della scelta della disciplina comunisticadelle questioni economiche e sociali si trovava la giustificazione dottrinaria del principio radicalmente anti-individualistico e comunitario, dove il singolo individuo doveva essere fondamentalmente vincolato gerarchicamente al primato politico della Comunità, ponendo con determinazione l’accento sulla dicotomia da sempre esistente tra la concezione organica, solidaristica e militante della Comunità nazionale e popolare e la concezione borghese, contrattualistica, individualista e meccanicistica della società liberale, ampliando e approfondendo in una forma più completa e dettagliata quegli elementi che erano stati alla base delle riflessioni del sociologo Ferdinand Tönnies, il quale volendo appunto spiegare la sostanziale differenza intercorrente tra la concezione organica della Comunità e quella contrattualistica della Società, giunse alla formulazione della seguente considerazione:“La teoria della Società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla Comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella Comunità essi restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella Società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono.”
Anche su questo delicato argomento Franco Giorgio Freda apparve lucido e coerente, illustrando che non vi poteva essere alcuna contraddizione politica e valoriale tra l’affermazione del principio fondante dell’organicità tradizionale dello Stato e del suo retto ordinamento gerarchico e l’adozione consequenziale di una drastica terapia disintossicante certamente emergenziale e dettata dalla drammaticità della situazione generale — andava estirpato il cancro che diffondeva l’infezione borghese nel corpo sociale della nazione — corrispondente all’adozione di uno specifico Comunismodorico, gerarchico, spartano e severamente castrense di evidente natura platonica, dove la sobrietà e la disciplina della forma politica evocava i tratti di una scuola militare dell’anima — la cui dimensione comunitaria annoverava numerosi richiami alle letture di Senofonte relative all’ordinamento degli spartani, all’opera legislativa di Licurgo e soprattutto alla concezione dellaPoliteia platonica: “Le ricchezze materiali, tutte le ricchezze materiali; devono venire assolutamente subordinate allo Stato perché esse servono allo Stato nel suo momento organizzativo; perché, dovendo il vero Stato essere svincolato da tali preoccupazioni, é necessario situarlo in uno spazio reso libero da quelle prevaricazioni che la detenzione delle ricchezze nelle mani di un gruppo oligarchico di potere economico determina inevitabilmente”.
Lo stesso progetto organizzativo dello Stato popolare evidenziava, proprio nella sua disarmante essenzialità, la corretta aderenza al principio politico puro in stretta osservanza della Weltanschauung Tradizionale, ovvero lo scardinare radicalmente e definitivamente il meccanismo-Gesellschaft, propiziando così il sorgere del corretto ordinamento statuale della Comunità di popolo, ripristinando la forma e la struttura dell’organismo-Gemeinschaft.
La stessa adozione operativa e profilattica della terapia comunistica assolveva esclusivamente alla urgente necessità di ripristinare la salute del corretto equilibrio economico dello Stato, affinché la comunità di popolo, una volta liberata dallo sfruttamento borghese e dalla tirannia delle leggi economiche capitalistiche — e quindi totalmente al di fuori dei confini dell’artificiosa dialettica borghesia/proletariato — potesse riacquistare la sua totale pienezza di vita, pienezza spirituale, culturale e politica, e l’armonia propria di un Organismo vivente, attraverso un normale svilupparsi di vincoli di servizio, rapporti camerateschi, solidaristici e anti-utilitaristici tra i suoi membri.
Queste parole ortodosse di critica anti-egualitaria, anti-democratica e anti-capitalistica della società borghese hanno fatto pertanto de La disintegrazione del sistema un classico del pensiero politico contemporaneo; sviluppato e pronunciato probabilmente in un’epoca precoce, forse, non adatta alla riflessione che meritava.
Una riflessione che dovrà però tornare ad emergere proprio adesso, nella stagione dominata dal cosiddetto pensiero debole, contrassegnata dall’inquietante prospettiva di un mondo globalizzato che tutto tracima in una logica perversa di consumo, alienazione e sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sempre sulla pelle dei popoli, dove una criminale demagogia cosmopolita, pianificata dalla Sinarchia mondialista, spingendo l’acceleratore dell’invasione migratoria vuole cancellare con un colpo di spugna le tante identità culturali e storiche dei popoli e delle nazioni.
Saranno proprio le numerose ingiustizie e le inevitabili contraddizioni dell’imperfetto meccanismo liberista imperante a restituire attualità al messaggio contenuto nelle pagine de La disintegrazione del sistema, le cui analisi in prospettiva potrebbero anche dare luogo ad inaspettate risposte e spregiudicate formulazioni politiche, con le quali un ambiente realmente nazionalpopolare potrebbe sostanziare ulteriormente la propria volontà di antagonismo e di lotta al fine di cicatrizzare definitivamente le ferite profonde prodotte dalla società borghese e annunciarne, finalmente, il dissolvimento.