giovedì 19 febbraio 2015

Pio Filippani Ronconi: “La vita come bellezza di esprimere sé stessi”...



 tratto da Barbadillo.it
A 5 anni dalla morte, avvenuta l’11 febbraio 2010, riproponiamo questa intervista di Pio Filippani Ronconi.
Erano mesi che lo inseguivo. Non perché scappasse, ma la salute, ultimamente, lo aveva un po’ maltrattato, affaticandolo. Ho aspettato, perché era proprio con lui che volevo avviare alla conclusione il ciclo dei “Miti fondanti”. E alla fine eccolo qua.
Pio Filippani Ronconi, classe 1920, è uno dei più grandi orientalisti viventi, e per elencare i suoi titoli e i suoi meriti avrei bisogno di un foglio allegato. Ma devo aggiungere che, in ogni caso, è arduo mettere su carta una delle qualità più nette di Pio Filippani Ronconi, la presenza, e di ancora più ardua resa è la chiarezza dei suoi silenzi. Ma proverò a raccontarvi tutto.
Filippani è una delle ultime memorie storiche (e sapienziali) delle destre italiane: diversi autori che molti di noi amano leggere, lui li ha conosciuti e ne è stato amico (come Evola, ad esempio, o anche Massimo Scaligero, con il quale Filippani si esercitava nella meditazione: “Era un cammino molto placido, il suo. Conobbi anche il maestro di Scaligero, Giovanni Colazza… Fu molto gentile con me, che al contrario ero poco propenso alla placidità, in quel tempo”).
La sua partecipazione alla guerra con la divisa tedesca non gli procurò problemi a guerra finita – a parte gli arresti di fortezza (“molto poco romantici!”) e il “parcheggio” nel campo di concentramento di Coltano – tanto da poter avviare, nel 1959, una carriera accademica di tutto rispetto all’Istituto orientale dell’Università di Napoli. Poco tempo fa, invece, chiamato a collaborare al “Corriere della Sera”, in qualità di illustre orientalista, ha dovuto subire un’epurazione ad opera del komintern di redazione, con il quale non ha voluto polemizzare (“L’acqua bagna, il fuoco brucia: è il dharma, come lo chiamano gli indiani… sarebbe a dire che ognuno fa le cose con i mezzi che ha. C’è gente che striscia nel fango e non può fare altro che inzaccherarti“). Certe miserie sembrano scivolargli addosso, come si suol dire: ma il bello è che nel suo caso è tutt’altro che un luogo comune.
Da dove è cominciato tutto? Cos’è che porta ancora dentro dell’inizio del cammino?
“Senz’altro i racconti della vita di mio padre… Ecco, vede?” dice indicando una vecchia fotografia appesa al muro dietro di noi, che prende luce dagli ampi viali dell’Eur, “mio padre è quel signore a cavallo. Il luogo dove si trova è la Patagonia. Aveva venduto i beni di famiglia per andare in quella terra sperduta. Portava il bestiame dall’Atlantico al Pacifico, a cavallo. La sua vita stessa era un’avventura da raccontare… Un giorno, aveva appena depositato i soldi incassati dalla vendita di una mandria che aveva portato valicando le Ande, quando i banditi assaltarono la banca, rubando tutto. Lui inseguì il “mucchio selvaggio” per tre giorni e tre notti”.
Come Tex Willer!
“Un Tex Willer con la laurea in Ingegneria. Mio padre rappresentava per noi un polo di grande attrazione. Era un uomo che non si limitava ad insegnarci… che so… l’importanza dell’acqua, ma, anche per la vita che conducevamo, ci mostrava la necessità di raggiungerla anche nelle condizioni più difficili, come quella volta che dovette scavare un pozzo profondo ottantaquattro metri. E i suoi racconti, i racconti di famiglia, sono stati fondamentali per noi, bambini italiani lontani dall’Italia”.
Perché fondamentali?
Perché mentre in patria si è omogenei all’elemento vitale in cui si procede, all’estero avevamo, come dire, una doppia o tripla esistenza. Io son vissuto in Catalogna, e nella vita quotidiana ci trovavamo in un ambiente che da una parte era spagnolo, e già non era il nostro, dall’altra, essendo in terra catalana, si odiavano gli spagnoli, e noi parlavamo il castigliano. E siccome la mia famiglia abitava in un palazzo di sette, otto piani, quindi molto moderno, ero letteralmente circondato da gente che parlava una lingua diversa da quella in cui io pensavo”.
In italiano?
“No, in castigliano”.
I primi libri?
“Cominciai a leggere molto presto. Amavo i racconti sul mondo mitico romano: erano, come dire, un’ancora di salvezza del nostro costume di vita. Ma il nutrimento della mia anima erano le gesta del Cid Campeador, che corrispondevano in tutto e per tutto all’insegnamento silenzioso di mio padre: io sentivo di dovermi comportare come un caballero. Fortunatamente ero nato in un ambiente non confortevole che mi consentiva di temprarmi. Mio padre mi aveva insegnato i principi della boxe… e anche mio figlio ora si diletta in quest’arte… ma nei miei tempi, e nei luoghi dove vivevo, il picchiare forte e picchiare per primo era assolutamente indispensabile, perché se no il giorno dopo mi sarei trovato altri quattro ragazzotti che mi avrebbero riempito di pugni. E in ogni caso ne andava dell’onore italiano!”
Un italiano nato in Spagna, con il padre passato da Inghilterra, Carabi e Patagonia. Non era facile conservare chiarezza sulle proprie radici…
“Non solo! Mia madre aveva iniziato la sua adolescenza a Massaua, dove il padre, mio nonno, lavorava presso il governo militare italiano: lui parlava perfettamente l’arabo classico e l’arabo comune. Non per niente, la prima lingua che ho imparato fuori della scuola, oltre all’inglese, è stato l’arabo”.
A che età?
“Quattordici anni. Eravamo poveri, così avevo risparmiato per un anno gli spiccioli per le piccole merende che portavo a scuola. Alla fine comprai finalmente una malridotta grammatica araba, che però non era quella giusta, era un dialetto parlato dai berberi: mio nonno mi indirizzò poi verso l’arabo puro. Subito dopo imparai il turco e più tardi, già in Italia, imparai il persiano… Ecco, vede? [indica un’altra foto, su una cassettiera, ndr] là sto conversando con lo Sha di Persia”.
Aveva una certa facilità con le lingue.
“Ma non era mica tanto facile! E’ che mi ci mettevo di buzzo buono! La mia giornata era divisa in due parti: la prima era impiegata a seguire la scuola… e non ero un bravo allievo, ero piuttosto sognante, mentre la scuola italiana era estremamente dura: studiavamo lo spagnolo, l’italiano, il francese, l’inglese… tutti i giorni avevamo molto da studiare, molto da fare ginnastica, corsa e altre cose del genere. Nella seconda parte studiavo da solo quel che piaceva a me. Anche il greco lo imparai da solo, come il turco e lo spagnolo antico. Una mia zia mi regalò poi una grammatica sanscrita, un dono preziosissimo; io avevo già studiato, sempre da solo, quelle che erano le migrazioni dei popoli arii, quindi il portato culturale delle varie tradizioni indoeuropee, come l’Edda poetica e in prosa e il sanscrito, mi consentì di approfondire quelle conoscenze. Molti anni più tardi imparai un’altra lingua scandinava, lo svedese, ma avevo già studiato l’antico norvegese, il norreno… Poi, vediamo… l’anglosassone, l’aramaico (ma non sono mai riuscito a togliermi quel fastidioso accento arabo), il tibetano, il cinese, un po’ il giapponese…”
Prendiamo per buono il buzzo buono…
“E’ che non si può galleggiare su quello che ci insegnano: bisogna approfondire!”
Tornando alla difficoltà di conservare le proprie radici in una babele simile…
“Vede, per me l’Italia era… come dire… il Paese Fatato. Eravamo poveri, dicevo, perché scontavamo la scelta di mio padre di tornare dalla Patagonia per combattere: perdette tutto quello che aveva. Lui sapeva quello che rischiava lasciando i suoi animali dall’altra parte del mondo, ma la sua risposta, alle nostre domande se non fosse cosciente di quello che avrebbe rischiato venendo in Italia, lui tranquillamente rispose che ‘siccome noi siamo signori, dobbiamo combattere e dobbiamo essere di esempio agli altri’. C’era il mito della Patria, insomma, ma una patria estremamente spirituale, per cui il non esserle vicino fisicamente non rappresentava alcuna limitazione”.
Suo padre come il Cid.
“Il mio mondo iniziava con il Cid Campeador, visto che lo avevo tra i piedi: era un’immagine di coraggio. Avevo una vita intima in profondo contrasto con la povertà che dovevo assaporare… una vita che guardava ad un futuro eroico. Quando io partii per la seconda volta in guerra, da giovane ufficiale, mi affacciai al finestrino del treno e gridai ‘Viva la muerte!’ Perché la bella morte era quel che di meglio potesse capitare per difendere la Patria… ciò per cui vale la pena di vivere:un uomo si educa per allevare i figli e per combattere, questo avevo sempre pensato fin da bambino, ascoltando i racconti di mio padre e Il cantar del mio Cid”.
Il combattimento, insomma, nel Dna.
“Ma la guerra è una delle funzioni umane! Nei tempi antichi si soleva dire che le dame odiano la guerra, ma amano gli uomini che la fanno”.
E le popolane dicevano che “si nun è bbono per il re, nun è bbono manco pe’ la reggina”.
“Appunto. Inoltre a quindici anni trovai in una bancarella “L’uomo come potenza”, di Julius Evola… Lui mi presentava un quadro per superare la miseria del sopravvivere quotidiano e dava un senso al fatto che io cercassi sempre di combattere… Dio!, sono molto cambiato da allora, eh? L’uomo come potenza, dicevo, mi apriva una concreta esperienza di ordine metafisico più che religioso, e così quei canti epici che tanto amavo acquistavano una dimensione reale: io potevo davvero realizzare quello che la tradizione indoeuropea mi proponeva. E questa fu per me una grande scoperta”.
La guerra fa parte dei racconti che ricorda da bambino?
“Certo. Fu l’esperienza di mio padre ad avvicinarmi a ciò che era la guerra. Lui era un pezzo d’uomo, molto forte… il contrario di me. Come dicevo, lasciò la Patagonia per combattere la Prima guerra mondiale, e si arruolò in un reparto qualunque. Poi, grazie alla sua prestanza fisica, venne assegnato ai ‘plotoni scudati’, quelli che portavano un casco e uno scudo in acciaio per coprirsi, e andavano a mettere le cartucce di gelatina sotto i reticolati nemici. Era il racconto di un’esperienza concreta che ascoltavo con attenzione. Nella Seconda guerra mondiale venne il mio turno, e mi arruolai volontario nel Terzo Granatieri. Fui ferito un paio di volte, poi mi trovai ad essere molto malamente ferito il giorno dopo l’otto settembre 1943, ricoverato all’ospedale militare del Celio, a Roma. Il nove settembre mi resi conto che quello che avevo fatto fino ad allora non era altro che lo sfogo di un giovane studioso ed entusiasta; quello che avevo ancora da fare era qualcosa di molto più vicino all’ideale di uomo”.
Ossia?
“Lavare l’onta del tradimento. Mi trovai a combattere a Nettuno, con la divisa della Waffen SS, i reparti combattenti, tutta un’altra cosa rispetto alla SS Polizei… quelli ci hanno rovinato il nome. Insomma, costituimmo una squadra mista, italiani e tedeschi. Quando ci fu lo sbarco alleato facevo parte del Battaglione degli Oddi, il conte Carlo Federico degli Oddi, un vecchio ufficiale delle camicie nere, tenente colonnello. Al tramonto andavo con alcuni uomini a tagliare i reticolati e passarci sotto… Era un’esperienza molto bella, anche se il fatto di lasciarci la pelle era fatale. Oggi sono l’ultimo sopravvissuto di quel battaglione, l’ultimo di quei settecento: il settanta per cento morirono a Nettuno. Era un compito duro, non pensavamo alla gloria… era la gioia di vivere davvero, malgrado rischiassimo la morte”.
Una fratellanza d’armi.
“Precisamente. Una cosa molto profonda, che mi riportava al cuore le emozioni vissute sulle pagine lette da ragazzino. E’ ancora il Cid Campeador, che… [silenzio, chiude gli occhi, poi ritorna con un sorriso, ndr] ‘Caballero en un caballo – y en su mano un gavilán; por hacerme más enojo – cébalo en mi palomar; con sangre de mis palomas – ensangentó mi brial. ¡Hacedme, buen rey justicia, – no me la queráis negar! Rey que non face justicia – non debía de reinar…’ [poi si ferma di nuovo e chiude gli occhi, scuote la testa e li riapre, guardandomi, ndr]… Che peccato, dimentico più di quel che riesco a ricordare…”
E’ sempre molto di più di quel che sappiamo noi (dico sorridendo a Rodrigo, suo figlio, seduto accanto a me).
“Non è una consolazione, ma tant’è”.
In guerra è riuscito a continuare i suoi studi, in qualche modo?
“Altro che in qualche modo! Riuscivo a concentrarmi dovunque. Tanto per farle capire, una volta, in Africa orientale, uscito in missione per misurare la posizione delle batterie inglesi, mi immersi con tanto piacere nei calcoli riportati sulla pagina scritta che dimenticai di trovarmi a pochi metri dai nemici e mi misi a camminare senza precauzioni: fecero il tiro al bersaglio, fortunatamente senza conseguenze. In seguito, la vicinanza con i tedeschi mi ha permesso d’imparare la loro lingua, che mi è tornata molto utile nel corso degli studi. Seguendo una mia via, poi, senza quasi rendermene conto ho intrapreso la carriera accademica, fino a diventare professore ordinario di Religioni e filosofie dell’India. Il fatto è che avevo un’ottima memoria… E sottolineo la forma passata del verbo avere”.
Laurea in…
“Indologia, tornando al vecchio amore. Subito dopo la laurea andai in Persia”.
Ma il fatto di aver continuato la guerra nella Repubblica sociale, inquadrato nelle SS combattenti, le creava problemi nei rapporti con gli altri studenti e con i professori?
“No. Anche per il fatto molto semplice che non frequentavo molto, ero solitario. Quasi tutte le lingue da studiare, ad esempio, le avevo già imparate da solo, quindi non avevo bisogno di seguire le lezioni”.
E con il lavoro?
“Nemmeno. Avendo la fortuna di conoscere molte lingue riuscivo a GUADAGNARE facendo, ad esempio, un periodo da segretario ad un ministro sudamericano, poi doppiaggi cinematografici e, un po’ più a lungo, alla radiodiffusione per gli Esteri”.
Nel frattempo lavorava su se stesso.
“Sì, in ogni senso, non solo spirituale o mentale. Mio padre mi aveva insegnato i primi rudimenti del pugilato, che lui aveva imparato quando era studente a Londra, e quando ero arrivato a Roma, a sedici anni, ero passato nelle mani di Enzo Fiermonte”.
Un mito per il pugilato romano.
“Ho praticato anche Judo, Aikido… tra l’altro, poco tempo fa, ho guadagnato la cintura nera…”
A quanti anni?
“Ottantadue. E la cintura nera è, in qualche modo, simbolo di una iniziazione. Nel senso che io resto il solito quotidiano imbecille, però dentro di me ho altre esperienze di genere più… più concreto”.
Alcuni anni dopo la fine della guerra ha anche fondato l’Urri, acronimo di Unione rinnovamento ragazzi d’Italia.
“Sì. E l’ho mantenuto. Un impegno forte. Le domeniche le passavamo in montagna, tra escursioni, corsi di alpinismo. La montagna è maestra, e chi sale con te deve essere tuo fratello, perché la sfida alla natura è senza mezze misure o infingimenti: se sbagli paghi. I ragazzi venivano preparati anche in speleologia e archeologia; molti diventarono parà. Un gruppo di ragazzi in gamba, che preparavo anche alla meditazione profonda. Ma che tenni lontani dalle beghe politiche”.
Da cosa era mosso?
“Dalla necessità di riscrivere il mondo, cominciando da me stesso. Cercavo di mettere le mie deboli forze sotto i piedi, perché o si vive o si muore, ma se si vive bisogna darsi un po’ da fare. Esercitarsi col fisico, esercitarsi con la mente, esercitarsi con lo spirito”.
L’Urri riassumeva le due linee guida della sua vita: lo studio e il combattimento.
“Certo, perché a quel tempo era ancora palpabile il rischio di uno scontro fra i due blocchi nati dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e la preparazione spirituale doveva andare di pari passo con quella fisica… come peraltro insegnavano i romani. Ma ‘Urri’ non è soltanto una sigla, è soprattutto un termine vedico che indica il dio che sopravvive al tramonto degli dèi. Mi ispirai a questa figura: esser capace di fare qualsiasi cosa. Un po’ in contrasto con questo vecchio malandato che le sta parlando! “
Le pesa la vecchiaia?
“Bah, non me ne importa un fico secco, anche se dimentico molte cose. Ho avuto la possibilità di vivere la poesia, nel senso greco di poiesis, la bellezza di esprimere me stesso in quella che era la vita di un caballero. Ma sono passato attraverso queste esperienze come… come un divertimento”.

A cura di Gabriele Marconi*

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