di Mario Michele Merlino
Mio padre, pur nato a Roma agli inizi del Novecento (il 23 gennaio del ’05), era profondamente legato alla sua origine piemontese. Di Torino, anzi di palazzo Carignano teneva a precisare. Suo padre, funzionario del Ministero del Tesoro, ricordava come, dalle finestrelle interne del palazzo, dove abitava, avesse assistito ad una delle prime sedute del Parlamento quando Giuseppe Garibaldi, così in contrasto con il suo poncho di vari colori rispetto alla funerea sobrietà degli altri deputati, si scagliasse verbalmente contro il conte Benso di Cavour per aver ceduto Nizza ai francesi di Napoleone III. E di come quest’ultimo lasciasse l’aula da una porticina laterale mentre in piazza la folla lo contestava. Famiglia, dunque, radicata nel tessuto sabaudo. Mi sembra che il padre di mio nonno fosse maestro di scherma del sovrano dopo essere stato, per diversi anni, capobanda di non so quale reparto militare. (Aneddoto tramandato: mentre faceva ruotare in alto la mazza con un bel pomello di cristallo all’entrata della città di Asti, un ragazzino gli tagliò la strada facendogli perdere il passo e, con grande suo disappunto e suppongo con grandi risate dei presenti, la mazza cadde a terra frantumandosi…). Poi, seguendo il processo unitario, il trasferimento a Firenze, dove mio nonno prese moglie, ed infine l’arrivo a Roma, prendendo casa non lontano da Porta Pia e via XX Settembre, sede del Ministero.
Nel 1915, entrando l’Italia nella Grande Guerra, intesa in famiglia come ulteriore compimento del processo risorgimentale (del resto fu così per i più e così volle intenderla successivamente il Fascismo), mio nonno, da interventista monarchico, mise alla parete della cucina la carta geografica dell’Italia al fronte e, tramite i bollettini di guerra trasmessi alla radio, affidava a mio padre, ragazzino di dieci anni, il compito di spostare le bandierine colorate. Suo fratello più grande evitò le trincee le pietraie del Carso i pidocchi e magari una schioppettata asburgica per un improvviso e provvidenziale attacco di pleurite, di cui – va riconosciuto – si vergognò per tutti i suoi novantasei anni di vita. Esperienza, quella di mio padre, che lo segnò per l’amore verso la storia, il Risorgimento e la Prima Guerra Mondiale in particolare. (A Riccione nel letto dell’ospedale, dove sarebbe morto nel giro di un mese, gli altri ricoverati lo credevano un generale perché, nei momenti di lucidità, i pensieri si rivolgevano sovente a quegli avvenimenti anche perché suo figlio, il sottoscritto, era rientrato da Gorizia, commissario esterno degli esami di maturità, quando al confine s’era combattuto dopo il disfacimento della Jugoslavia, luglio 1991. E ben intuiva che m’ero fatto spettatore dei carri armati andati a fuoco al valico di Case Rosse e sceso in Croazia a ‘ragionare’ di quel conflitto, odio di tutti contro tutti. Così le sue ultime parole furono per correggermi sui porti d’Albania dove, nel 1916, la flotta italiana trasse in salvo quanto restava dell’esercito serbo incalzato dagli austriaci).
Questo suo radicamento nella storia patria, coniugato con la tradizione familiare (mio nonno si mangiò gran parte dei suoi risparmi in buoni del tesoro per finanziare la guerra e, va da sé, svalutati), gli dettava sinceri sentimenti monarchici – i Savoia artefici dell’Unità nazionale (nonostante rispettasse le figure del Mazzini e di quanti auspicassero una soluzione altra, i fratelli Bandiera e Carlo Pisacane e Garibaldi) -, consapevole, a suo dire, che quella era stata l’unica via praticabile per un paese, il nostro, diviso e soggetto all’influenza di troppi interessi stranieri – Francia ed Inghilterra non avrebbero mai consentito una affermazione radicale e democratica. La storia e le storie… mi duole per il fascino che esercitano i Borboni, soprattutto i ‘briganti’ come Carmine Crocco, e, nell’ambito anche familiare il mio prozio, Emanuele Merlino, detto Lele, redattore dell’Avanti di Torino, medium, amico del Mussolini socialista a cui, diventato il Duce, chiedeva e otteneva piccoli sostegni economici!
Ricordo come da ragazzino mi portò ad assistere, in piazza Esedra, alle esequie del filosofo Benedetto Croce di cui mi rimane impressa la bara con sopra il tricolore e il berretto piumato da bersagliere e un comizio di Carlo Delcroix, mutilato di guerra, grande oratore, candidato per il partito monarchico, la cui figlia è stata la moglie di Giano Accame. Una grande partecipazione di gente all’ombra del Colosseo. Qui, credo, ebbi la prima lezione di politica. Mi disse come vi sono partiti che sanno suscitare emozioni coinvolgimento, come appunto quello a cui assistevo, ma che poi si riducevano alle urne in quanti erano presenti, mentre la D.C. aveva le piazze vuote ma poi vinceva a mani basse. Altrimenti detto: ormai non era più la piazza a rendere visibile il consenso (piazza Venezia e, successivamente, piazzale Loreto insegnavano!), ma la capacità di rispondere ai bisogni concreti della gente, magari anche i modo truffaldino, come abbiamo assistito in questi decenni. (Va aggiunto che, per onestà intellettuale sua, mi portò anche a un comizio dove mi rimase impresso lo sventolio di bandiere rosse – socialisti o comunisti, chissà…).
Monarchico, dunque, considerando la sua istituzione capace di rappresentare un asse di continuità che non appartiene al modello repubblicano, nonostante il singolo sovrano e le sue colpe (egli era consapevole del tradimento e viltà di Vittorio Emanuele III con il 25 luglio e, soprattutto, l’8 settembre, e non ne faceva mistero). E votava in nome di questa fedeltà ideale, almeno per anni, dividendosi tra il partito monarchico e quello liberale. Così, durante il referendum istituzionale del 2 giugno ’46. E ben sapeva come il referendum fosse viziato da troppi brogli e prevaricazioni, soprattutto nel Nord Italia, per cui non la Repubblica sarebbe uscita vincitrice se le elezioni avessero potuto seguire i canoni della trasparenza e correttezza. Aggiungeva, però, una riflessione che mostrava la capacità di saper distinguere il mondo valoriale dall’analisi serena che si dovrebbe avere di fronte agli accadimenti storici (lo scrivo e, al contempo, lo smentisco perché io sono e voglio essere ‘fazioso’, pensando alla storia in modo nietzscheano se non alla Gramsci).
M’è tornata a mente in questi giorni quando i riti stantii, ormai fini a se stessi, del sistema parlamentare hanno riproposto l’elezione del dodicesimo presidente nella ‘persona’ di Sergio Mattarella. Diceva mio padre che un presidente della repubblica può essere eletto anche con un modesto consenso e il disincanto dell’opinione pubblica mentre un sovrano necessita del riconoscimento di gran parte del popolo. Il re incarna la Nazione (proprio perché venne meno alla parola data molti decisero di prendere le armi in nome dell’Onore, dopo ‘l’ignobil 8 di settembre’!); il presidente della repubblica rappresenta le istituzioni… e le istituzioni (le Leggi), secondo la definizione di Socrate, ‘possono essere persuase’… Così, se la monarchia avesse vinto, non avrebbe trionfato, perché lo scarto di voti sarebbe stato comunque esiguo.
Concordo, nonostante non abbia mai coltivato sentimenti monarchici e, tanto meno, sabaudi. (Mi sentirei, se la vanità prendesse il sopravvento, Monarca Assoluto di me stesso, ma prigioniero quale io sono della modestia!, quindi, stirneriano, ‘ripongo la mia causa sul Nulla’!). Come gli amici sanno e i lettori hanno appreso, io sono nato sì il 2 giugno ma di due anni prima, cioè, anche se per soli due giorni, appartenente di fatto e de jure alla Repubblica Sociale Italiana. Di conseguenza il ‘mio’ presidente, l’unico a cui posso voglio devo fare atto di obbedienza e tacito consenso, è Benito Mussolini che è stato assassinato e non dimesso… E da quel corpo, simile a bestia macellata, da quel corpo fatto scempio non è caduto dalle tasche neppure un centesimo (gli errori, anche gravi, appartengono ad altra sfera di considerazioni).
Al liceo, dove ho studiato dopo il perentorio invito a trasferirmici causa rissa nei gabinetti del precedente, il liceo classico Pilo Albertelli, ho conosciuto il figlio del presidente Gronchi, Mario, di un anno più grande, e i figli di Leone, accompagnati in macchina dall’avvenente madre, donna Vittoria, allora solo senatore ed essi ragazzini di scuola media. Non erano i ‘miei’ Presidenti e potevo sentirmi autorizzato a contrapporre la sempre più radicata visione del Fascismo ‘immenso e rosso’. (Ci sfottevamo e anche su questo con Mario, il quale, va a suo merito, non faceva pesare la sua condizione privilegiata). Ora che sono vecchio, con meno speranze ma più radicali certezze, cosa mi conta dell’attuale nuovo inquilino del Colle? Oltre tutto, pur se la fisiognomica non è una scienza, ha il volto ‘cattivo’, l’atteggiamento grigio e i modi degli inquisitori, di coloro che accompagnavano al rogo, nella pubblica piazza, gli accusati di eresia a cui, sotto tortura, era stata estorta piena confessione. Non andrò cercando ragioni e motivazioni di dissenso, che sono sovente la controparte di un riconoscimento dell’altro, non appartengo a questa forma di mefitico mosaico, posso solo dirmi e dire: ‘non sei tu, il mio Presidente!’… E tanto mi basta.
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