venerdì 6 febbraio 2015

In morte di Robert Brasillach “poeta della gioia di vivere”...


di Mario Bozzi Sentieri (Barbadillo.it)

Ha ancora un senso ricordare Robert Brasillach, a settant’anni dalla sua tragica morte, avvenuta il 6 febbraio 1945, sotto i colpi di un plotone d’esecuzione? Che cosa ci possono dire, oggi, la sua vita e la sua morte, intense eppure lontane, come le sue ultime poesie? Quali emozioni può evocare ad un giovane di questi anni, ad un ragazzo della “classe 1995”?
Rischia di essere fuorviante parlare, oggi, di Brasillach, rievocandone la fine emblematica, che lo ha trasformato nel simbolo della generazione dell’epurazione e della proscrizione politica, dopo averlo segnato con il marchio infamante del “collaborazionismo” con i tedeschi.
Strano destino quello di Robert Brasillach, sguardo da bambino, gioia di vivere, rapito dall’esempio dei giovani avanguardisti incontrati a Venezia, che cantano e gridano sotto “il più bel sole del mondo”, e poi costretto a rispondere di “alto tradimento” nei confronti della Patria, amata e cantata con dolore nei versi di “Il mio Paese mi fa male” e in “Testamento di un condannato”.
Un Brasillach “propagandista” – come affermava l’accusa ? O piuttosto un Brasillach coerente con se stesso, con la sua “visione della vita e del mondo” ? Questo ci dicono le sue opere complete, raccolte, a partire dal 1963, da Mauriche Bardéche . Dodici volumi di seicento pagine ciascuna: poesie e romanzi, saggi storici e di critica letteraria, articoli giornalistici e traduzioni. Il “martire di Fresnes”, la sua prigione, è questo: intellettuale di grandi orizzonti ed insieme simbolo di un’Europa lacerata e divisa da una guerra militare e politica che è stata – non dimentichiamolo mai – guerra civile di europei contro europei.
Nei giorni che seguirono la sua condanna , una petizione di famosi intellettuali, tra i quali Paul Valéry, Paul Claudel, François Mauriac, Albert Camus, Jean Cocteau, Jean Anouilh, Jean-Louis Barrault, Thierry Maulnier e tanti altri implorò al generale De Gaulle la grazia per il condannato a morte. La ragione di Stato prevalse sulle ragioni dello Spirito e della Cultura.
Come ha scritto Mauriche Bardèche: “… gli avversari che s’irrigidiscono, in un atteggiamento d’intransigenza, provano l’intima speranza che si dimentichi quel giorno della loro vittoria: che si faccia come se Robert Brasillach non sia mai esistito”.
Anche a destra – non sembri un paradosso – Brasillach ha patito l’oblio. Per ragioni ovviamente diverse da quelle dei suoi avversari. Troppo “lugubri” e privi di “gioia di vivere”, certi epigoni del neofascismo.
Si chiedeva, negli Anni Sessanta del ‘900, Giano Accame: “Perché Drieu è attuale, Céline è ancora attuale, e Brasillach non lo è? Perché Drieu e Céline erano dei disperati e Brasillach era pieno di felicità. Confesso: non riesco a leggerlo senza un senso di disagio; solo i suoi scritti dal carcere mi risultano sopportabili. Il suo ottimismo, la sua gioia di vivere oggi sono irritanti per le ragioni su cui si fondavano. (…) Con un po’ di vergogna al fondo di noi stessi ci ritroviamo adesso con lo spettro di Robert Brasillach, illuminato ancora con pallida luce dai nostri sorrisi incoscienti, dai nostri giuramenti mancati, dalle nostre canzoni, dai nostri fez neri con il fiocco…”.
Archiviata l’epoca dei “fez neri con il fiocco” – evocati da Accame – è il momento di tornare a guardare a Brasillach, cercando di cogliere il senso autentico della sua esperienza personale e politica, comune a tanti europei del tempo, esempio di ottimismo, di “gioia di vivere”, di speranza per l ’avvenire. Allora ricordare Brasillach avrà un senso.

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