di Michele Rallo
(ildiscrimine.com) – Ci siamo: le luttuose bandiere dell’ISIS sventolano sul golfo della Sirte e avanzano verso Tripoli. Ad uscire vincitore nel tribale tutti-contro-tutti seguìto all’assassinio di Gheddafi è stato infine il gruppo più forte, perché meglio armato; e meglio armato perché più ricco; e più ricco perché Qualcuno gli dà i soldi. D’altronde, l’intera vicenda della infame aggressione alla Libia laica e anti-fondamentalista è stata tutta una storia di soldi, un fiume di soldi con cui sono stati creati, reclutati, stipendiati e armati gli “eserciti liberatori” che nel 2011 sono stati lanciati contro le “milizie del regime”. [i virgolettati – naturalmente – sono ispirati al linguaggio dei media occidentali del tempo] E quando, nonostante i petrodollari, i gloriosi eserciti liberatori continuavano a prendere batoste dalle vituperate milizie del bieco regime, ecco il provvidenziale “aiutino” dell’Occidente democratico. Prima i bombardamenti ordinati dal marito di Carla Bruni, poi quelli della NATO decretati dal Premio Nobel “per la pace” Barak Obama, poi quelli addirittura dell’amica Italia, autorevolmente sollecitati da un Napolitano il quale tuonava: «a Gheddafi non sarà consentito di sparare sul suo popolo».
Ma recriminare serve a ben poco. È successo quel che è successo, e adesso siamo a questo punto: con la Libia proclamata una provincia del Califfato dell’ISIS, con l’esercito jihadista accampato a poche miglia da noi, con i barconi di migranti lanciati verso le nostre coste con evidente intento destabilizzatore, con gli oleodotti in fiamme (altro che forniture di gas per l’Italia!), e con certi “immigrati di seconda generazione” (diventati cittadini europei in forza dello ius soli) che operano in guisa di quinte colonne e disseminano attentati dalla Francia al Belgio e alla Danimarca.
Né si creda che il problema riguardi soltanto noi. Se l’ISIS dovesse vincere la sua “guerra di Libia” sarebbe l’intero fianco sud dell’Europa ad essere minacciato: dalla penisola Iberica alla penisola Balcanica, con l’Italia in prima linea – certo – ma con la Francia che ci segue a ruota. E c’è di più: la Libia non è un traguardo per il Califfato, ma un trampolino da cui spiccare il balzo verso i confinanti. Verso l’Egitto, ad est; verso la Tunisia e l’Algeria, ad ovest; verso l’Africa nera, a sud, verso il Ciad e il Niger che confinano – non si dimentichi neanche questo – con la Nigeria minacciata da Boko Aram.
Questo è lo scenario da brividi che i dilettanti americani (con qualche Pierino europeo al sèguito) ci hanno preparato. Perché? Perché non capiscono nulla di geopolitica? Forse. Perché obbediscono ciecamente ai loro alleati mediorientali? Forse. Per la precisa volontà di tenere l’Europa legata ad una NATO che ha ormai soltanto una funzione coloniale? Non vorrei crederlo. Per un mix di tutte queste motivazioni? È probabile.
Sia come sia, è evidente – a questo punto – che qualche cosa si dovrà pur fare per scongiurare che lo scenario di cui sopra abbia realmente a configurarsi. Che cosa? L’Italia – dicono i nostri governanti – «è pronta a fare la sua parte». Ma – aggiungono sùbito dopo – «nel quadro della legalità internazionale». La qualcosa significa – tradotto per i non addetti ai lavori – dopo una convocazione dell’assemblea dell’ONU, dopo una lunga e approfondita analisi dei fatti, dopo la determinazione dell’invio di una forza militare (probabilmente con còmpiti rigorosamente limitati e circoscritti), dopo aver faticosamente raggiunto un accordo sulla partecipazione dei vari contingenti nazionali, sulle catene di comando, eccetera. La qualcosa significa – traduco sempre per i non addetti ai lavori – che le truppe dell’ISIS avranno tutto il tempo di arrivare a Tripoli, forse anche a Tunisi. Nelle more, la Marina Militare italiana potrà ingannare il tempo andando a prelevare, fin sotto le coste libiche, i pattuglioni di profughi che gli jihadisti avranno deciso di mandarci incontro.
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