sabato 7 dicembre 2013

Vincitori e vinti all'ombra della storia...

di Mario M. Merlino (ereticamente.net)

Si dice – non ricordo dove l’ho letto – che la sconfitta sia, come la vittoria del resto, figlia di un padre austero e che abbia quale madre certa la verità. Suona aspro e categorico e impietoso come un passo edificante del filosofo Hegel, sebbene non sia citazione tratta da una delle sue opere. E i suoi discepoli, anche quelli eretici (giovani hegeliani secondo Karl Loewith o definiti da David Strauss, in precedenza, e poi dal Michelet quali appartenenti alla sinistra hegeliana), non furono da meno nel pensare che la storia sia sotto il dominio della necessità, di un fine ineluttabile (non descrivevano già con un senso tragico e grandioso i greci in questo modo il fato?).

Marx, che fu frequentatore di costoro e compagno di bevute, e i suoi ‘scolari’, nello specifico, si resero profeti di quel sol dell’avvenire ad annunciare un comunismo capace di appagare i bisogni, ritorno arricchito al paradiso primigenio e primitivo da cui, causa la divisione del lavoro, tutto aveva avuto il suo inizio. Storia di una spirale, storia sacra (anche qui il richiamo ad una provvidenza non può essere sottaciuto), storia insomma dove il rapporto delle umane azioni con il teatro delle marionette, l’opera dei pupi, si palesa brutale ed avvilente.
L’opera dei pupi, già, eppure… mi raccontava don Ciccio, Frank Coppola o Tredita (due le aveva lasciate, mi sembra, in un attrezzo agricolo), in un andar avanti e indietro nel cortiletto dei reparti infermieristici (luogo dei raccomandati) di Regina Coeli, come da ragazzetto a Partinico assistesse alle rappresentazioni delle vicende di Orlando re Carlo e dei paladini. E tanto era il coinvolgimento, soprattutto quando l’infame traditore Gano di Maganza, usciva indenne dall’aver venduto i suoi ‘comites’, che vi era una vera e propria rivolta, bambini ragazzi e adulti, contro il ‘puparo’. No, non era lecito che i traditori potessero sfuggire al fio della loro colpa – l’onore non si smercia, l’onore in primo luogo e innanzi tutto – che, per evitare di esser preso a pugni e calci, costui s’inventava all’istante un altro esito dove ‘l’ordine insegue il disordine’ (come pensavano, anche qui, precedendoci e imponendosi gli antichi greci).

E questo moto del cuore, questa rivolta apparentemente ingenua, che però nascondeva un rito comunitario, un senso d’appartenenza alle leggi eterne sancite dalla trasmissione orale e dall’azione riparatrice (ad esempio ‘il sasso in bocca’) stabiliva – inconsapevolmente e si potrebbe osare darle il nome di ‘metafisica’ – che la storia può e deve essere cambiata se con la sua pretesa di razionalità o materialismo deturpa offende si scaglia contro un altro modo, immarcescente e immutabile, d’intendere la misura del tempo…

(D’altronde il ‘nostro’ Maestro, tramite l’annuncio dello Zarathustra, ci ha educato a concepire la verità niente più di una opinione, un’opinione che ha trovato la forza d’imporsi… e Martin Heidegger, resosi edotto da simile insegnamento, ha fatto risalire il fraintendimento del principio di verità in Platone con il suo confondere l’Essere con la determinazione delle Idee, assise nell’aurea dimora dell’Iperuranio e dando loro il carisma d’essere e vere e belle e giuste…).

Ho negli occhi ancora le immagini delle gabbie dove erano esposti, nelle aule delle Corti d’Assise di tante parti d’Italia, i brigatisti rossi suddivisi in irriducibili dissociati pentiti, tre o quattro in una, pari numero in altra ed altri in un’altra ancora. E tutti esibivano pugni chiusi leggevano proclami s’appellavano al proletariato di ogni parte del mondo e si assumevano l’onore e l’onere d’esserne guida sicura e assoluta disegnavano scenari di guerra di tutti contro tutti, un’internazionale in armi… tre o quattro in una gabbia, tre o quattro in un’altra ed altri ancora in una terza…

(La storia, l’antistoria, le storie…).

Pomeriggio grigio e piovoso di un sabato qualunque. Le serrande dei negozi abbassate, serrati i portoni, rari e frettolosi i passanti e il corteo si snoda per le strade della città, due tre cinque mila giovani facce dure e duri slogans, passamontagna sciarpe eskimo bastoni spranghe molotov e, in fondo a proteggere la coda del corteo, le P38. Come i topi della fiaba, il pifferaio di Haemlin, signori delle tenebre, padroni del nulla. Arroganti e presuntuosi e illusi d’essere nel grande alveo del presente in marcia verso un certo futuro…

E, dall’altra parte, cacciati dalla storia e dalla società, senza dio né inganni, folli e disperati, poeti senza versi, poche decine, mani levate gli stessi bastoni le spranghe la molotov e la P38, nostalgia del passato attimi di presente zero futuro…
(Coloro che si sentivano ormai dalla parte dei vincitori; coloro che da vinti si dichiaravano fascisti per stabilire se qualcuno valesse o meno. Il regno della qualità contro il dominio della quantità…).

Su entrambi è passato il vento della storia, molti ne ha abbattuti, ad altri ha regalato nel rinnegamento un effimero successo – deputati giornalisti liberi professionisti -, altri ancora li ha avvolti nell’ottenebramento e dalla memoria ha sottratto i sogni e gli ideali della loro giovinezza… solo di alcuni si è trovato impotente perché, chissà come, essi possedevano forti radici e si rendevano incuranti di fronte al cambiamento.

Più facilmente è trovare fra questi ultimi coloro che s’erano collocati – chissà come e perché – in quella ‘nobiltà della sconfitta’ (sebbene il riferimento vada al titolo del bel libro di Ivan Morris sulle gesta e sull’etica dei samurai, il pensiero si fissa sugli eroi della tragedia greca, in piedi tra le rovine). Ne parlavo ieri mattina davanti ad un cappuccino in un bar della periferia romana ad ex miei alunni e, lo confesso, un po’ tronfio, aggiungevo, identificandomi… che forse in loro, in oscuri meandri della mente e del cuore, vittoria e disfatta e la verità s’erano rese orfane…

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