di Renato de Robertis (barbadillo.it)
Comandanti
ammirati. Italiani apprezzati. Soldati che facevano la guerra del
secolo, loro malgrado. Soldati che odiavano i tedeschi. Come Amedeo
d’Aosta, l’ultimo viceré, il principe-comandante da cui dipendevano le
sorti del piccolo impero italiano, in Africa orientale nel 1940. “Se si
deve cadere, cadremo in piedi” disse prima di essere sconfitto. E di
fronte alla resa italiana, gli inglesi gli offrirono l’onere delle armi,
dopo le battaglie dell’Amba Alagi, nel 1941.
C’è una fotografia di quei giorni dolorosi con il duca che osservava il
nemico dalla montagna e di fronte aveva gli spari dell’artiglieria
nemica. Sulle rocce africane la sua figura in bianco e nero dice che
Amedeo stava perdendo la sua guerra, però, nello stesso momento, stava
difendendo, come un leone, i suoi 3.800 uomini.
A settanta anni dalla sua tragica fine, cosa sanno i ragazzi di questo
militare? Chi ha scritto, per l’ultima volta, sulla parabola umana di
questo soldato? Nessuno. Pochissimi hanno negli occhi la cartolina di
Boccasile, schizzata con colori morbidissimi, in cui l’anima del
duca-comandante sfuma dentro i colori del tricolore.
Qui non si vuole compiere una glorificazione delle memorie nazionali. Si
sa, per chi fa storia, il rischio più probabile è la retorica. Qui si
tenta di esprimere una necessità critica, cioè questa: bisogna
riprendere il filo della narrazione per restituire, alle giovani
generazioni, le vicende di dignità italiana travolte dall’oblio,
purtroppo. Agli uomini che fecero quella guerra, con innocenza e
idealità, a quegli uomini va ridata la parola, per farli uscire dal
girone dell’oblio.
Allora leggete il recente libro di Paolo Mieli, I conti con la storia
(Rizzoli, pag. 394, euro19.50) per comprendere che la funzione dello
storico è il rimuovere i divieti per ridare la voce agli uomini caduti
in dimenticanza a causa delle interpretazioni ideologiche. Ecco perché
qui si racconta Amedeo d’Aosta, un comandante che assunse valorosamente
una posizione di difesa pur di salvare il suo esercito in Africa.
Concentrando su di sé il fuoco inglese, egli salvò i suoi soldati. Prima
di quel famoso scontro bellico, gli offrirono un aereo per scappare.
Non lo accettò. La sua vita non valeva di più di quella dei suoi fanti
nazionali o indigeni. Finì prigioniero degli inglesi e in un letto
d’ospedale morì, invocando l’Italia.
Troppe volte la storia è stata scritta con l’idea della morte della
patria e con la vergogna del 1943, questo perché gli italiani avevano
tragicamente errato. Ma gli italiani, come Amedeo d’Aosta, con la loro
vita scrissero pure che quello era il tempo tragico del dovere, “Non
importa quanto potremo resistere: conta fare il proprio dovere…”
Per molti la patria non morì dopo le sconfitte del 1941 o del 1943; non
morì perché in tanti difesero le sorti del proprio esercito, perché non
pensarono agli interessi individuali prima e dopo la battaglia, e
perché la loro patria non era il Fascismo, ma qualcosa più grande, cioè
una storia lunga secoli. L’impegno critico attualmente ha una
chance:abbandonare categorie storiografiche obsolete per far riemergere
il vissuto del ventesimo secolo o le figure storiche che furono
insabbiate da una storiografia che aveva solo uno scopo: far
dimenticare i grandi italiani non di sinistra, così riducendo la
complessità di un’ epoca.
I giovani affogano in una storia generalista mal compresa. E vivono in
un’orgia comunicativa in cui sembra che non ci sia spazio per i miti
nazionali. E’ discutibile che, nei manuali di storia, gli editori non
propongano spazi tematici di memoria condivisa e non prospettino
l’analisi degli eventi della giusta risolutezza militare, da El Alamein
alle azioni ardimentose della Marina militare. Ora l’idea è promuovere
nuove programmazioni storico-didattiche, come reazione alla diminuzione
delle memorie nazionali, per decretare il superamento di una certa
analisi storica, la quale fu impudentemente politica.
Dunque si dovrebbero riscrivere alcuni manuali. Per mettere in evidenza
storica gli uomini che non scapparono, anche se travolti da eventi
tremendi, e che furono tanti, tanti come Francesco Baracca, Armando
Diaz, Luigi Rizzo,.. sino a Amedeo d’Aosta, il comandante ammirato, il
comandante del sacrificio.
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